Da Roberto Longhi, Caravaggio.
Editori Riuniti, 1993
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La polemica fu poi al colmo nella interpretazione del «San Giovanni Battista» di casa Doria, dove uno dei nudi di Michelangelo nella volta Sistina, visto in controparte, è bensì vitale, prensile come nell’originale, quasi il Caravaggio ammettesse che cosi talvolta ci appare anche il vero; ma decidesse che, per immergerlo nella realtà naturale, occorre «macinarne la carne» e interromperlo con i traversoni macchiati dell’ombra. E può essere che la motivazione antinomica rimanga troppo palese.
Un’anche più alta e pacata discussione con i grandi classici fu invece nel «San Tommaso incredulo» (fatto per Vincenzo Giustiniani) che può ben richiamare ancora Masaccio e persino qualche idea di Raffaello negli «Atti degli Apostoli»; e cosi facilitò all’amico collezionista (che qualche volta sfoggiava un po’ troppo d’intelligenza eclettica) la conclusione che il suo Caravaggio era ormai un classico come tutti i classici del passato o come, ai nuovi giorni, i maggiori bolognesi: Annibale sopra tutti.
Però, perché non spingersi ad intendere che il blocco serrato, e di cosi apparentemente facile spiegazione «plastica», delle figure si negava repentinamente occupando d’ombra il protagonista e, per l’espressione, puntando sulla cruda emergenza delle ferite orride o delle crepe rugose, come un vecchio stivale di cuoio incallito, nella caperata frons dell’apostolo incredulo che non ammette altra verità da quella che si può toccare con mano?
Così, e meglio, il Caravaggio chiari il suo genio torturato e intrepido anche nella «Presa di Cristo nell’Orto» (quadro subito famoso in casa Mattei e oggi conosciuto soltanto attraverso le copie superstiti), dove, contro la citazione antica del manto che avvolge quasi in un dittico la testa di Cristo e di Giuda, il gruppo, schiarato dal lampione oscillante, sembra incrinarsi come un calice di vetro scuro entro l’orrore notturno; tragica estremità cui solo può compararsi, pochi anni dopo, qualche passo del Macbeth.
Cose simili trovò l’artista anche riprovandosi in nuove redazioni di soggetti di passione: nella «Coronazione di spine» (nota dalla buona copia di casa Cecconi, Firenze) dove il contrasto tra ombre a luce rasente gonfia il torso del Cristo fin quasi a spezzarlo e le due mani, già vocaboli tipici dell’arte cólta, si oppongono come due oggetti irriconoscibili, senza più nome; o nelle riprese dell’«Emmaus» e del «San Tommaso incredulo» nelle due mirabili, ma purtroppo quasi perdute, tele di Messina; quasi che gli argomenti del Cristo post mortem, che si confonde nella comune umanità di commensale d’osteria o di mendicante piagato, tornassero più cari al suo impegno antiretorico di religione nascosta e, soltanto all’occorrenza, svelata al compatimento dell’uomo comune.
Fu forse verso la fine degli «anni di San Luigi» che il Caravaggio ritornò ancora, ma senza più polemica, su un argomento sacro che gli stava specialmente a cuore, e da diventar per lui quasi autobiografico: il San Giovanni Battista, santo «naturista» per definizione, riottoso, inselvato, scorbutico; digiunatore per vocazione, ma sempre colmo di vita elementare e senz’altri bisogni che di una scodella, di una cannuccia a crocetta e di un agnello, o magari caprone, che l’accompagni.
Nell’esemplare della Galleria Nazionale di Roma, il giovine compagnaccio, che più volte aveva servito di modello all’artista, siede ora scompostamente nel bosco, fra i tronchi venosi, la mano sulla cannuccia scortecciata e, li accanto, la ciotola svuotata dal pennello vorticoso e infallibile come da un Velàzquez di vent’anni dopo. Inciso come sopra un finestrone nero, eppure acceso nel nudo come da un colpo di sole, l’ombra ne beve i vuoti sul fondo come una spugna bollente.
In un altro (già nella raccolta Chichester, ora a Kansas City), la positura verticale è ormai nella « maniera grande » che sta crescendo nel secondo « San Matteo » sull’altare di San Luigi; e la macchia beffarda che addenta il costato, eclissa in parte il ginocchio e cala sugli occhi quei grandi schermi d’ombra, ci dà già la pienezza dell’artista sulla fine del secolo o subito dopo. La veduta nitida del «Riposo» o del primo «Isacco» qui si riduce ad accendere appena quel po’ di ramaglia autunnale che già va seccando in giallo e ocra.
Un «interno di bosco»? Ve n’è più di un presagio, come già era nella siepe di ulivi che ancora s’intravede in certe copie della «Presa di Cristo nell’Orto»; ma, in confronto alle prime vedute create sul vero in un modesto ma portante plein air, il Caravaggio ormai «fa bosco», io credo, nell’angolo dello studio coi ceppi e gli sterpi che, a quadro fatto, andranno a bruciar nel camino.
Quanto all’Agnus Dei, o capro, o abbacchio romanesco che qui non ritorna ma che pur circolava dal tempo del primo « Battista» di Basilea o dell’«Isacco» degli Uffizi, e rientra in scena più tardi, non v’è dubbio che, quando bisognava, il Caravaggio lo affittasse da quelle gregge che, ai primi freddi, ancora attraversano Roma, di notte. Il caprone nello studio a Palazzo Del Monte, sul chiudersi del Cinquecento, non deve sorprendere, del resto, più del toro vivo che, un secolo fa, il Courbet prese a nolo, portandoselo, non so a che piano, nel suo atelier di Parigi.