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Il Tirreno, Cronaca del Valdarno, Venerdì 27 Aprile 1990

Un articolo di Paolo Pianigiani dopo le polemiche

sulla mostra alle “Carceri”

 

Il mondo dell’arte è ora più vasto

FUCECCHIO — Sembra, con la mostra alle ex carceri, d’essere tornati ai vecchi tempi, quando artisti e critici si scontravano per inziative che andavano «fuori delle regole».
E il pubblico accorreva numeroso per vedere la «pietra dello scandalo». Capitava anche che rimanesse deluso, che si trovasse di fronte a tanto fumo e poco arrosto.

Si conclude con la fine del mese la mostra alle «Carceri» di Fucecchio, che ha diviso i visitatori (e anche chi non l’ha visitata) in due partiti opposti: rifiuto assoluto da una parte, approvazione incondizionata dall’altra.
Per cominciare una precisazione: non si tratta di una mostra di pittura, intesa nel senso della tradizionale esposizione di quadri.
L’installazione, come intervento in un ambiente da parte dell’artista, risale alla fine degli anni Sessanta: basta pensare a Jannis Kounellis, che espose cavalli alla galleria «L’Attico» di Roma, o a Gianni Ruffi con i suoi monti di terra, o a Pino Pascali che ricreò il mare riassumendolo in contenitori di acqua.
Dopo Duchamp non è più possibile pensare l’arte limitata alle tele dipinte; chi lo fa è fuori dal contemporaneo, si priva dei necessari collegamenti con la storia e la cultura in continua evoluzione. Intendiamoci, è una scelta e come tale da rispettare.
Ma non si possono accetta re giudizi aprioristici di rifiuto di espressioni artistiche ormai riportate dai libri di storia dell’arte delle scuole superiori.
Chiarito questo principio, veniamo ad esaminare i vari interventi presentati fra le pareti ricche di suggestioni delle «celle».
Carlo Taddei ha ambientato la sua composizione per soprano, tenore e pianoforte in quella che probabilmente era la cella di rigore, isolata e buia: una vera «catorbia», cioè sotterraneo cieco nell’antico dialetto lucchese. L’ascolto è consentito ad un solo visitatore per volta, che può immaginare e ricreare visioni fuori dal tempo, dietro l’incalzare del ritmo ossessivo, dove trova spazio anche un momento di lirica espressione melodica.
Gìanluca Cupisti riassume nel titolo «Viandanti: prigionieri immobili» il disagio dell’uomo contemporaneo che non trova uscite percorribili al proprio itinerario ed è costretto a un’introspezione senza dialogo: i simboli e il linguaggio si fondono nel momento del racconto.
Gianluca Sgherri propone, con un certamente inatteso accostamento dei simboli della nascita e della morte (rete di un letto e croci di cera) un percorso circolare ricco di stimoli culturali, disturbando in ognuno di noi l’equilibrio di immagini acquisite e di valori scontati.
Siamo all’interno di una ricerca che esalta le potenzialità narrative degli oggetti con accostamenti sia all’arte povera degli anni ‘60 (si pensi a Mario Merz), che al più recente ambito dell’arte concettuale.
Poetica e leggibilissima l’installazione di Maria Grazia Morini: veline-acquiloni pressate sulle pareti della cella da un vento improbabile, pronte a «evadere» verso spazi liberi, seguendo la fantasia e il desiderio.
Come evidenzia Luigi Fatichi nella sua presentazione, è la parete stessa che fa da supporto e da riferimento all’esile e diafana struttura della velina, quasi fosse l’imprimitura di preparazione su tavola, fatta da pittori trecenteschi.
Qualcosa di molto diverso dai «sacchetti di plastica su pareti bianche» che tanto hanno scandalizzato i detrattori della manifestazione, poco attenti evidentemente al lavoro attuale della Morini, dove «già si realizza il passaggio fra l’opera dipinta e i referenti materici della superficie».
Le immagini stereotipate di navi col mare stilizzato in onde accennate, con tanto di pennacchio fumante, offrono a Marco Maffei lo spunto per immaginare un viaggio, reale o immaginario ma comunque vissuto interiormente, avendo come punti di riferimento le isole, viste come possibili approdi od ostacoli da evitare.
I riferimenti letterari ci vengono indicati da Paolo Duranti che presenta l’installazione, e variano dal «bateau ivre» di Rimbaud al più antico vagare di Ulisse L’aspetto ironico del linguaggio stempera la drammaticità dell’argomento: tutti siamo marinai, in cerca di uno sbarco sicuro e ci intimorisce ogni isola che ci è sconosciuta. La metafora della narrazione si arresta di fronte al linguaggio tecnico da manuale: definendolo con esattezza ogni timore svanisce e la misteriosa isola diventa certezza.
Mauro Manetti, dove altrove si parla di acqua, ci mostra nel suo ambiente un rettangolo di terra, vista come origine e madre, raccolta in uno spazio definito dalla geometria, quasi un «hortus conclusus» che si espande e trova nuove rispondenze nel bianco ritmato dell’ambiente/cielo, tessuto da parole arricchite dalla poesia che le modula, distribuite in cinquecento sonetti.
La forma rettangolare fa pensare a un altare eretto, in questo caso a stimolare nell’uomo un colloquio fra la propria origine e le sue capacità creative.
Sergio Pucci ripercorre le strade del mito, rivivendo con occhi contemporanei le antiche storie che non finiscono mai di coinvolgerci.
E lo fa con sapiente scelta dei momenti e dei mezzi del narrare, soffermandosi ad approfondire i ì temi chiave che scandiscono il racconto e ne ritmano il pulsare: capoversi e pause in un fluire incalzante.
Il modellino che preannuncia e fa da prologo al più vasto racconto viene moltiplicato ed esplode nel dipinto sul fondo, che rappresenta il mistero e il terrore e da cui ci separano rassicuranti le due colonne d’Ercole.
I riferimenti e le chiavi di lettura del lavoro presentato da Valerio Comparini le ha trovate tutte quasi Romano Masoni nella sua introduzione; a me non resta che ricordare la bellissima sequenza al rallentatore della lotta fra l’uomo armato di falce e il pavone, un balletto ripreso in controluce dal ritmo cadenzato, deambulante, simbolo dell’eterna lotta fra la bellezza e la morte.
In un’angolo, impreziosito dal minio che lo preserva dalla ruggine, un badile, indispensabile strumento per raggiungere, all’esterno del muro, la libertà.
Una mostra non facile, installazione di non immediata lettura, che richiedono un’attenzione e un approfondimento interiore maggiori d altre manifestazioni, questa proposta dal Centro Attività Espressive «Le Carceri» che coinvolge, a volte con violenza, i visitatori, non abituati a mettere in discussione i loro acquisiti riferimenti culturali.
Non si tratta della «nuova arte» o dei «nuovi maestri», si tranquillizzino i fruitori d paesaggi e i venditori di colori a olio: il mondo dell’arte è solo un po’ più vasto di quello che pensano e c’è spazio per gli errori di tutti.
Paolo Pianigiani

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