ALCUNI DIPINTI POCO NOTI DI MASOLINO DA PANICALE
di Bernard Berenson
da: Gazette des Beaux Arts, 1902
(Traduzione di Andreina Mancini)
Negli ultimi sette anni ho avuto la fortuna di scoprire diversi dipinti che possono essere aggiunti al troppo breve elenco di opere di Masolino.
Si tratta, in primo luogo, di una meravigliosa Annunciazione, che si trova a Gosford House, residenza scozzese di Lord Wemyss; quindi, una Madonna nella Kunsthalle di Brema; infine, i resti di una decorazione completa in una sala del palazzo Castiglione, a Castiglione Olona.
L’Annunciazione è un grande pannello: una Vergine dal volto pieno di fascino è seduta a destra, in una vasta sala con esili colonne; a sinistra è inginocchiato un angelo dai capelli biondi, che indossa una veste interamente ricamata con rose d’oro.
C’è qui una forza decorativa che contrasta con la sobrietà quasi incolore che è generalmente considerata il segno distintivo dell’arte fiorentina.
I dipinti di palazzo Castiglione hanno qualcosa di ancora più inaspettato. Il fregio che corre tutt’intorno alla sala attesta che le quattro pareti erano un tempo decorate con affreschi.
Tre di queste pareti sono state imbiancate, ma la quarta ci offre uno spettacolo a cui la storia condivisa della pittura non ci prepara, una singolare sorpresa per gli amanti dell’arte rinascimentale, specialmente dell’arte fiorentina del primo Quattrocento.
Si tratta addirittura di un paesaggio grandioso, una sorta di panorama alpino, con un ampio torrente che scorre impetuoso attraverso la pianura. Per essere sicuri che l’autore sia davvero Masolino, basta osservare quanto questo affresco ricordi a grandi linee lo sfondo del Battesimo che adorna il Battistero di questa stessa città lombarda, paradiso dell’arte.
Un’altra prova è l’analogia tra le masse montuose di questo dipinto e quelle eseguite dall’allievo di Masolino, Masaccio, nella Cappella Brancacci a Firenze: infine, le teste dei medaglioni del fregio sono chiaramente opera di Masolino.
Poiché questi affreschi non possono essere posteriori al periodo compreso tra il 1430 e il 1440, smettiamo di credere che la pittura di paesaggio propriamente detta abbia fatto la sua comparsa in Italia solo più tardi.
I monumenti della pittura, in quest’epoca lontana, hanno generalmente un carattere religioso e, di conseguenza, non si prestano al puro paesaggio. Ma questo genere deve essersi sviluppato abbastanza presto e abbastanza
frequentemente nella decorazione interna dei palazzi. Opere di questo tipo erano purtroppo soggette a scomparire a seconda delle esigenze e dei capricci del padrone di casa. Il numero esiguo di quelle sopravvissute rende particolarmente prezioso l’esemplare conservato a palazzo Castiglione.
La sua testimonianza dovrebbe insegnarci a ignorare gli argomenti ex silentio, cioè negativi, e a non dare credito alle generalizzazioni basate su prove simili. Ma torniamo a Masolino.
La Madonna di Brema è un esempio affascinante e caratteristico di questo genere, in cui la cornice e il dipinto sono un tutt’uno. La Vergine, seduta su un cuscino, tiene in grembo il Bambino, che si solleva per cingere con le braccia il collo della madre – soggetto tanto toccante quanto insolito. Nel timpano della cornice, riccamente intagliata, in stile fiammeggiante, è dipinta una testa di Cristo. Nella parte inferiore della cornice, che, ricordiamo, forma un tutt’uno inscindibile con il dipinto, è riportata la data del 1423.
Questo è un dato di fondamentale importanza, perché nella carriera di Masolino le date certe sono così rare che si può dire che questa sia davvero unica. Insisterei volentieri su queste tre opere, ma, non potendo presentarne le riproduzioni ai nostri lettori, temo che per loro questo studio sarebbe di scarsissimo interesse. Mi atterrò quindi a quanto ho detto, riservandomi il diritto di ritornare sull’argomento quando sarò riuscito a procurarmi delle fotografie.
Passo ora all’esame di due dipinti, anch’essi mai attribuiti a Masolino(1), sebbene a mio avviso siano evidentemente dovuti a questo affascinante artista. Una è una tavola raffigurante la Madonna (Monaco, n. 1019); l’altro è un affresco nella chiesa di Santo Stefano, a Empoli. Parlerò poi di un affresco nel Battistero di Empoli, che può essere attribuito senza esitazione allo stesso pittore.
Prima di procedere oltre, credo di dover esporre quale tipo di argomenti utilizzerò e quale metodo adotterò per sostenere la mia tesi.
Non porterò nessuna testimonianza discutibile, ad eccezione di alcuni affreschi della Cappella Brancacci a Firenze.(2)
D’accordo con Frizzoni, Morelli, Richter, Wickhoff, e molti altri, tra i quali lo stesso Vasari, io vedo in questi affreschi l’opera del nostro pittore, e non del suo discepolo più famoso, Masaccio. Purtroppo il compianto Cavalcaselle, la cui alta e legittima autorità ha spesso dato credito a degli errori, ha dichiarato che Masolino non contribuì in alcun modo alla decorazione della Cappella Brancacci.
Del resto è stato indotto a questa conclusione errata per essere rimasto troppo coerente con se stesso. Per quanto fine fosse il suo occhio, il suo giudizio era troppo timido per permettergli di contraddire le affermazioni del Vasari. Poiché questo insigne scrittore attribuisce a Masaccio gli affreschi di San Clemente a Roma, Cavalcaselle, ignorando l’incontrovertibile testimonianza dei propri occhi, aveva adottato questa attribuzione.
Ma, spaventato dall’abisso che separa le opere attribuite da Messer Giorgio a Masaccio, a Roma, dalle opere eseguite dallo stesso artista a Firenze, ha voluto gettare, per così dire, un ponte su questo abisso, e ha attribuito a Masaccio gli affreschi di Masolino nella Cappella Brancacci.
Ora, se si vuole vedere in questi affreschi l’opera di Masaccio, gli affreschi di San Clemente e le due splendide tavole di Napoli sono evidentemente della stessa mano, e, a rigor di logica, lo stesso si dovrebbe dire degli affreschi di Castiglione Olona.
Purtroppo, Masolino è l’autore ufficialmente riconosciuto di questi ultimi dipinti; ne consegue che gli appartengono tutti. Naturalmente, i critici d’arte hanno seguito Cavalcaselle, senza nemmeno sospettare la fragilità della sua tesi. Tuttavia, si può già notare una certa esitazione tra gli allievi del critico italiano.
Nell’ultima edizione del Cicerone, vedo che lo stesso signor Bode sospetta che Masolino possa non essere stato estraneo alla decorazione della Cappella Brancacci. Una volta imboccata questa via giusta, non può fermarsi a metà strada, e sarà inevitabilmente portato a concludere che il nostro pittore è anche l’autore degli affreschi di Roma e delle tavole di Napoli.
Bisogna andare fino in fondo. Cercherò quindi dei termini di paragone nelle opere riconosciute di Masolino a Castiglione Olona e negli affreschi ancora contestati della Cappella Brancacci, soprattutto nel più grande, il cui motivo principale è la Resurrezione di Tabita. L’autorevolezza del Vasari e le mie osservazioni personali mi danno la certezza che questo lavoro è proprio opera di Masolino.
A proposito del Vasari, mi si può forse obiettare che io non ho il diritto di invocarlo qui, quando lo contraddico altrove; ma io considero il mio lettore più assennato del satiro della favola, e capace di intendere che c’è un tempo per tutto, che a volte è bene soffiare per scaldare e a volte per raffreddare*, che a volte è necessario trascurare l’opinione del Vasari e talvolta accettarla.
In generale, questa autorità dovrebbe essere accettata nella misura in cui una tradizione trasmessa dal Vasari sembra essere saldamente consolidata.
* Nota del traduttore: Si tratta di una favola di Esopo (Favola 60), ripresa più tardi da La Fontaine (Le Satyre et le Passant): un passante entra nella casa di un Satiro e viene invitato a condividere il pasto. Il passante si soffia sulle dita e poi sulla zuppa, spiegando che il primo soffio gli riscalda le mani e l’altro raffredda la zuppa. Il Satiro lo caccia via dicendo: – Indietro coloro la cui bocca soffia caldo e freddo. In senso figurato, significa dire tutto e il contrario di tutto, cambiare opinione.
Nel caso di specie, trattandosi di due grandi artisti fiorentini come Masolino e Masaccio, è a Firenze più che a Roma che la vera tradizione deve essersi perpetuata.
La Cappella Brancacci divenne ben presto, e al tempo del Vasari lo era ancora, la scuola d’arte fiorentina più frequentata.
A Firenze, in questa forte falange di artisti convinti della dignità e del valore della loro professione, è probabile che nulla di ciò che riguardava la breve ma memorabile carriera di Masolino sia caduto nell’oblio o sia stato offuscato dalla confusione. In effetti, non c’è una sola affermazione del Vasari riguardo a questi affreschi della Cappella del Carmine che non mi sembri pienamente confermata dalla testimonianza dei miei occhi.
A Roma, invece, in mezzo a questa popolazione eterogenea di artisti provenienti da tutti i posti d’Italia e dell’estero, quale tradizione poteva sopravvivere?
Si dimenticava presto il nome dell’artista vero e si attribuiva subito l’opera al più grande maestro della scuola. A Roma, qualsiasi dipinto di Masolino sarebbe stato quasi immediatamente attribuito a Masaccio. E’ quindi probabile che Vasari abbia registrato la falsa tradizione di Roma, così come aveva raccontato l’autentica tradizione di Firenze.
Questo per quanto riguarda Vasari. Passo ora ai risultati della mia osservazione personale.
Quarant’anni fa, quando si cominciava ad analizzare attentamente le opere d’arte, la differenza tra Masolino e Masaccio poteva non sembrare evidente. Lo stesso può valere ancora oggi per i critici inesperti. Ma un occhio un po’ allenato non può esitare tra questi due pittori, perché, nonostante certe analogie superficiali, i loro stili sono nettamente distinti.
Rispetto a Masaccio, Masolino si preoccupa molto meno della solidità della forma, della grandezza, della dignità, dell’ordine e della pienezza della composizione. Invece, è molto più interessato alla bellezza, alla delicatezza, all’emozione e al colore.
Per lui il drappeggio, lungi dall’avere il valore puramente funzionale che Masaccio gli dava, rimane intriso dell’eleganza un po’ artificiosa della scuola di Giotto. Insomma, Masolino, come i suoi illustri contemporanei, Gentile da Fabriano e Vittore Pisanello, è un artista di transizione. Per l’osservatore che sa guardare, Masaccio è ben diverso.
Nei suoi dipinti di piccole dimensioni, così come nei suoi affreschi monumentali, si può scorgere il creatore e il fervente propagatore dello stile eroico; disdegna l’espressione individuale, si preoccupa poco della bellezza, non prova mai una tenera emozione; ma è sempre maestoso, profondo, quasi spaventoso.
Questa passione per l’effetto grandioso dell’insieme si accompagna a una certa indifferenza per i dettagli; le mani di Masaccio, ad esempio, non sono sempre disegnate in modo impeccabile; le orecchie, invece di essere parallele al naso, hanno la tendenza a formare con esso un angolo sgradevole.
Quest’ultima osservazione può sembrare inutile a chi ha come giudice solo la propria sensibilità: ma per noi archeologi ha, nel caso presente, un significato e una portata notevoli.
Avendo notato queste differenze tra maestro e allievo, faccio fatica a immaginare che un occhio sufficientemente esperto possa non riconoscere tutto ciò che separa la Resurrezione di Tabita dal Pagamento del Tributo, che le sta di fronte sulla parete della Cappella Brancacci.
La prima di queste opere presenta scarsa solidità, mancanza di proporzioni, gli atteggiamenti, i gesti, l’allegria della scuola di transizione e anche della scuola di Giotto, mentre l’altra ha la rigidità marmorea, l’aspetto massiccio di una montagna, insomma quel carattere monumentale e grandioso che nessuna arte successiva, nemmeno quella di Michelangelo, ha saputo eguagliare.
Per prendere in prestito un paragone dalla letteratura, dirò che uno è il Libro di Ester e l’altro è il Libro di Giobbe. Si dirà che il genio di Masaccio non ha sempre questo carattere? Citatemi allora un’opera che non ne porta il segno.
Ovunque troviamo il suo temperamento, almeno nelle sue grandi linee anche se si manifesta in forma un po’ attenuata nella piccola predella e persino nel desco da parto di Berlino.
Per me, e per coloro che condividono il mio modo di vedere le cose, questo ordine di prove è più che sufficiente, e non userò nessun suggerimento dalle particolarità morfologiche. Tuttavia, più si confronta la Resurrezione di Tabita con gli affreschi di Castiglione Olona, più ci si convince che queste opere sono della stessa mano.
Possiamo ora tornare alla nostra tesi, ovvero che una Madonna di Monaco e un affresco di Empoli sono entrambi di Masolino.
La Madonna, seduta su un cuscino, guarda con tenerezza dolente il Bambino che alza le manine al seno nudo della madre; ai due lati, inginocchiati sulle nuvole, due angeli con le ali spiegate; in basso, Dio Padre appare in mezzo ai cherubini e manda lo Spirito Santo sotto forma di colomba.
Questa Trinità è elencata nel catalogo di Monaco come dipinto fiorentino datato intorno al 1440. Innanzitutto, questa è una data molto tarda per un’opera che mostra un evidente carattere di transizione. L’Eterno appartiene quasi esclusivamente alla scuola di Giotto; il volto della Madonna non sarebbe fuori luogo alla fine del XIV secolo, e il cuscino su cui è seduta rimanda alla stessa epoca.
Se il panneggio segna un progresso, si tratta di un progresso molto lieve, anche se abbastanza significativo. Lo stile quattrocentesco appare solo negli angeli, nel modellato più deciso di alcuni dettagli, in particolare nella figura del Bambino.
Se davvero questo dipinto fosse stato eseguito dodici anni dopo la morte di Masaccio, quando il Beato Angelico aveva già realizzato la maggior parte delle sue opere, dovremmo concludere che l’autore era uno di quegli strani ritardatari che adottano un’idea solo quando intorno comincia ad essere abbandonata.
Ma le persone di questo genere si tradiscono almeno in due modi: a volte la loro esecuzione è tanto goffa quanto la loro ispirazione è lenta; a volte il loro lavoro rivela, in qualche punto, l’evidente influenza di un contemporaneo.
A volte uniscono addirittura questi due difetti. Ora, nel dipinto che ci interessa non si rileva nessuna traccia dell’influenza del Beato Angelico.
Forse uno sguardo troppo frettoloso crederà di scoprire negli angeli qualche richiamo a questo maestro; ma un’osservazione più attenta mostra che questa analogia è superficiale e dovuta più alle idee generali dell’epoca che all’imitazione. Se l’autore fosse stato un emulo del Beato Angelico, perché si sarebbe limitato a riprendere i drappeggi degli angeli?
Sicuramente sarebbe stato più naturale per lui imitare i suoi volti, specialmente la testa della Vergine. D’altra parte, l’esecuzione non è affatto grossolana; non si potrebbe immaginare niente di più grazioso, giocoso e affascinante di questa Trinità. Guardate con quanta cura l’autore ha disegnato le estremità, come ha disposto con cura le più piccole pieghe dei panneggi.
Masolino sembra aver capito che questi dettagli devono evocare l’idea della loro funzione; ne ha tratto tutto quello che ci si poteva attendere da un artista in cui il senso della forma e della solidità era ancora imperfetto, e che non era in grado di rinunciare del tutto alle abitudini calligrafiche. Tutto questo dimostra che, lungi dal raccogliere idee abbandonate da altri, egli rivaleggiava con i geni più avanzati del suo tempo.
Possiamo quindi scartare la data dal catalogo di Monaco: questa Trinità è stata certamente dipinta, non nel 1440, ma una ventina di anni prima. Chi è l’autore? La critica ha il diritto di discutere un’opera attribuita a un pittore solo se conosce quell’artista come noi conosciamo il volto, i gesti e l’andatura dei nostri amici più intimi.
Chiunque abbia familiarità fino a questo punto con i dipinti di Masolino a Castiglione Olona capirà immediatamente che Masolino è l’autore della nostra Trinità. Questo è un fatto ovvio, che non ha bisogno di nessuna dimostrazione; sarebbe come voler dimostrare a un uomo che questa o quella persona, a lui sconosciuta, è questo o quel nostro amico.
Tuttavia, posso aggiungere qualche dettaglio. La Madonna ha il tipo aquilino che si trova in diverse figure – in particolare dove i volti sono leggermente girati di profilo – negli affreschi di Castiglione. Gli angeli assomigliano molto a quelli di questi stessi affreschi, in particolare all’angelo inginocchiato ai piedi di San Luca.
L’Eterno è quasi identico al San Giovanni del Battesimo di Cristo, o alla testa che si intravede a destra di Gesù nella Predicazione di San Giovanni Battista. Anche gli angoli degli occhi sono un po’ rialzati; un’identità sorprendente appare anche nella capigliatura degli angeli e nelle pieghe dei drappeggi; invito in particolare a confrontarle con la veste dell’evangelista.
Quindi non si può ragionevolmente dubitare che Masolino sia l’autore del dipinto di Monaco. Nessun altro nome poteva essere proposto per un’opera del genere, se non quello di Masaccio.
Ma, esaminando le opere giovanili di quest’ultimo, come la Madonna con Sant’Anna del Museo di Firenze, o l’Adorazione dei Magi di Berlino, si può facilmente constatare che Masaccio prese, come punto di partenza, il punto di arrivo di Masolino, e che non può essere l’autore della tavola di Monaco.
Infine, questo dipinto presenta così tante analogie con la Madonna di Brema, che non c’è dubbio che entrambi siano della stessa mano. Tuttavia, poiché questa Madonna, che porta il segno di un sensibile progresso, è datata 1423, possiamo attribuire alla nostra Trinità la data approssimativa del 1420.
Uno o due anni fa, l’affresco di Empoli era ancora quasi invisibile, nascosto da uno di quegli strani schermi con i quali si pretende di esaltare la sacralità delle immagini. Essendo posta molto in alto, sotto un ampio arco, è molto difficile fotografarlo. Siamo tuttavia riusciti ad ottenerne una riproduzione che darà al lettore un’idea della delicatezza, della raffinata eleganza e della grande bellezza dell’opera.
La Madonna stringe al cuore il Bambino; accanto a lei stanno due angeli, con le braccia incrociate sul petto, in atteggiamento di preghiera e meditazione. I volti hanno la dolcezza e il fascino che caratterizzano Masolino. Il Bambino è risoluto e pieno di dignità nel suo gesto di benedizione.
Non è nudo, ma indossa uno di quegli abiti ricamati a cui il nostro artista è affezionato. Il colore è di una brillantezza luminosa, senza uguale nella pittura toscana; questo si spiega, non solo con il meraviglioso stato di conservazione del dipinto, ma ancor più con la riconosciuta abilità di Masolino come affrescatore.
Scrive a questo proposito Vasari: « Ma dove Masolino dette prova del maggior merito fu nella pittura di affreschi. Ci è riuscito così bene, sfumava e fondeva le tonalità con tale perfezione, che i suoi toni della pelle hanno la più grande delicatezza che si possa sognare. »
Ancora una volta, l’opera è così palesemente di Masolino che sembra superfluo cercare di dimostrarlo. Tuttavia, per gli scettici, una breve dimostrazione potrebbe non essere inutile.
Si confrontino dunque la testa di questa Vergine con quella dell’affascinante efebo che appare di fronte nella Resurrezione di Tabita e con quella dell’adolescente dai capelli ricci della Festa di Erode, a Castiglione. Sono le stesse proporzioni, lo stesso sguardo dolce, la stessa bocca aggraziata, la stessa forma del naso.
Come sempre in Masolino, gli angoli degli occhi sono leggermente rialzati. Infine, gli angeli presentano esattamente il tipo che abbiamo osservato a Castiglione e a Monaco. Ma questo affresco attesta un notevole progresso rispetto alla Trinità di Monaco, forse anche rispetto ai dipinti di Castiglione
Il senso della forma e della grandezza si era notevolmente sviluppato in Masolino: il Bambino è quasi altrettanto fermo nella figura, e severo nell’espressione, come se fosse stato dipinto da Masaccio. Tuttavia, non si può immaginare di attribuire l’affresco a questo artista. L’opera è troppo dolce, troppo delicata, il disegno delle mani troppo elaborato e troppo fine, il colore troppo acceso e troppo trasparente.
D’altra parte, non ci sono dati che impediscano di pensare che Masolino abbia praticato la sua arte a Empoli. Più di chiunque altro, deve essere stato indotto a soggiornare in questa città, dato che abitava non lontano, a Panicale.
Del resto questo non è l’unico affresco che ha lasciato a Empoli. Nel battistero di questa città ammiriamo una Pietà la cui intensità di emozione e la nobile sobrietà ricordano le più belle composizioni di Bellini.
L’opera è già stata citata dal Cicerone, il quale, nel dubbio, la attribuisce a Masaccio, e da me, che, dopo qualche esitazione, ne ho attribuito la paternità a Masolino. Oggi ho smesso di dubitare; sono convinto che Masolino ne sia davvero l’autore.
Certamente non è di Masaccio. Sia nelle tavole che negli affreschi, Masaccio usò sempre un colore più scuro e opaco; qui ritroviamo le tinte bionde e le trasparenze che contraddistinguono gli affreschi di Masolino.
Si notano sempre profili aquilini; la Vergine è la Madonna di Monaco, un po’ più anziana; presenta anche qualche analogia con l’uomo col turbante nella Resurrezione di Tabita. Masaccio non avrebbe mai dipinto un Cristo di forma e statura così poco solide.
Al contrario, osservate come, da questo punto di vista, questo Cristo assomiglia al Salvatore del Battesimo di Castiglione, e come il suo volto, benché impreziosito dalla sofferenza, ricorda quello di Cristo nella Predicazione di San Giovanni Battista, sempre a Castiglione!
Quanto sono diversi entrambi dal Cristo più massiccio, meno espressivo del Tributo di Masaccio! Infine, devo richiamare l’attenzione del lettore sulla parte superiore dell’affresco, dove, in un’apertura circolare, appare un profeta che alza le braccia al cielo di fronte all’orribile spettacolo che vede. In tutte le opere riconosciute di Masaccio, dove si potrebbe trovare un tipo così puramente ispirato al gusto del XIV secolo?
Questo era uno dei personaggi preferiti di Masolino, che l’ha riprodotto due volte, con la stessa fisionomia e nello stesso atteggiamento, nella sola Resurrezione di Tabita. Assomiglia all’Eterno della tavola di Monaco, e lo rivediamo, con alcune differenze, a Castiglione, a volte come Erode, a volte come evangelista, a volte infine come San Giovanni Battista.
Così Empoli può vantarsi di possedere due opere di Masolino che, se non sono tra le più importanti, sono, una la più affascinante, e l’altra la più nobile delle composizioni di questo artista. Ma non c’è nient’altro di suo in giro?
Poco distante, a San Miniato al Tedesco, nella chiesa dei Domenicani, sulla destra entrando nella cappella a destra del coro, si vede un frammento di affresco raffigurante un diacono. Nella chiesa dei Francescani c’è un San Cristoforo, anch’esso affrescato.
Queste due opere versano in un deplorevole stato di degrado. Quando erano intatte, si poteva forse riconoscere in esse la mano e il genio di Masolino.
Bernard Berenson
Note
1 Non gli erano mai state attribuite, per quanto ne so, quando le ho menzionate nelle prime due edizioni dei miei Florentine Painters
2 Gli affreschi della Cappella Brancacci sono stati splendidamente riprodotti in fotografia da Anderson; quelli di Castiglione Olona, da Alinari.