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Renato Ranaldi al  Centro Arte Moderna e Contemporanea di La Spezia

di Lara-Vinca Masini

 

2005

 

Ogni nuova mostra di Renato Ranaldi mi sembra sempre la più riuscita. Questo, a mio avviso, significa che il suo lavoro è andato in un crescendo continuo, per arrivare ad una sintesi di straordinaria coerenza, in un processo di sublimazione del proprio fare che ha pochi confronti. Partito da un’ adesione lucida ad un  organicismo simbolico,  pessimista, oscuro, dove l’ ironia si faceva ora compassione, ora quasi sarcasmo, sul significato generale del vivere e del fare arte, si è spostato, progressivamente, verso una sorta di rimeditazione nei confronti di tutte le certezze formulate, in ogni tempo, attorno alla vita e all’ arte, e, per lui, attorno al senso di “pericolo”, che ha, da sempre, messo in relazione con l’ idea di arte e attorno al senso di perdita che il sistema ha imposto all’ arte stessa, sulla perdita, ad esempio, della grande tradizione della pittura.

E Ranaldi trasferisce, allora, la pittura, sui suoi telai, che assembla in sovrammissioni e stratificazioni convulse, recuperando, anche, sia pure in modo inquieto e complesso, il senso di una razionalità messa sempre in discussione, in una gara serrata, dura, concettualizzata (ma accettata), tra razionale e irrazionale, in un gioco sottile di rapporti tra passione, pulsione e coerenza, tra sentimento e pensiero.

Le tre installazioni, presentate a La Spezia, Vanitas blu royal, del 2003, Bilico di’ ciucho e la berva, pure del 2003, Grande nudo, del 2005 raggiungono, a mio avviso, un punto alto di interiorità e di profondità.

Vanitas blu royal occupa il soffitto di una sala del museo, con una sorta di vortice dinamico, che irretisce la luce che emana dal soffitto, appena schermata da un leggero telo bianco, ed è formato da una disposizione circolare, complessa, di telai azzurri, di quell’ azzurro col quale, scrive Ranaldi, “si progetta l’ immaterialità” (il nome “blu royal” è legato ai colori caratteristici degli addobbi reali francesi; ma Ranaldi fa notare che è anche “il colore della tossicità…quindi della morte, della sparizione…”). E sembra quasi voler mettere in crisi, con l’ ironia appena accennata di una natura morta rovesciata (con bottiglia), anch’ essa blu royal, appesa al centro della composizione, la pseudo certezza di una razionalità legata alla forma.

Bilico di’ ciucho e la berva è un grande bilico azzurro,  con scalette rovesciate, con una grande trave che si curva per il suo peso, che termina, alle due estremità con due scure e corrose teste in bronzo, il ciucho  e la berva, che si riportano al mondo scultoreo dell’ artista, e giustificano il titolo spaesante (come del resto quasi tutti i titoli dei lavori di Ranaldi).

Questo grande lavoro porta avanti un lungo discorso che, nel 2000, vide una delle realizzazioni più poetiche di Ranaldi, Blu reale che aspetta la grazia, il bilico di due sedie azzurre su una trave, anch’ essa in posizione “strabica”, sopra un antico ponticello diroccato, nella Fortezza da Basso, a Firenze (il bilico come simbolo della fragilità e

dell’ insicurezza della vita) durante la manifestazione “Contro la pena di morte”, una bella mostra, che tra l’ altro era costata parecchia fatica e qualche mese di lavoro, che le istituzioni fiorentine, con la loro “consueta” attenzione e il solito rispetto nei confronti delle espressioni artistiche contemporanee, anche molto impegnate (ma non troppo costose – nel qual caso, forse, le cose sarebbero andate diversamente) tennero aperta per un giorno e mezzo…

La terza installazione, Grande nudo, ancora una fitta trama di telai, questa volta dipinti di un rosa luminoso, lievemente freddo, scorre lungo una parete e piega, ad angolo retto, sulla parete contigua; è una vera opera neoclassica, di una raggelata sensualità, alla Ingres, allusiva ad un un nudo morbidamente disteso su una dormeuse.

Anche in questo caso raggiungendo un grado di poesia che supera l’intento, lievemente provocatorio, della perdita della grande tradizione pittorica, nel suo momento più legato al concetto di “sublime”.

 

La mostra si chiude il 25 settembre 2005

 


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