“JOSEF SUDEK: PHOTOGRAPHS.”
di Carter Ratcliff
da: The Print Collector’s Newsletter, vol. 8, no. 4, 1977, pp. 93–95.
Traduzione di Andreina Mancini
Nel 1976 Josef Sudek e Anna Farova, curatrice della sezione di fotografia del Museo delle Arti Decorative di Praga, organizzarono una mostra delle fotografie di Sudek da esporre all’International Center of Photography di New York. Anna Farova aveva in programma di portare la mostra negli Stati Uniti. Poi le fu revocato il passaporto.
Lei, insieme ad altri 600, aveva firmato la Carta 77, un documento di protesta contro le violazioni dei diritti umani in Cecoslovacchia. L’ICP rifiutò di accettare la mostra di Sudek se la Farova non avesse potuto essere presente. Al posto di quella mostra, l’ICP mise insieme una selezione di fotografie di Sudek prese dalle collezioni americane.
Quella che finalmente apparve fu una notevole mostra realizzata con l’aiuto di Sonja Bullaty che, con suo marito, Angelo Lomeo, da tempo raccoglieva le opere di Sudek a New York. L’ICP in pratica allestì una contromostra al posto di quella vietata dalla burocrazia cecoslovacca. Allo stesso tempo, preparò una mostra commemorativa per Sudek, morto nel settembre 1976 all’età di ottant’anni.
Sono rappresentati tutti i generi dell’artista: ritratti, nudi, nature morte, “Rimembranze” simboliche, esterni visti attraverso le finestre, vedute urbane, paesaggi. Ciò che mi colpisce delle fotografie più forti di Sudek è il modo in cui mediano tra le intimità del primo piano e le sublimità della grande distanza. Un piano molto vicino – una finestra appannata, un cespuglio di arbusti in fiore – è spesso trascinato in una via di mezzo da ciò che esso vi rivela.
Oppure una forma lontana – un castello arroccato, la sagoma di un albero – viene avvicinata dalla ricchezza strutturale che riconduce da lontano verso l’occhio. Le fotografie di giardini di Sudek sono spesso composte interamente da una via di mezzo. Con la rigogliosa moderazione degli arbusti e degli alberi e le posizioni attentamente studiate dei tavoli e delle sedie, queste immagini simboleggiano un ideale sociale, un ideale di possibilità civile.
Per molti in Europa occidentale e in America, la parte del mondo di Sudek, l’Europa orientale, è un luogo misterioso, la patria dei lupi mannari e dei vampiri – o degli orrori di una varietà kafkiana più sofisticata. Quando l’orrore sfuma, spesso l’immaginazione dell’Occidente lo sostituisce con il pittoresco. L’Europa orientale diventa il luogo delle fiabe, delle città antiche dove le porte si aprono sul Medioevo. Le fotografie di Praga di Sudek fanno molto per sfatare questi cliché.
Soprattutto nelle sue immagini di edifici la luce è un dato di fatto. A volte un po’ severa, è sempre costante. Le fotografie trasmettono una forte sensazione del tempo meteorologico, ma niente della drammaticità atmosferica che fa sentire Londra e Amsterdam così familiari al primo contatto con i newyorkesi. Praga è lontana dal Nord Atlantico. Sudek presenta la città come priva di sbocchi sul mare ma non claustrofobica – di certo non avvolta da nebbie medievali.
Le sue fotografie della costruzione della Cattedrale di San Vito (1924-25) sono state citate come primi esempi di pittorialismo romantico. È vero, la luce si riversa attraverso le finestre gotiche in fasci luminosi: i pilastri svettanti si contrappongono alle carriole e ai cumuli di materiali da costruzione. Queste immagini potrebbero essere interpretate come tentativi di evocare secoli passati attraverso la fotografia. Ma il fatto è che la Cattedrale di San Vito, iniziata nel tardo Medioevo, è stata terminata solo in questo secolo. Sudek ha registrato un processo storico portato a compimento nel suo tempo.
Non sto negando il romanticismo di Sudek, sto solo suggerendo che è ancorato all’epoca attuale. La luce intensa e la grandiosità gotica delle fotografie della Cattedrale di San Vito sono, in un certo senso, fenomeni quotidiani. Sudek ne prende atto con un approccio che unisce l’immediatezza dei fatti al rispetto per la risonanza storica ed emotiva.
Anche altre fotografie degli anni ’20 dell’ospedale dei veterani di Praga, delle domeniche pomeriggio sull’isola di Kollin, sono luminose. A volte l’inondazione di luce solare è così forte che Sudek lascia che offuschi la messa a fuoco. Figure, fogliame e mobili sono privi di individualità. Questa generalizzazione è stata definita antirealistica, ma è una questione di interpretazione.
Lungi dal disumanizzare o sentimentalizzare le sue prime passeggiate, e i veterani, il loro essere anonimi li fa diventare simboli urbani, surrogati per l’osservatore e, naturalmente, per l’artista – lui stesso veterano della prima guerra mondiale, nella quale aveva perso il braccio destro. Il soft focus può essere visto come uno dei primi mezzi di Sudek per raggiungere realtà al di là di quelle di individui particolari. Lo ha utilizzato nello sviluppo di un realismo romantico interessato, ossessionato dall’esperienza che si verifica nella via di mezzo largamente condivisa dell’immaginazione.
Ma qual è quell’esperienza? Sebbene durante la sua carriera nella città di Sudek si siano verificate crisi dopo crisi, di nessuna di esse – dopo le fotografie dell’ospedale dei veterani – è stata ritrovata traccia nel suo lavoro. Alcuni commentatori di New York hanno obiettato a questa scelta. Quando l’Europa dell’Est non è una terra di bizzarria letteraria o di orrore per gli occidentali, molto spesso diventa l’occasione per risposte politiche automatiche – anticomuniste. antisovietiche. Così Sudek è stato definito un uomo che fugge dalla realtà perché il suo lavoro è sistematicamente apolitico.
A Praga giardini, edifici e parchi si sono moltiplicati nel corso dei secoli. Hanno significati e bellezze che, come suggerisce l’opera di Sudek, persistono nonostante il caos e gli sconvolgimenti. Egli registra il suo mondo come un distillato di storia, non come dimostrazione della sua angoscia. Così l’esperienza offerta dalla sua arte è di serenità e di stabilità. Queste proprietà sono qualificate dalla concretezza e dalla gravità che ho menzionato prima, ma non sfumano mai nella solennità, tanto meno nella tristezza.
Sudek dà alla sua solita calma un unico forte contrasto in una scena notturna senza data, intitolata Remembrances, Uneasy Night. (Rimembranze. Notte inquieta). È un’immagine più piccola (circa 7-1/2 x 6 pollici). La sagoma di una costruzione si intravede contro il cielo notturno. Le luci dell’edificio danno scarsi indizi sulla sua forma perché sono sfocate, come se fossero viste attraverso un vetro su cui scorre la pioggia. L’effetto è inquietante, ma non per una ragione evidente, né semplicemente perché l’immagine è notturna, né perché è poco chiara.
Le ambigue immagini notturne di Sudek raggiungono quasi sempre un’atmosfera serena. Uneasy Night si distingue per la difficoltà che si incontra nell’andare dal piano più vicino dell’immagine, la fonte della sfocatura, al piano più lontano, la facciata illuminata dell’edificio. Non c’è modo di entrare dentro lo spazio della fotografia. La luce, diffusa e mutevole, si stacca dalla distanza in cui si manifesta, ma non viene a posarsi in primo piano. L’inquietudine, per Sudek, si manifesta quando perde la comprensione della struttura del suo ambiente, quando l’occhio non può muoversi con fiducia attraverso lo spazio e sopra le trame della sua città.
Serenità, disinvoltura, una sensazione di sicurezza nell’affrontare l’aspetto delle cose: tutte possono coesistere con l’ambiguità. Sudek insiste, tuttavia, affinché l’occhio abbia accesso immediato alle sue immagini e tutte le difficoltà incontrate lungo il percorso siano risolvibili. I contrasti più evidenti con Remembrances, Uneasy Night sono forniti dalle altre sue scene notturne. In una serie di piccoli appunti fotografici del 1958, edifici scuri e fogliame appaiono contro il cielo notturno. Le superfici di queste stampe mostrano una sottile scala di grigi vellutati che l’occhio traccia con l’aiuto di piccole macchie di luce – lampioni, finestre, riflessi nell’acqua.
Sudek si posiziona in modo tale che il tracciato sia un’esperienza ricca, complessa e rassicurante. La notte è buia, si, ma si può trovare una via chiara al suo interno e, presumibilmente, al di là di essa. Egli sfrutta il fatto che le finestre e i lampioni sono al tempo stesso marcatori stabili nell’oscurità e fonti di luce radiante. In una di queste note fotografiche, una lampada in primo piano fa risaltare la trama di una strada acciottolata.
Si può leggere questo come un elemento formale, deboli macchie di luce disseminate qua e là che conducono a controparti più forti e più distanziate (le finestre più in profondità nell’immagine). Oppure si può leggere il modello in chiave naturalistica. In entrambi i casi, lo spazio è inserito, definito, contenuto, centrato sulla sua via di mezzo.
I panorami di Sudek riconoscono che la nostra visione, non importa quanto focalizzata sulla chiarezza davanti a noi, è sempre anche periferica. La maggior parte di queste immagini ha una proporzione di circa 1 a 3-1/2. Anche quando sono stampate in dimensioni molto piccole, l’occhio non può abbracciarle facilmente. Eppure c’è ancora una sensazione di agio, di definizione e di contenimento. Panorama, Praga (1950-58) mostra una passeggiata lastricata, fiancheggiata da panchine lungo il lato inferiore. Alberi in fiore compaiono sopra la passeggiata e, al di là di essi, ci sono tetti e piani alti di edifici. Il processo panoramico distorce l’immagine all’estrema sinistra e all’estrema destra, tuttavia non c’è alcun senso di disagio fisico.
Sudek ha tenuto sotto controllo le distorsioni dell’obiettivo utilizzandole per evocare le naturali distorsioni della visione periferica, così come la sensazione di muoversi nello spazio. Anche se a prima vista sembra strano, in questa fotografia si può immaginare di percorrere l’intera lunghezza del marciapiede, anche nelle sue parti deformate e allungate. O forse si immagina di averla percorsa. Le distorsioni panoramiche di Sudek suggeriscono le compressioni e le elisioni della memoria spaziale. In ogni caso, il suo lavoro in questo formato accetta la sfida alla chiarezza offerta dalla periferia e, il più delle volte, la vince.
Il controllo è mantenuto, non imposto. Sudek estrae le sue città dalle apparenze ordinarie e dalle capacità familiari del suo mezzo. In alcuni dei suoi panorami appare al centro, in primo piano, un tronco d’albero o un tavolo da giardino con frutti o conchiglie e statue, fiancheggiati da profondità che non si allontanano mai oltre le medie distanze. Il panorama è unito alla natura morta. Lo spazio visivo rimane accessibile per tutta la sua ampiezza.
La maggior parte dei panorami di Sudek mostra la campagna oltre i confini della città. Parchi e giardini cedono il posto ai pascoli. L’orizzonte è solitamente portato fino al punto medio dell’immagine o più in alto. Il cielo sembra così contenuto, il suo vuoto è definito dalle sagome degli alberi e degli edifici. Oppure il cielo si fonde con la nebbia, che lo avvicina al primo piano, focalizzando lo sguardo sulle immediatezze formali e materiche.
A volte Sudek presenta una striscia di immagini sottile e appiattita. Altre volte enfatizza la spazialità includendo modi di muoversi attraverso la striscia chiusa: due sentieri, un sentiero e una strada, una strada e un fiume. La molteplicità è accettata, insistita, perché chiarisce tanto quanto le sue complessità. In un panorama di Sudek, questi doppi mezzi di accesso possono essere paralleli o divergenti. In entrambi i casi, alla fotografia viene data una struttura e all’occhio un punto di osservazione stabile.
I panorami di edifici cittadini mostrano spesso la stessa doppiezza controllata, con due strade che si allontanano in modo netto dallo spazio del primo piano. I luoghi sono tracciati in modo da evocare le abitudini dell’occhio mentre guida il corpo nello spazio. Questo richiama la facilità e la serenità delle piccole immagini notturne di Sudek – la fotografia viene aperta e le sue ambiguità sono rese disponibili. Le risposte estremamente specifiche dell’artista a luoghi particolari esercitano un severo ma garbato senso dell’ordine.
Egli suggerisce che accessibilità, calma, stabilità e bellezza possono essere rese evidenti da un certo tipo di visione. Questo, a sua volta, permette di affermare che a Praga e nei suoi dintorni esiste ancora uno strato di valore umano, nonostante l’esperienza storica estremamente difficile della regione.
Sudek è attratto da comuni angoli di strade, da periferie desolate, da scene notturne anonime e da pascoli vuoti, tanto quanto è attratto dai monumenti culturali della sua città. Si tratta di mettere in evidenza quello che è facilmente trascurabile, una tecnica che ha affinato la messa a fuoco dell’obiettivo di Sudek all’inizio della sua carriera. La sfocatura quasi impressionista scomparve negli anni ’30. E, insieme ad essa, le persone sono scomparse quasi completamente. La messa a fuoco nitida si concentra sui soggetti umani, e questo ridurrebbe Praga a una scenografia, a uno sfondo. Sudek fa esattamente il contrario.
Egli mette in evidenza l’umana inerzia del suo mondo, il suo cumulo di valore intrinseco. Questo dona alle sue immagini non solo i loro contenuti disabitati, ma anche il loro sapore romantico. È il Romanticismo, dopo tutto, che ha fornito alle formulazioni ottimistiche dell’Illuminismo un radicamento nell’immaginazione individuale. O forse il romanticismo era un’estensione tramite l’immaginazione dell’interesse dell’Illuminismo per l’individuo.
In ogni caso, il nostro senso del valore umano è mediato dalle nozioni di individualità, che è sentita come una forza generativa, un punto di partenza per la possibilità. Ci aspettiamo di vedere il mondo rifatto dal singolo artista, e i rifacimenti di Sudek gli chiedono di proteggere il suo mondo dal sapore di contingenza che sarebbe trasmesso dalla presenza sulla scena dei suoi concittadini di Praga.
Ecco un paradosso – la forza dell’individualità di Sudek richiede che gli altri siano esclusi o generalizzati. Egli entra in contatto con l’individuo nel ruolo di spettatore, non in quello di soggetto. Si diventa il surrogato dell’artista scoprendo la ricca accessibilità delle sue fotografie, e questo è davvero romantico. L’artista invita lo spettatore a diventare suo pari, ad esercitare una creatività simile. Che ciò sia possibile o meno, è una variazione della posizione assunta dagli artisti più forti degli ultimi due secoli.
Mostra quella che potrebbe essere definita la generosità romantica di fronte al mondo e al pubblico, e svela un altro aspetto dell’umanità di Sudek. Non si è quindi sorpresi di vedere l’atelier piuttosto umile dell’artista presentato in termini formali che ricordano le sue fotografie di palazzi e di chiese. Non si tratta di un’affermazione di grandezza personale. Piuttosto, l’artista ha estratto le sue preoccupazioni immediate dalla parte più familiare del suo mondo per indicare equivalenze trascurate.
Nella sua ampia serie di Windows (Finestre) (1940-55) carica di agenti atmosferici, i mobili da giardino, i panni stesi, un tronco d’albero, sono visti attraverso il vapore, la pioggia o il gelo. La stessa combinazione tra primo piano e distanza si verifica nei suoi panorami e in altre immagini di soggetti su larga scala. Anche qui Sudek va oltre l’autobiografia per dare pieno vigore ai poteri ricreativi della sua immaginazione individuale.
Queste fotografie, scattate dall’interno del suo mondo privato, sono intime allo stesso modo delle sue fotografie di strade, edifici e pascoli non come documenti confessionali ma come immagini di significati fondamentalmente umani rinnovati e resi accessibili per essere stati molto avvicinati, per aver chiarito le loro trame spesso ambigue. La fotografia di Sudek dello straordinario mucchio di carte sulla sua scrivania non è tanto un’occhiata dentro la vita dell’artista quanto un sorprendente suggerimento di equivalenza con l’architettura.
Inutile dire che l’atteggiamento romantico di Sudek porta con sé l’iconografia romantica. I suoi castelli e le sue nebbie concrete, il suo atelier, i tronchi d’albero abbattuti, le cattedrali e le strade acciottolate delle sue fotografie evocano tutti la pittura romantica come veniva praticata in Europa dell’Est e dell’Ovest, e in America, per tutto il XIX secolo e nel XX. Il surrealismo è stato un erede diretto del romanticismo. La sua impronta si avverte nelle misteriose nature morte di Sudek —Musical Instruments (Strumenti musicali) (1972) e Remembrances of Sonja and Angelo (Rimembranze di Sonja e Angelo) (1968)— e in A Joke (Scherzo) (1953), che mostra due biglie incastonate nelle cornici vuote di un pince-nez.
Per la maggior parte di questo secolo, ci si aspettava che l’artista si spingesse oltre la portata del passato verso gli assoluti dell’innovazione. Questo era l’ideale dell’avanguardia, che è stato riconosciuto come irrealizzabile. Il passato persiste, non solo come fonte di interesse, ma come base per l’intelligibilità del presente.
Avendo iniziato a capire questo, siamo in una posizione migliore per capire Sudek. Egli porta avanti lo sfondo umano della storia, collocandolo in una zona intermedia condivisa di valore attuale – e questo lo conduce a un’iconografia e ad atteggiamenti che sono romantici, spesso nel più rigoroso senso storico dell’arte.
Carter Ratcliff, critico d’arte e poeta, collabora con Art in America e con altre importanti riviste d’arte.