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Il conoscitore di statue

di Massimo Ferretti

da: L’Indice, n. 5, Maggio 1987

 

 

 

JOHN POPE HENNESSY, Cellini, trad. dall’inglese di Elda Negri Monateri, Mondadori, Milano 1986, pp. 321, 103 ill. in b.n. e 155 tavv. in b.n. e colori n.t., Lit. 200.000.

JOHN POPE HENNESSY, La scultura italiana del Rinascimento, trad. dall’inglese di Elda Negri Monateri, Allemandi, Torino 1986, pp. 261, 150 ill., Lit. 150.000.

 


 

Pope-Hennessy cominciò a scrive re sull’arte italiana molto giovane, cinquanta anni fa, e non si può dire che da noi sia poco conosciuto. Fra il ’63 e il ’64, Feltrinelli presentò i tre volumi della sua Storia della scultura italiana, che nell’originale circola in paperback.

Nel diluvio editoriale del centenario raffaellesco, la traduzione della sua monografia sull’urbinate (Allemandi, Lit. 25.000) è rimasta come una delle più efficaci proposte fatte a quanti sono più attenti a questioni di cultura generale, che a quell’ambigua massificazione di una pratica settoriale che è il risultato di molti cataloghi di mostra.

Tuttavia, in questi ultimi tempi, lo studioso inglese sta trovando in Italia un prestigio particolare; sembra quasi cne si voglia destinare i suoi libri ad un consumo qualificato e vistoso. Due anni fa, l’editore Cantini di Firenze fece lievitare la versione di una sua conferenza del ’66 su Donatello in un suntuosissimo volume sullo scultore. Suntuosissimi sono anche questi due nuovi volumi (che assieme all’altro costano quasi mezzo milione).

Per l’editoria d’arte italiana rappresentano comunque due occasioni di notevole significato, per quanto di diversa natura. La veste grafica del Cellini in niente è diversa dall’edizione originale dell’anno avanti; nasce insomma da un’iniziativa internazionale.

L’altro volume è invece una raccolta di saggi, originale in sé, che attinge alle due ben note serie di studi di Pope-Hennessy sull’argomento: gli Essays on Italian Sculpture; del 1968, e The Study and Criticism of Italian Sculpture, del 1980.

Quest’ultimo è un titolo programmatico, rimodellato addirittura su quello che servì a raccogliere alcune amose indagini di Berenson, un libro che fu tra le letture più care del giovanissimo Pope-Hennessy, storico dell’arte per vocazione dunque.

Non per caso questa seconda raccolta di studi sulla scultura quattrocentesca, come ora quella italiana, è aperta da un saggio sulla Connoisseurship. Chi è il conoscitore? Chi preferisce “affrontare quei problemi che sorgono direttamente dall’opera d’arte, e per i quali l’opera stessa è la principale e talvolta l’unica fonte documentaria”.

Ma a cosa serve il mestiere del conoscitore quando si è davanti ad un artista come Cellini, di cui sappiamo praticamente tutto, forse più di qualsiasi altro uomo contemporaneo? Oltre alla Vita, ci rimane un’infinità di altre testimonianze, con accuratissime registrazioni contabili e testamenti rivelatori. Non sembrerebbe dunque il terreno di caccia più adatto al conoscitore.

E invece lo è stato (e lo è ancora), perché la particolare fortuna ottocentesca del personaggio letterario finì col confondere l’identità dell’artista. Per molti prodotti d’oreficeria, quel nome fu una calamita. Basta sfogliare il libretto che a Cellini dedicò nel 1911 un grandissimo storico dell’arte, Focillon (dove è ancora memorabile il capitolo finale su Cellini et l’èsprit de la Renaissance): parte non minima delle illustrazioni non ha nulla a che fare con l’artista.

Sono tempi lontani, è vero. Non c’è più da addentrarsi fra le opere riferite al Cellini con la roncola in pugno. Qualche pro blema rimane. Anzi, si potrà essere ipercorrezionisti fino a sospettare della Giunone Niarcos. Ma il rischio più grosso, che Pope-Hennessy segnalò fin dal suo primo intervento celliniano del 1949, è quello di leggere il testo letterario, la Vita, separa tamente dal testo figurativo, dalle opere di Cellini.

Pertanto il Cellini di Pope-Hennessy non ha la forma classica della monografia, istituzionalmente articolata fra un saggio introduttivo ed un catalogo analitico delle opere. La sua struttura è invece quella, inusuale, specialmente in Italia, della biografia.

Piero Calamandrei, che coltivò fra l’altro un’eccezionale competenza di cose celliniane, osservò una volta che molti storici dell’arte ostentano disprezzo per le biografie. È vero oggi come allora. Ma come si può scrivere la biografia di chi ha già provveduto in proprio, lasciandoci uno dei libri più popolari della letteratura italiana? Pope-Hennessy è dichiaratamente consapevole del problema.

Mentre non sembra esserne stato particolarmente toccato Ivan Arnaldi (La vita violenta di Benvenuto Cellini, Roma-Bari, Laterza, 1986, D. 195, Lit. 35.000) che ha adeguato lo scandaglio soggettivo alle ormai diffuse ricerche sulla storia della sessualità e, una volta ancora, ha cercato di  proiettare l’esistenza celliniana sullo sfondo generalissimo dell’epoca, usando spesso informazioni di seconda mano e facendo a meno della sua produzione artistica.

Preoccupazione metodica di Pope Hennessy è proprio quella di non scivolare lungo queste due chine. La prima, l’individuazione di un tipo psicologico, gli appare ancora troppo pregiudicata dalle letture romantiche della Vita. Ha invece, due punti di riferimento. Uno è l’assoluta grandezza dell’artista, che non è un fatto correntemente scontato.

L’altro è la sostanziale e collaudata attendibilità della Vita. Su tali basi nasce una biografia che non è l’inutile parafrasi della Vita, né la sua possibile introduzione critica, ma che si svolge davanti alle opere e nei contesti del dibattito figurativo.

Né le opere subiscono gli allineamenti della Stilkritik, né Cellini ha l’incombenza subburckhardtiana di rappresentare l’uomo del Rinascimento. In questo senso è il libro del conoscitore, ossia dello storico che non è assolutamente disposto a sacrificare il contatto con le specifiche testimonianze figurative (altra cosa, anche se capace di prodigi mnemonici, è il riconoscitore, l’ordinatore di tipologie).

Da questo libro esce sempre più chiaro il ruolo che Cellini ebbe negli svolgimenti del manierismo e per quel fenomeno capitale che fu l’autocoscienza storica dell’arte fiorentina; eppure Pope-Hennessy non allarga mai troppo verso le concettualizzazioni storiografiche. L’analisi fattuale rimane sempre aderente alla trama biografica.

Il libro non si chiude con un bilancio, ma sui funerali del Cellini (anche se, a queste date, nel milieu artistico, si tratta di una circostanza di rilievo sociale). Sarebbe difficile riuscire ad immaginare, per un libro di questa natura, una veste grafica più umile di quella che ha avuto.

Personalmente, non sono sempre riuscito ad entusiasmarmi per il modo in cui David Finn fotografa la scultura, cercando particolari di gelida fisicità (penso al libro su Donatello più che a quello su Canova). Ma, davanti alla saliera di Vienna, ha trovato un miracoloso equilibrio fra nitidezza e splendore.

La scultura italiana del Rinascimento, dopo l’apertura sul conoscitore, raccoglie dieci saggi. Riguardano Ghiberti, Donatello, Antonio Rossellino, Andrea della Robbia e Michelangelo (anzi, due casi pseudo-michelangioleschi). Sicché poteva tranquillamente intitolarsi alla scultura fiorentina, di cui è percorso il tratto canonico.

Un’identificazione così assoluta fra la linea da cui uscirono i paradigmi fondamentali della plastica quattrocentesca e l’intera area italiana, anche se più ovvia per uno straniero, potrebbe sembrare soggetta a pericolosi stereotipi critici; se non fosse che, affrontando problemi di autografia, Pope-Hennessy finisce per contribuire concretamente alla disgregazione di quell’immagine stereotipa.

Dove potrà essere stereotipa anche una limitata considerazione di Antonio Rossellino o l’incomprensione delle vere ragioni di Andrea della Robbia.

Mentre il conoscitore di pittura lavora ormai da tempo a risarcire la geografia, ricostruendo province figurative scomparse (il Trecento non toscano di Longhi, l’Italia centrale in età quattrocentesca di Zeri, ad esempio), il conoscitore di scultura si trova a fare i conti anche con le opinioni più consolidate: l’improprio riferimento del David-Martelli a Donatello o della Pietà di Palestrina a Michelangelo.

C’è un segno estremo ed eloquentissimo di come la persistente vitalità degli stereotipi di radice ottocentesca schermi la nostra intelligenza della scultura del Quattrocento: l’estensione e l’alta qualità delle falsificazioni realizzate nel secolo scorso.

Study and Criticism si chiudeva infatti con una ricerca, in un certo senso simmetrica al saggio di apertura, sulla produzione pseudo-quattrocentesca dell’Ottocento italiano, dove il falso non è inteso come ripostiglio del non autentico, ma individuato in sé, per le proprie motivazioni prammatiche.

E’ un saggio che avrebbe esibito al lettore italiano le radici remote del suo difficoltoso approccio alla scultura del Quattrocento. A me pare che la sua traduzione sarebbe stata più urgente di quella dell’elogio del conoscitore; un argomento che si presta talvolta a letture di comodo e che è idolatrato perfino da chi non ha grandi occhi per guardare.

L’amore ottocentesco per la scultura del Quattrocento ha avuto peso nel nostro secolo, anche per le reazioni radicali che ha comportato. Negli anni Trenta, uno storico dell’arte veramente geniale, Jenö Lányi, insegnò a scrollarsi di dosso questo condizionamento, almeno nel caso capitale di Donatello; di cui si ebbe quell’immagine tanto più corretta, ma un po’ selettivamente centrata sulla “statua”, che ha fatto testo nel dopoguerra.

Il saggio di Pope-Hennessy sui rilievi della Madonna col Bambino è il segno più vistoso di un’inversione di tendenza. Non si tratta di tornare ad espansioni corrive, ma della necessità di ritracciare lo sperimentalismo donatelliano entro un più vasto quadro di esperienze materiali e modelli percettivi. Una metà dei saggi di Study and Criticism, e sono quelli che non hanno trovato posto nella raccolta italiana, scandiscono ulteriormente questo crocevia degli studi su Donatello.

Ne risulta un Donatello alle prese con la particolare espressività suntuaria del bronzo intarsiato, ormai fuori dalla linea della progressività rinascimentale o da quella dell’“umanesimo civile” (Crocefissione del Bargello); ne scaturisce una particolarissima accezione della policromia (Evangelisti della cappella Pazzi); emerge la radice donatelliana dei “nuovi” oggetti, i bronzetti ma anche le placchette, che caratterizzano il più inoltrato Quattrocento.

Aldilà della filologia donatelliana (se vi sembra poco), essi avrebbero dato al lettore italiano, che più di ogni altro fatica a rompere il cerchio delle simpatie fra Quattro e Ottocento, un’idea della scultura rinascimentale meno centrata sulla dimensione statuaria.

È imbarazzante rimpiangere che un libro già costoso non sia più consistente. Ma forse sarebbe stato preferibile fare qualche sacrificio nelle illustrazioni, sempre ampie e spesso di ottima resa, ma che, in questa edizione italiana, finiscono per dare un’inutile promozione anche a quanto, nel testo originale, aveva semplici scopi di riferimento.

Tanto più che Pope-Hennessy , come Lanyi, insegna che la bidimensionalità della fotografia può incoraggiare raffronti semplicemente morfologici, e perciò devianti, fra sculture diverse. Per il resto, il rimpianto per quanto non ha trovato spazio nella raccolta italiana valga a raccomandare la bontà di quanto vi figura.

 


 

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