LE SINOPIE DEGLI AFFRESCHI DI MASOLINO
NELLA CAPPELLA DELLA CROCE
IN SANTO STEFANO DEGLI AGOSTINIANI
di Ireneo Lazzaroni
Da: Bullettino Storico Empolese
Vol. I – Anno 1, n° 2 1957/2
Editrice Caparrini, Empoli
Una circostanza davvero eccezionale sembra aver portato Masolino nella nostra città, nel 1424. Ugo Procacci, attento e documentato come sempre, osserva che il periodo della sua attività in Empoli corrisponde a quello di un massiccio esodo da Firenze, che si verificò per effetto di una pestilenza che già aveva falcidiato un gran numero dei suoi abitanti. E conclude: « È probabile quindi che anche Masolino cercasse in quell’anno un lavoro fuori città e si recasse a Empoli » (1).
Non sappiamo con certezza se questa circostanza, o questa sola, sia stata determinante; comunque l’osservazione è molto acuta e conviene metterla in giusto rilievo.
Un completo inventario di quanto prese vita dal pennello di Masolino, qui in Empoli, non ci è dato di riportarlo. Ci limitiamo perciò a citare quelle opere di ormai certa attribuzione che tuttora esistono o delle quali si ha una traccia documentata e materiale (come nel caso degli affreschi della Cappella della Croce in Santo Stefano).
Premesso che, ad eccezione della « Pietà », un tempo affrescata nel Battistero ed ora collocata nella nostra Pinacoteca (2), tutti gli altri dipinti sono stati eseguiti nella Chiesa degli Agostiniani, passeremo in breve rassegna questi lavori empolesi riservandoci un più dettagliato esame delle sinopie degli affreschi della Cappella di S. Elena (o della Croce). Teniamo a giustificare questa disparità di trattamento, col fatto che su quest’ultime non esiste praticamente alcuna pubblicazione che non sia generica, mentre le altre opere godono di una loro particolare bibliografia, che, se pur non abbondante, è almeno sufficiente a riferirne pregi e manchevolezze, secondo lo spirito critico dei varii autorevoli commentatori. La particolare e peculiare caratteristica di questa pubblicazione, che impone la trattazione di nuovi temi e che pertanto dà per scontata la conoscenza di quant’altro è già stato pubblicato sugli argomenti, consente solo brevi accenni ad ampliamento delle citazioni: a questo spirito è strettamente aderente la natura del presente scritto.
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Se il Burckhardt (3) e lo Schmarzow (4) attribuirono a Masaccio la «Pietà» empolese, al Cavalcaselle (5) si deve un primo accenno alla probabilità che la mano di Masolino non dovesse essere estranea all’affresco del Battistero, in merito al quale veniva ad affacciarsi l’ipotesi di una collaborazione fra allievo e maestro. Il Carocci prima (6) e il Berenson poi (7), sulla scorta di molto probanti elementi di raffronto stilistico, esclusero l’intervento di Masaccio e attribuirono a Masolino la paternità, oggi universalmente riconosciuta, di quell’opera che Umberto Baldini non esita a definire «uno dei più grandi capolavori della pittura di tutti i secoli» (8).
Nella «Pietà» gli elementi figurati, sobriamente ma efficacemente descritti, si staccano sul fondo verdastro della composizione con una consistenza plastica che inserisce direttamente l’osservatore nel luogo, nel tempo, nell’azione. Sulla nobiltà del Cristo morto, sull’amorevole gesto di Giovanni, «bellissimo adolescente dalla lunga chioma bionda» (9), sovrasta la muta, profonda, desolata espressione del pathos, dipinta sul volto sofferente della Madonna. Il dramma è vissuto nel più intimo dei suoi particolari, e, al tempo medesimo, è tratteggiato con una potenza lirica che transumanizza la stessa manifestazione del dolore.
Se in quest’affresco Masolino rivela una straordinaria capacità di interpretare un sentimento profondo, tragico, passionale, quanta sublime poesia, quanta pacatezza d’immagini traspaiono dalla lunetta della «Madonna col Bambino ed angioli» di S. Stefano! E qual valido attestato della sua grande versatilità scaturisce da un semplice raffronto fra questi due affreschi!
Qui, nella lunetta della porta di sacrestia, è soffusa un’aria di profondo misticismo: è un invito all’amore, che promana in particolar modo dall’ieratico, divoto atteggiamento di quei due angioli così delicati, così eterei; è un invito alla pace espresso dalla serenità del pur maestoso volto della Vergine Madre; è un invito alla fede che il piccolo Gesù esprime col suo gesto benedicente e più esplicitamente dichiara attraverso il motto dipinto sul cartiglio: «Ego sum lux vitae».
Il Toesca (10) descrisse la Madonna come « radiosa di intima luce nella bianca veste che brilla fra l’azzurro denso del manto, nel viso di un chiarore di paradiso…. »; ma quell’azzurro denso era allora dovuto ad un tardo ritocco che è stato in seguito asportato per ritrovare il colore originale (o meglio quel che rimane del colore originale).
Dell’oro del fondo e dell’aureola del Bambino resta soltanto qualche traccia, del tutto scomparsa, d’altra parte, nelle aureole in rilievo degli angioli.
I lavori per il restauro della Chiesa che fu già dei frati agostiniani, iniziati nel 1943, portarono in luce molti pregevoli particolari; fra questi, lungo la parete del transetto di destra che va in sacrestia restano ancora i segni della mano di Masolino: frammenti di architetture gotiche, tarsie, due stemmi medicei. Il tutto concorre a farci immaginare un’opera di cospicue proporzioni, che, se conservata, avrebbe di certo notevolmente contributo a fare di questa chiesa il piacevole richiamo turistico della nostra città. Purtroppo quel poco che è stato risparmiato alla feroce manìa distruttiva degli uomini non può darci che una molto pallida idea di come sia stato impostato e risolto il problema decorativo di questo tempio, che godendo nel passato il privilegio di contenere opere insigni dello Starnina, di Bicci di Lorenzo, di Lorenzo di Bicci, di don Bartolommeo, di Bernardo Rossellino e del Cigoli (11), poteva a giusto titolo essere considerato come sacrario d’arte.
Un folto gruppo di bambini paffutelli e biondi rivolti verso un santo (S. Ivo?), disposti in un ambiente architettonico come a formare un coro di chierichetti, ha fatto trovare termini di stretto parallelo con quanto compare a Castiglione Olona (12). Il disegno è sobrio e indulge forse ad intenzioni preminentemente decorative; ma la delicatezza dei toni, la sfumatura del colore, la voluta ingenuità delle espressioni, la cura minuziosa di certi particolari, conferiscono all’opera un interesse notevole. Del santo è rimasta soltanto una piccola parte del manto d’ermellino; e l’identificazione del soggetto proposta non trova corrispondenza nell’iconografia che il Vasari ci dà a proposito del S. Ivo di Masaccio (13). Non possiamo entrare in merito alla questione, supposto anche che avessimo argomenti per farlo, in quanto rischieremmo di varcare i termini che ci siamo prefissi.
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La chiesa di S. Stefano fu costruita nel XIV secolo dai frati agostiniani, accanto al loro convento (14). Soltanto uno dei suoi lati (il fianco sinistro), correndo lungo l’attuale Via de’ Neri, offre possibilità d’accesso, ed è molto improbabile che questa chiesa abbia avuto un giorno una facciata vera e propria, frontale rispetto all’altar maggiore. Non c’è che da compiacersi con i redattori del nuovo piano regolatore urbano che prevede l’isolamento del tempio con l’abbattimento dei vecchi edifici che ne occultano ora il lato occidentale. Il giorno che questo progetto troverà la sua realizzazione, anche il problema della facciata sarà risolto; ma prima ancora occorrerà riparare al grave danno apportato alla Chiesa dalla distruzione della sua bellissima torre campanaria, snella, elegante, di cotto rosso e pietra: al suo indubbio elevato valore artistico non va disgiunto un non meno elevato valore affettivo per conto di tutti gli empolesi, che per l’opera del Landini hanno sempre conservato una particolarissima predilezione. Oggi che i relativi disegni con misure sono stati ritrovati dall’infaticabile Procacci, la ricostruzione del campanile è soltanto vincolata allo stanziamento dei fondi necessari. Stanziamento che, a quanto pare, non dovrebbe tardare molto.
Si veda anche quanto riferisce il Lazzeri nella Storia di Empoli a pag. 25 (anno 1295).
L’interno della Chiesa, originariamente ad una sola navata (come ebbe a scoprire nel 1943 Ugo Procacci), si presenta ora a tre navate con archi ogivali e tetto a travature scoperte, per effetto di un rifacimento che risale al terzo decennio del cinquecento; delle sue undici cappelle, due stanno ai lati dell’altar maggiore; quattro sono sul lato sinistro e cinque sul destro.
Di queste cinque, l’ultima a cominciare dal presbiterio è quella di Sant’Elena, detta anche più comunemente Cappella della Croce dal nome della congregazione di laici, che la possedeva, ossia quella Compagnia della Croce, la cui interessantissima storia è oggi soltanto in parte conosciuta per quanto ne han riferito il Poggi (15) e il Giglioli (16).
In questa Cappella Masolino dipinse le «Storie della vera Croce», allogategli appunto dalla Compagnia. Lo scarso materiale documentario che possediamo in proposito è nondimeno sufficiente a fornirci alcuni dati biografici di questi affreschi: la paternità, la data di nascita e il decreto di morte.
Su una vecchia carta conservata nell’Archivio di Stato di Firenze (17) si leggono queste parole:
….Ancora troviamo che detta cappella di sopra nominata che la compagnia fece dipingere per infìno addì 2 novembre 1424, pagamo a Maso di Cristofano (18) dipintore di Firenze fiorini settantaquattro d’oro come apparisce in su gli antichi libri….
Per quanto non risulti troppo chiaro se la data citata si riferisca all’allogazione o al pagamento di un’opera già compiuta, la parola « pagamo » (= pagammo) farebbe piuttosto propendere per la seconda interpretazione. E volendo esprimere in termini numerici un raffronto con i valori attuali della moneta, potremmo far ascendere il costo del lavoro, con un’approssimazione alquanto vaga, a non molto più d’un milione delle nostre lire. Si osserva, incidentalmente, che l’intera cappella era stata acquistata dalla Compagnia (il 20 agosto 1397) per una cifra considerevolmente più bassa, ed esattamente per centoventi lire e diciotto soldi (19), che sono, ovviamente, lire e soldi d’allora.
Se la memoria citata è abbastanza esplicita nel riferirci molti particolari attinenti alla frescatura della cappella, altrettanto esplicito è un altro documento che riguarda la distruzione di questo capolavoro.
È con profonda pena, infatti, che apprendiamo, da un atto deliberativo dei Frati (20), tornati in possesso della cappella in seguito alla soppressione della Compagnia (1785) da pochi anni, che
….A di 25 agosto 1792. Avendo il Pre. Baccl, Luigi da Pistoia attuale sagrestano e Figlio di questo nostro convento conceputo idea sino da qualche tempo di erogare qualche somma di suo deposito à vantaggio della Chiesa, e singolarmente in abbellire, e migliorare la Chappella del S.S. Sagramento (21), finalmente sentiti più, e diversi pareri, e con l’indirizzo di persone intendenti si determinò, e fissò, quaterniis gli fosse accordato di fare à sue spese i seguenti lavori….
è riportata la descrizione di diversi lavori; poi:
….quarto scortecciare, stonacare, e rintonacare di nuovo la detta Tribuna, e inclusive il Corpo tutto della detta Cappella, quando non si creda, che faccia pregiudizio, e dispiacere al Pubblico il demolire le Pitture grossolane, e di niun pregio ivi esistenti, e così rintonacato il muro darli un fondo di un colorino galante….
e più sotto
….quindi è, che adunati capitolarmente al triplicato suono del campanello nel solito luogo delle proposizioni, e con le altre consuete formalità i Padri Vocati in numero di sette da me infrascritto Priore fu loro proposto, se si compiacevano di contentarsi, e di approvare, che l’anzidetto Prete sagrestano Luigi Pistoia facesse in detta chappella detta della croce à spese di suo deposito i divisati lavori con le dichiarazioni, e condizioni che sopra, e non altrimenti e girato il partito per secreto suffragio fu vinto con voti favorevoli sei, contrarj uno, come apparisce dalle respettive sottoscrizioni.
E seguono le firme dei frati Domenico Simi (priore), Giuseppe Prunai, Flaminio Giachi, Giovacchino Boldri (o Boldrini?), Agostino Giorgi, Pierfrancesco Luchini e Leopoldo Maestrelli.
Pietà « erga mortuos » avrebbe forse voluto che tacessimo i nomi di questi profanatori; ma è quel voto contrario (di chi fu mai?) che, insinuando un caritatevole dubbio sulla figura artisticamente sacrilega di ciascuno dei firmatari, li solleva tutti, allo stesso tempo, da una nostra decisa condanna morale.
Così le Pitture grossolane e di niun pregio cedettero il posto a un fondo di un colorino galante e la posterità venne privata della possibilità di godere di un autentico capolavoro.
Il Poggi nutriva la speranza che accurati assaggi avrebbero potuto riportare in luce i vecchi affreschi, ai quali annetteva grande importanza anche perché riteneva che il loro reperimento avrebbe potuto chiarire molti dubbi che ancora sussistono in merito agli affreschi della Cappella Brancacci. Ma né il Poggi, né il Giglioli riuscirono a individuare quale fosse la Cappella della Croce. È merito infatti del Procacci la sua esatta localizzazione, avvenuta quasi quarant’anni dopo, quando i lavori di restauro ebbero inizio; i tragici avvenimenti bellici dell’ultimo conflitto li interruppero e si attende ora che vengano ripresi.
Oggi, occhi non sufficientemente provveduti ben poco possono rilevare dall’esame di quelle sinopie che sono state risparmiate dalla profonda stonacatura. Con l’aiuto di idonei mezzi di illuminazione artificiale ci siamo provati a ricostruire i singoli dettagli compositivi, non senza esserci messi in precedenza nella condizione di interpretare adeguatamente i soggetti in base alla conoscenza delle più accreditate versioni della leggenda sulla «Storia della Vera Croce» (Iacopo da Varagine e altri).
L’argomento, al tempo di Masolino, era già stato trattato da altri artisti: citiamo qui il chiaro tratteggio della leggenda dovuto ad Agnolo Gaddi, che nel 1380 la affrescò, «con larga collaborazione d’aiuti» (22), sulle pareti del coro di S. Croce a Firenze, imitato a breve distanza di tempo (1410) da Francesco di Cenni con un’opera che compare nell’Oratorio della Compagnia della Croce di Giorno di Volterra (Chiesa di San Francesco). Questa rielaborazione del soggetto, salvo poche varianti, ripete pedissequamente l’impostazione gaddiana, perché «come di consueto, quando un artista fa il commento figurativo di una leggenda, i suoi successori non ricorrono più generalmente alla fonte letteraria, ma alla dipinta, e questa ripetono, elaborano e rinnovano» (23).
La trattazione fattane da Masolino viene ad inserirsi cronologicamente fra questi precedenti e l’interpretazione data al soggetto da quella preminente personalità artistica che è Piero della Francesca, il quale, portata a compimento nel 1466 la frescatura della storia in S. Francesco ad Arezzo attingendo con scrupolo alla tradizione scritta, riuscì, con grande disegno ed arte meravigliosa, a conferire alla successione episodica un’equilibrata organicità narrativa, ricca di originalissimi spunti.
E miglior commento alla perfetta fattura di quest’opera non poteva darne il Vasari, se non dicendo che Piero con questo suo lavoro «ha dato cagione ai moderni di seguitarlo e di venire a quel grado sommo dove si veggiono ne’ nostri tempi le cose» (24).
Prima ancora di affrontare la descrizione delle sinopie di Masolino riteniamo opportuno riassumere la leggenda della Vera Croce, così come numerosi autori ce l’hanno tramandata.
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Si vuole che Adamo, in tarda età, invitasse il figlio Seth a recarsi nell’Eden per poter parlare con l’Angelo Guardiano; Seth riuscì a trovare il Paradiso Terrestre e vi ricevette dall’angiolo un ramoscello, spiccato dall’albero del Bene e del Male, con l’invito a piantarlo sulla fossa o nella bocca del padre, di cui l’angiolo gli preannunziava la prossima morte. La profezia, sempre secondo la leggenda, si verificò e a Seth ritornato a casa, dopo aver lungamente pianto il già avvenuto decesso del padre, non restò che obbedire all’ordine dell’angiolo.
Sulla tomba di Adamo nacque così un maestosissimo albero, il cui legno doveva racchiudere taumaturgiche virtù, se un bastone tratto dal medesimo permise a Ietro di mettere alla prova i pretendenti alla mano di sua figlia e ad Aronne di sconfiggere i Maghi egiziani; senza contare che Mose attorcigliò al tronco di quest’albero un serpente, dando così modo al popolo di Israele di ritrovare la salute perduta.
Per quanto Salomone intendesse utilizzare il tronco per la costruzione del suo colossale tempio, non riuscì nell’intento e fu perciò costretto ad abbandonarlo di traverso alle rive del fiume Siloè, a mo’ di ponte. «E questo santo legno vi stette tanto che quando la regina d’Ostria, la quale aveva nome Saba, venne in Gerusalem, ella non volle passare per la porta d’aquilone, per non voler passare su per lo detto legno. E quando la reina Saba ebbe parlato con Salomone, ella andò a vedere questo santo legno; e quando ella lo vide, incontanente si gittò a terra e adorollo; e quando l’ebbe adorato, ella incominciò a dire a grandi boci: Per questo santo legno la terra tremerà, il sole e la luna perderanno la loro chiarità, e lo velo del tempio sì squarcerà di sopra infino di sotto e molte corpora sante risusciteranno» (25).
Dopo alterne e avventurose vicende, il tronco si trovò ad essere abbandonato in un terreno acquitrinoso e putrido, dove successivamente fu costruita la piscina di Betsaida, che aveva miracolosi poteri, giacché lì conveniva «gran quantità d’infermi, ciechi, zoppi, paralitici in attesa del moto dell’acqua. Infatti un angelo del Signore a un certo tempo scendeva nella piscina, e l’acqua n’era agitata. E chi primo si tuffava nella piscina dopo il moto dell’acqua, restava sano da qualsivoglia male fosse afflitto» (26).
Il tronco doveva rimanere in Betsaida fino alla domenica di Passione; poi lo si prelevò e, portato in Gerusalemme, fu utilizzato per farne il patibolo di Nostro Signore. Veniva così ad avverarsi, con la crocifissione di Cristo, la funerea profezia di Saba. E la leggenda continua.
Dopo la sepoltura di Gesù, tutte e tre le croci del Golgota furono occultate sotto terra in luogo segreto e se ne perse per alcun tempo ogni traccia, finché la regina Elena (Sant’Elena), madre di Costantino, non venne a conoscenza che il segreto era in possesso di un giudeo che sapeva del luogo di occultamento, per tradizione pervenutagli dalla famiglia. All’ ostinato rifiuto del giudeo a riferirne l’ubicazione, la regina, ben decisa nel suo proposito di ritrovare la croce, ordinò che l’uomo fosse calato sul fondo di una secca cisterna e che non ne fosse più tolto se non si decideva a rivelare il suo segreto. I morsi della fame ebbero buon giuoco dell’ostinazione del giudeo, e si potè così ritrovare le tre croci sepolte (27). Ma qual’era quella di Gesù? Qual’era la «vera» croce? Nessun altra cosa, se non un avvenimento soprannaturale, un miracolo, avrebbe potuto permetterne il riconoscimento.
I tre legni furono allora successivamente passati sul corpo di un defunto; dei tre quello che ne operò la resurrezione non poteva essere quindi che la «vera croce».
Diffusasi nel mondo la nuova di questa «invenzione» (28), Cosroe, re di Persia, si appropriò sacrilegamente di un frammento della croce. Grande fu lo sdegno dei cristiani, che armarono di un forte esercito Eraclio, perché potesse recuperare l’Oggetto del furto e punire severamente il colpevole. Il che essendo, non senza aspra lotta, raggiunto (e Cosroe n’ebbe mozza la testa), la sacra reliquia ritornò in possesso della Cristianità.
La Cappella di Sant’Elena, che nel corso dei secoli ha ospitato tanti illustri capolavori (29), ha una pianta rettangolare ed è coperta da una volta a vele. Misura all’incirca 6 metri di larghezza per 4 di profondità ed è alta 12 metri (v. figura, i cui numeri di riferimento corrispondono a quelli qui di seguito riportati in grassetto).
L’intradosso è completamente dipinto e la decorazione doveva essere estesa a tutto il pilastro. Qui si trovavano le mezze figure di santi, tutti con la croce (1), disposti entro quadriboli, come entro quadriboli sono i santi dipinti dallo Starnina nella Cappella della S. S. Annunziata della stessa chiesa, in deposito presso la Pinacoteca di S. Andrea (30).
Queste figure di Masolino, che sono praticamente tutto ciò che è rimasto di salvo dell’intera affrescatura, ammorbidite da effetti chiaroscurali e dotate di un’evidenza corporea che logicamente scompare nelle sinopie della Cappella, rivelano, pur nella loro intenzione decorativa, alcune disparità di trattamento che invitano a pensarle di mani diverse.
Il pilastro destro reca l’elegante figura di Michele Arcangiolo (2), riaffiorata in altri particolari delle storie delle pareti interne e riavvicinabile, nonostante il contrasto dei termini, a quella del diavolo dai piedi d’uccello, che fa da perverso consigliere a S. Giuliano nella predella di Montauban (31).
Nell’interno della Cappella, le quattro vele della volta recano vari aspetti del Cristo e della Croce. In quella di sinistra, Masolino rappresentò Gesù che, stretto da una lunga tunica, trascina la croce poggiata sulla spalla (6). In quella di fondo, sopra la finestra, sta il Cristo della Resurrezione, recante nella destra la consueta bandiera crocesegnata, simbolo della sua vittoria sulla Morte (5). La vela di destra è occupata dal Volto Santo: la figura del Signore, rivestito anche qui di lunga tunica, è distesa sulla Croce; il capo è sormontato da una tiara divisa in quattro ripiani, che stanno ad indicare la suprema regalità del Salvatore; dietro la tiara un’aureola (4). L’alone di forma ellittica che racchiude l’intera figura è analogo a quello che si trova nel Volto Santo di Lucca. Sulla vela sopra l’arco d’ingresso sta dipinto ancora Gesù con la croce in ispalla, mentre indica, con la destra, il Calice e l’Ostia Santa (3); la composizione rende ragione delle straordinarie capacità sintetiche di Masolino, in
Negli sguanci della finestrella a sesto acuto, fra i residui frammenti della decorazione ad intarsio, si manifesta la grazia dell’artista e la sua delicatezza di tratto. Sono delle piccole teste femminili, all’interno di tre tondi (7), descritte con una intenzionata amorevolezza e soffuse di un candore virgineo, pienamente rispondenti ai canoni di una bellezzaquanto chiaramente traspare l’intento di esprimere con sobrio disegno la duplicità del sacrificio di Nostro Signore: quello cruento e reale del Golgota e quello incruento e mistico dell’ultima cena.
particolare, che direi tipicamente toscana e popolare. Questi volti di fanciulle possono essere rapportati, con stretto parallelismo, alla ingenua e riposata espressione dei pupilli, raffigurati nel supposto S. Ivo del transetto.
Lungo le due pareti, e in parte anche in quella centrale, fino presso l’altare, correva uno zoccolo d’un metro e ottanta circa, che doveva servire d’inquadratura ad una piccola costruzione architettonica del tipo che possiamo ancora ammirare nell’ Annunciazione posta sopra l’arco della Cappella di S. Caterina, in S. Clemente a Roma.
Tre esili colonnine, cinte da piccoli anelli equidistanti lungo il fusto, scandivano gli spazi di ogni parete. Una di esse era posta nel centro; le altre due erano accostate, dall’una parte e dall’altra, ai margini della parete, in modo che questa veniva ad essere divisa in due parti uguali, sormontate da una specie di loggiato e contenenti, ciascuna, un pannello decorato in bianco e in nero con figure (20). Entro i singoli pannelli, in primo piano, erano raffigurati i fratelli della Compagnia, in cappa nera, secondo l’uso che voleva i committenti riportati in pio atteggiamento nella composizione stessa.
Le sinopie sono così malandate che la ricostruzione diviene un arduo problema. Solo a un palmo da terra sono rimaste con chiarezza alcune traccie del dipinto nei pochi frammenti dei vestiti neri degli incappucciati e nelle basi delle rammentate colonnine.
Nella parete di destra, entro una piccola incavatura trilobata che doveva sicuramente servire da armadietto a muro quale ricettacolo delle sacre suppellettili necessarie alla celebrazione della Messa, si può ancora vedere una piccola composizione, che consiste in due messali rilegati in marocchino rosso e azzurro, disposti sopra due ripiani di legno. Un terzo ripiano fa da sostegno a due graziose ampolle, che si finge contenere l’una vino vermiglio e l’altra acqua.
Tanta semplicità e tanta grazia, e soprattutto il calore cromatico, ci riportano ai piccoli armadietti di S. Clemente (Morte di S. Ambrogio) e a quello dell’Annunciazione di Castiglione Olona. La posizione di questo ricettacolo è riportata in figura col nero pieno (parete di destra).
Dallo zoccolo in su, sulla superficie delle tre pareti, Masolino dipinse le storie della Croce, seguendo in gran parte l’accezione gaddiana del coro di S. Croce di Firenze.
Ogni parete, dall’alto in basso, è divisa in tre parti: in ciascuna di queste parti Masolino compose due diversi episodi, attenendosi allo stesso schema di Agnolo Gaddi. Dovette quindi servirsi di tre ponti.
Iniziò la sua fatica, con ogni probabilità, cominciando la narrazione nella parete centrale sopra la finestrella e girando da sinistra verso destra e dall’alto in basso, in modo da terminare il racconto sulla parete di sinistra, sopra lo zoccolo, a ridosso della parete di fondo. L’episodio dell’ingresso di Eraclio in Gerusalemme, che doveva appunto finire nell’ultimo pannello, non può essere con certezza ricostruito, perché le relative sinopie furono quasi completamente distrutte per la muratura di un altare in pietra del ‘700, ora demolito, che ostruiva fra l’altro al completo la finestra centrale. Comunque le poche traccie residue sembrano abbastanza indicative.
Entro la lunetta nella parete di destra (8) è rappresentata la regina Saba inginocchiata a mani giunte, con le ancelle, davanti al legno che fa da ponte sulle acque del Siloè; nello sfondo si nota un monte a forma cilindrica con arbusti, in mezzo ai quali si intravede una piccola costruzione. Oltre il fiume, la visita della Regina a Salomone (9), mentre alcuni uomini sotterrano il legno prodigioso.
Passando alla parete di sinistra, l’interpretazione si fa più incerta: sembrerebbe comunque che all’episodio dell’estrazione dell’albero dal fondo limaccioso della piscina probatica (10) faccia seguito quello della costruzione della Croce (11), che sarebbe avvenuta, come dicemmo, nella domenica di Passione. Alcune figure in piedi entro lo stipite di una porta ed altre chinate a terra sopra un oggetto che sembra la Croce sono a malapena distinguibili attraverso le deboli traccie sinopiali. Il racconto (che risulterà sempre discontinuo per la completa mancanza delle sinopie della parete di fondo) continua con la storia del trafugamento della Croce da parte di Cosroe (12). Guerrieri, in parte a cavallo e in parte appiedati, fuggono portando con sé i preziosi rubati insieme alla sacra reliquia. Ben distinguibile è il combattimento accanito, in primo piano, di due guerrieri (13), su uno sfondo che lascia intravedere un’imponente costruzione, forse una basilica.
Il successivo pannello (14) porta fra i pochi elementi intelligibili un albero che si eleva in fronte ad una basilica; l’interpretazione è alquanto vaga e la sovrapposizione di alcune malcerte figure suggerisce un probabile ripensamento di Masolino; evidente appare invece il contorno della tenda circolare da campo, nel sogno d’Eraclio (15). Per la stretta aderenza al racconto figurato dal Gaddi, non è pensabile che si tratti del sogno di Costantino, secondo la variante data alla leggenda da Piero della Francesca.
Nella prova della vera Croce (16), due uomini, sorreggendo agli estremi del braccio più lungo il Santo legno, lo stendono sul corpo di un defunto, seduto sopra una portantina, provocandone la resurrezione. Accanto, la Santa regina col proprio seguito, si reca in processione dietro la Croce che viene portata a Gerusalemme (17).
L’appassionante racconto termina con la decapitazione di Cosroe (18) e con l’ingresso trionfale di Eraclio con i suoi soldati a cavallo nella stessa Gerusalemme (19), dopo la fulgida vittoria riportata sul nemico. Osserviamo qui che tanto la figura del carnefice quanto quella di Cosroe (l’una e l’altra molto evidenti, come evidenti sono moltissimi altri particolari di questi due ultimi pannelli) ritornano in altre opere di Masolino: nel martirio di S. Caterina in S. Clemente e nella decapitazione di S. Giovanni nel Battistero di Castiglione.
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A chiusura di questa sommaria descrizione e nell’intento di riferire una curiosità, sempre in relazione a questi affreschi della Cappella della Croce, ci piace segnalare la particolarità del ritrovamento di quei due frammenti d’affresco della nostra Pinacoteca, contrassegnati dai numeri 96 e 97, e deliberatamente omessi nel breve «excursus» delle opere empolesi di Masolino.
Questi due pezzi (teste d’angioli) appartengono appunto agli affreschi di questa Cappella e furono ricomposti dal Procacci con un paziente lavoro di ricostruzione di alcuni dei numerosissimi frammenti rinvenuti sotto il pavimento della stessa Cappella. Evidentemente gli operai che procedettero alla stonacatura non ebbero poi cura di portar via i calcinacci, che rimasero coperti dal nuovo impiantito. Oggi, presso il Gabinetto Restauri della Soprintendenza, si trovano due grandi casse di questi frammenti, troppo minuti, purtroppo, perché sia possibile poter ricomporre altri particolari, oltre quelli citati.
Note
- Procacci Ugo – Sulla cronologia delle opere di Masaccio e di Masolino tra il 1425 e il 1428 (su « Rivista d’Arte », vol. XXVIII – Annuario 1953) (p. 41).
- È contrassegnata dal n. 95, nella quarta sala del secondo piano.
- Burckhardt Jacob – Der Cicerone, Leipzig Verlag, 1904, III, p. 643.
- Schmarsow A. e Oettingen W. – Kunsthistorische Gesellschaft für photografische Publikationen, Siebenter Jahrgang, 1905.
- Cavalcaselle G. B. e Crowe I. A. – Storia della Pittura Italiana, Firenze, Le Monnier, 1896. II. p. 264.
- Carocci G. – La Galleria della Collegiata d’Empoli, (su « Le Gallerie Nazionali Italiane. Notizie e documenti ». Roma, 1899, IV, p. 334).
- Berenson Bernhard – The Study and Criticism of Italian Art., 2a serie, G. Bell, Londra, 1902. p. 87-88.
- Baldini Umberto – Itinerario del Museo della Collegiata, Empoli 1956, p. 14.
- Giglioli H. Odoardo – Empoli Artistica, Lumachi, Firenze. 1906, p. 44.
- Toesca – Masolino da Panicale, 1908.
- Delle opere citate, alcune sono andate perdute. Le altre sono raccolte in gran parte nella Pinacoteca di S. Andrea.
- Nell’ « Incoronazione della Vergine » della Collegiata.
- È la descrizione vasariana di un affresco, oggi perduto, che si trovava nella Badia di Firenze (cfr. Vasari G., Le vite, Rizzoli, Milano-Roma, 1947, I, p. 584).
- Questa fu la seconda residenza dei detti frati. Precedentemente avevano il loro convento, con una chiesa dedicata a S. Maria Maddalena, in « borgho », come dice una vecchia carta (A. S. F. Conv. soppr. Santo Stefano d’Empoli, LXXII, vol. 31, A – a c. 38 r), cioè fuori le mura d’occidente, in luogo imprecisato di quello che si dice ancora popolarmente li Borgo. La necessità di sottrarsi alle ruberie e alle devastazioni delle guerre e guerriglie, che si succedevano allora con tanta frequenza, impose il trasferimento del convento dentro il cerchio fortificato, a ridosso delle mura stesse. Si veda anche quanto riferisc i Lazzeri nella Storia di Empoli a pag. 25 (anno 1295).
- Poggi Giovanni – Masolino e la Compagnia della Croce in Empoli (su « Rivista d’Arte », n. 2-3, 1905).
- Giglioli H. O. – Op. cit.
- S. F. Comp. soppr. Libro della Compagnia della Croce dalla veste nera, 1° gennaio 1469/70, c. 1-2.
- Tommaso di Cristofano di Fino (1383- 1440?) è appunto il nome di Masolino.
- Poggi Giovanni – Op. cit.
- S. F. Conv. soppr. Santo Stefano d’Empoli, LXXII, libro II di Proposizioni e Partiti (n. 30 bis), a c. 150 r e 150 t).
- Qui la Cappella viene detta del SS. Sacramento, forse perché questa fu la denominazione che i Frati vollero dargli, divenutine nuovamente padroni. Ma non esiste alcun dubbio che si tratta proprio della Cappella della Croce, come è detto in alto e a margine di quest’atto (« altare e riattamento della Cappella della croce ») e. più sotto, nello stesso testo (« in detta chappella detta della croce»).
- Ragghianti Carlo L. – Note a « Le Vite » del Vasari (ed. cit.).
- Venturi A. – Storia dell’Arte Italiana, 1901.
- Vasari G. – cit., I, p. 685.
- Venturi A. – Op. cit. – Cita dal D’Ancona (Leggenda dell’A. d. C., Romagnoli, Bologna, 1870) e dal Mussafia (Sulla leggenda dell’A. d. C., Vienna, 1869).
- Giovanni – Vangelo, 5 – 3,4.
- Un’altra versione, meno leggendaria, vorrebbe che Sant’Elena, recatasi in pellegrinaggio nel 326 a Gerusalemme e divisando di erigervi la Chiesa del Santo Sepolcro, nell’abbattere le statue e i templi di Venere e di Giove, fatti innalzare sul Calvario da Adriano, trovasse per caso tanto il sepolcro del Signore quanto le tre croci.
- Alla parola si deve attribuire il suo significato latino di « ritrovamento ».
- Ci limitiamo a citare una Crocifissione di Lorenzo di Bicci, tavola dipinta nel 1399 e perduta: e una Deposizione, allogata nel 1402 a don Bartolommeo, e pure perduta.
- 98. 99. Sulla stessa parete della « Pietà » (v. nota 2).
- Salmi Mario – Masaccio, 1948.