ID 1313360359214776

Agostino Morelli

La stele funeraria di Dianella

 

da:

Cenni Storici e Guida Turistica della Città di Empoli (1975)

(pagg. 89-94)

 

Una stele funeraria come quella che si conserva nel sepolcreto di famiglia della villa Fucini di Dianella è indubbiamente un pezzo archeologico di pregio, sia che si consideri il suo ottimo stato di conservazione e sia per ciò che in esso è esplicitamente testimoniato e implicitamente suggerito.

L’epigrafe proviene dalla zona di Pratovecchio a sud di Empoli Vecchio. Acquistata verso il 1700 dai Federighi, proprietari allora della villa di Dianella, passò successivamente ai Fucini che la murarono sul lato sinistro del presbiterio di una piccola cappella di famiglia nascosta tra il verde del parco della villa stessa.

Sulla stele sono incisi i nomi dei componenti di una nobile famiglia romana, i Gavi, le cui ceneri furono premurosamente raccolte tutte insieme, secondo un’usanza etrusca, da uno dei figli, C. Gavio.

Nessun luogo poteva essere per essa più indicato e più congeniale del silenzioso e umbratile colombario, dove gli ultimi discendenti dei Fucini hanno amorevolmente radunato le tombe di almeno quattro generazioni di loro consanguinei.

Anche il rude condottiero romano che volle quella stele, evidentemente, sotto la scorza della ruvida durezza del conquistatore senza scrupoli e senza pietà covava teneri e pii sentimenti di amore per la madre, per il fratello immaturamente scomparso, per il padre e per lo zio paterno, e cedette un giorno al prepotente bisogno di affidare la memoria dei suoi cari alla sacralità di un rito atavico.

Forse l’età avanzata e l’approssimarsi della fine dei suoi giorni lo avevano indotto a farsi pio e riflessivo e gli consigliarono questo delicato atto di pietà.

Raccogliere in un’unica urna cineraria i resti dei suoi con i loro nomi sopra scolpiti era insieme un atto di devozione filiale e forse un modo per allontanare da sé il presentimento, la paura dell’oblio perenne che i secoli futuri avrebbero steso sulle sue gesta guerresche e sulle sue ceneri, che forse nessuno avrebbe avuto la delicatezza di raccogliere come egli stava per fare per i suoi cari.

Al centro dell’epigrafe, in una voluta simmetria, rivelatrice della priorità e superiorità dell’affetto materno, sta il nome della madre (” Graeciae A. F(iliae) Quintae “), e, sotto, calibrato tra una riga e l’altra, isolato, il termine ” matri “, con una riga intera tutta per questo dolce nome. Chi legge è costretto ad una pausa a questo punto.

Non è ardito pensare che siano state le ceneri della madre a fare da polo di attrazione e a suggerire l’idea di radunare tutti gli altri familiari nello stesso luogo, attorno a lei, anche se l’occasione per far ciò può essere stata suggerita dalla morte prematura ed improvvisa del giovine fratello, L. Gavio.

La madre — è vero — non aveva il sangue gentilizio dei Gavi, ed è questa la ragione per cui  è  qui  chiamata  solo  e   semplicemente

” Quinta “, forse la quintogenita di una famiglia numerosa di un oscuro greco, di cui si suggerisce la sola iniziale ” A “, ma per il vecchio legionario, che cominciava a vivere di ricordi, guardando ormai più al passato che al futuro, la madre era ” la prima ” nella gerarchia degli affetti, essendo stata, tra l’altro, la prima persona cui si riconnettevano le sue dolci rimembranze dell’infanzia e dell’adolescenza.

È sicuramente questa la ragione precipua del posto d’onore a lei riservato nella studiata simmetria del severo ed elegante testo epigràfico. Il legionario ha definito se stesso un rude, un duro (” asper “), ma è da credere che questo non abbia voluto essere per niente un atto di millanteria.

Oltre tutto sarebbe stato qui un vanto fuori luogo, un gesto da spaccone, di quelli che aveva l’abitudine di compiere il ” miles gloriosus ” di Plauto. Il termine ” asper ” fa coppia, contrapponendoglisi, con un altro, ” mansueto “, attribuito al giovine fratello, anch’esso un militare, scomparso all’età di trentasei anni, ma presumibilmente non per morte naturale.

In ” mansueto ” non è difficile immaginare la madre tutta intenta a coccolare ed accarezzare il più giovine dei suoi figli, un figlio mansueto e, cioè ” manibus suetus venire “, un figlio mite, tutto sommato un cuor d’oro, sprovvisto perciò dell’arroganza necessaria e di quel minimo di ribalderia di cui dovevano dar prova gli ” aspri ” condottieri romani.

In ” mansueto ” ci sentiamo anche il rimpianto del fratello maggiore e un rimprovero a se stesso, perché forse suggerì lui stesso la carriera militare al fratello, che non aveva nessuna vocazione per il mestiere delle armi.

La dolcezza che promana da tale termine autorizza a credere di essere pure in presenza di un vero e sincero atto di riparazione, sia pure tardivo e solo idealmente, affidato nei secoli alla buona volontà dei viandanti, solitamente frettolosi e poco interessati alle parole scritte sui sepolcri.

E qui potremmo tagliar corto col nostro discorso, perché di congetture e non d’altro d’ora in poi dovremmo interessarci per ulteriormente tentare di capire gli interrogativi che ci pone il reperto.

 


* Poiché è notorio che sin dagli ultimi anni della Repubblica Romana la nobiltà ambiva a far mostra delle tombe dei propri avi sulle vie consolari o comunque su strade assai frequentate, è da credere che la stele fosse stata posta ai bordi dell’ampia strada che allora univa Firenze a Pisa (la Cassia) e che, a quanto pare, doveva passare per Pratovecchio. La stele fu infatti rinvenuta nell’acquitrino di Pantaneto, nella zona di Pratovecchio.


 

Ma quando il risultato di tali congetture quadra sì magistralmente con quanto hanno suggerito le parole del testo epigrafico e con quanto è d’attorno ad esso con tanta grazia ed euritmia disegnato e raffigurato, come si può lasciar correre senza tentare di dare una spiegazione a ciò che pure dobbiamo pensare che sia stato collocato Iì sopra non per mero capriccio?

Ci riferiamo in particolare alle raffigurazioni sbalzate come cornice attorno al tenue rilievo del cippo funerario. Non è solo pura cornice decorativa Ia presenza dell’ubertosa vita dei campi che promana dai tozzi pampini e dai duri grappoletti dell’uva e non sono lì proprio per caso sui ramoscelli di vite i canori amici di Afrodite.

II carro della Dea dell’Amore vola nel cielo, dice Saffo, tra stormi di passeri1 e rivolgendosi alla stessa Dea, Lucrezio, un grande poeta molto letto dalla nobiltà romana aveva scritto per essa:

 

” E appena la bella stagione di primavera

porta sui zeffiri il verde alle piante,

gli uccelli dall’aria schiarita, di te caldi o Dea,

cantano la tua dolce presenza “2

 

Afrodite è qui presente nel canto dei passeri innamorati e nella rigogliosa vita dei frutti, ma è sicuramente qui perché aveva già trovato posto nel cuore del legionario.

Afrodite non è più per un lettore di Lucrezio solo la Dea dell’Amore, è ormai un ideale di purezza, di amore palpitante per le gioie più intime e per quelle familiari in particolare, quando in specie si contrappongano loro, come in Lucrezio, le cariche pubbliche, la lotta politica come vita sconvolta da risse e da imprevisti, o la guerra come distruzione e massacro, o la morte come interruzione brusca della felicità umana e come perdita senza rimedio di un bene supremo e incommensurabile: la gioia di vivere.

Il legionario sente tutto questo forse un po’ confusamente. Troppo sintetico e non ben chiaro, comunque, è il messaggio che ha voluto trasmetterci attraverso le figure che fa comparire nella cornice.

Ma un messaggio c’è, e noi dobbiamo sforzarci di decifrarlo. Alla felicità e alla prosperità campestre della parte superiore ha poi voluto contrapporre, più in basso, un altro mondo, una realtà più pedestre, più tragica.

Questo vogliono sicuramente significare le due sequenze di una favola di Fedro simmetricamente incastonate a piè del cippo. Ma che cosa sono precisamente quella cicogna e quella volpe che pare un lupo?

E’ un linguaggio poetico, simbolico, quello a cui è stato affidato il messaggio del legionario, e come tale dev’essere esaminato se vogliamo cavarne una spiegazione plausibile.

Certo è che se avessimo lì trovato al posto della candida cicogna e della volpe, ad esempio, le sembianze del piccolo Eros e di Afrodite tutto sarebbe stato assai più chiaro.

Così come, ad esempio, la scena di un giovane guerriero morente avrebbe reso tutto più comprensibile e non sarebbe stato proprio difficile, d’altro canto, collegare quella morte con quella del fratello del legionario, ultimo lutto della famiglia Gavia.

Ma le immagini cui si è affidato il legionario, abbiamo visto, sono ispirate a poeti e a quelli più astrusi, come Lucrezio, poeta filosofo, e come Fedro, un moralista che mascherava gli aspetti più sconcertanti della tragedia umana chiamando in scena non gli uomini ma le maschere misteriose ed enigmatiche degli animali.

Quella volpe e quella cicogna sono comunque i personaggi ben identificati di una favola fedriana, per l’esattezza la ventiseiesima del primo libro. Ma quale può essere il rapporto che lega la favolistica fedriana ad una stele funebre?

                                                                  


  

          1    SAFFO – « Afrodite », versi 9/12.

           2    LUCREZIO – « De rerum natura », Primo libro, versi 10/14

 


 La stele di Dianella

 

La possibilità di un tale accostamento è prospettata in una lettera di Anneo Seneca inviata all’amico Polibio3. Per riportare la calma e Ia serenità nel cuore e nella mente dopo un lutto che ci ha sconvolti, nulla di meglio, dice Seneca, che cercare di consolarsi prendendo familiarità con letture che inducano alla riflessione e alla meditazione.

Nulla di più congeniale, dice ancora Seneca, di quella ” summula ” di saggezza popolare che è un’antologia di favole. Questo spiega sufficientemente, ci pare, il pio e saggio desiderio del nostro ” aspro duce ” di commemorare i suoi e insieme di trovare un modo per togliersi dalla mente il ricordo dei lutti e dal cuore la spina del dolore.

A testimoniare, d’altro canto, Ia validità di una tale norma consolatoria, per noi oggi per lo meno un po’ strana e inconsueta, stanno i tanti cippi funerari riesumati e trasmessi oggi a noi dall’archeologia, su cui sono come di casa le raffigurazioni della fauna esopica e fedriana.

A nostro avviso però questa non doveva essere l’unica ragione che consigliava di scegliere Esopo o Fedro come poeti dei sepolcri. Era sicuramente Ia natura stessa della favola (o dell’ “apologo” o della “parabola”, se così piace pure chiamarla), il suo succoso fondo di verità inequivoche che aveva assicurato nei secoli la sua popolarità fra gli umili e i semplici.

La favola era diventata un linguaggio facile, senza astruserie, una filosofia agevole ad intendersi, un lessico così chiaro che anche ai livelli più bassi dell’analfabetismo plebeo trovava sempre chi ne intendeva di colpo i significati più riposti e i concetti altrimenti inattingibili dai testi dei filosofi come Platone o come Cicerone.

Orbene, requisito essenziale per una stele funeraria era quello di poter esser letta da tutti ed esser chiara come una favola. A Roma la favolistica era la prima pedagogia cui le madri affidavano la continuazione del loro rapporto di educatrici coi figli.

Erano generalmente le nutrici nelle case dei ricchi e quasi sempre le mamme nelle case degli umili che trasmettevano ai bimbi attraverso questo linguaggio suggestivo della semplicità i primi rudimenti di una educazione che avrebbe dovuto aiutare Ia prole a vivere onesta e virtuosa.

Quintiliano addirittura consiglia i facili testi della favolistica per le prime esercitazioni grammaticali dei fanciulli che frequentano le scuole pubbliche4.

Ora in Fedro la favola era diventata alta letteratura, a tal punto che egli disdegnava di esser letto dal plebeo illetterato5. E’ chiaro: egli sapeva perfettamente che tale genere letterario era coltivato in special modo tra i liberti e gli schiavi della Suburra e lui non era più da tempo ormai uno schiavo ma un ” protetto ” dell’imperatore Augusto.

A dispetto di Fedro, però, la sua favola resta un mezzo espressivo popolare, sia pure sintetico e concettoso, ma un efficace e trasparente tramite per comunicare una verità conclamata.

C’era il pericolo che dire la verità potesse dar noia a qualcuno, ma c’era il vantaggio di poter nascondere le proprie intenzioni sotto la maschera di un animale e di mettere a segno i propri strali con la protezione dell’allegoria6. E adunque a questo linguaggio cifrato che era l’allegoria che fece ricorso anche il nostro legionario e lo fece in modo che effettivamente pare oggi che egli si sia divertito per mettere in imbarazzo chi avrebbe poi cercato di far uscir fuori il significato segreto di quelle due scene con una volpe e una cicogna.

Un giorno una cicogna fu invitata dalla volpe ad una colazione, ma restò gabbata e delusa perché I’astuta assalitrice di gallinacei le aveva offerto in un piatto (patena) un cibo liquido che non le era stato possibile in nessun modo sorbire col suo lungo becco.

Un altro giorno fu la cicogna che prese l’iniziativa di invitare a casa sua Ia volpe e questa volta fu proprio Ia volpe a non potersi satollare perché Ia pappa era stata ammannita sul fondo di un vaso dal collo strettissimo (lagona). La volpe dovette limitarsi a subire la vendetta del volatile consumandosi la lingua a forza di leccare iI bordo esterno dello strettissimo piatto.

Una spiegazione dell’enigma potrebbe derivare dall’attribuire l’intenzionalità della scelta della cicogna a emblema della famiglia Gavia a ragioni di lustro nobiliare, anche se la cicogna non proprio, ma il gabbiano (in latino: gavia) doveva essere il loro simbolo di famiglia.

Ora, considerato che il gabbiano non figura mai fra i volatili di Fedro, Ia cicogna, in virtù della sua somiglianza con quell’uccello di mare, potrebbe essere stata una scelta di ripiego, ma non per questo scelta cervellotica, tanto più che le cicogne e non i gabbiani dovevano essere, circa duemila anni or sono, le vere amiche dei coltivatori di questa paludosa valle dell’Arno.

E poi i Gavi potevano andar fieri del candido e nobile uccello delle paludi se Ia sua astuzia a giudizio di Fedro superava quella della volpe (ritenuta Ia quintessenza della furbizia), e se sapeva mettere in atto con tanta intelligenza Ia linea di condotta dei Gavi, che come uomini d’arme non potevano tra I’altro rinunciare alla vendetta come ritorsione ad un torto patito.

Norma di comportamento per un rude condottiero come C. Gavio poteva essere forse quella di rinunciare ad un atto, del resto naturale e così frequente in un uomo d’arme, quando scontri del genere potevano contribuire a nobilitare in sommo grado Ia famiglia?

Chi tra i Gavi avesse dimenticato di fare onore a questo codice cavalleresco, poteva considerarsi perduto. E forse ciò capitò proprio al fratello, ” il mansueto “. E la sua fine fu forse conseguenza della sua eccessiva arrendevolezza nei confronti di chi lo provocò senza trovare la necessaria reazione al sopruso patito. Nel primo e nel secondo secolo dopo Cristo (la stele è sicuramente di quel tempo) erano piovuti in Roma da quella riserva di schiavi che erano la Grecia e il Medio Oriente certi oscuri predicatori di una nuova dottrina che voleva, tra l’altro, introdurre più razionali e più umani rapporti di convivenza nella vita sociale.

 


 

 3  SENECA – Cons. ad Polyb. – VIII, 27.

 4   QUINTILIANO I, 9. F

 5   FEDRO – « Favole » – Prologo al libro IV –  «II plauso dell’ignorante volgo non desidero»

 6  L’ “allegoria” è infatti, generaImente, una figura retorica o una raffigurazione pittografica con cui si vuol esprimere, e cioè “dire” qualcos’ “altro” o qualcosa di “diverso” da ciò che esplicitamente e senza tante frapposte perifrasi è stato espresso o figurativamente disegnato. “Allegoria” è un termine greco composto da “àllon ” che significa “altro” o “diverso” e “agoréuo” che equivale a “dico, esprimo “.

 


 

 

La parte più bassa della Stele funeraria di Dianella con la raffigurazione « dramatica »  dei due episodi centrali della favola fedriana

 « La volpe e la cicogna »

 

Erano esempi preclari di mansuetudine dinanzi ai loro persecutori e alla morte e insegnavano a disarmare l’aggressore non opponendo violenza a violenza ma porgendo l’altra guancia alla seconda percossa.

Il giovane milite della XII Corte dell’Urbe conobbe certo questi ometti modesti e dimessi, pieni di fede e senza la paura della morte. Nei loro testi sacri erano proprio chiamati ” mansueti “. Li apprezzò L. Gavio, li ammirò, ne fu affascinato?

Chi scoprirà mai questo mistero? Neanche l’archeologo più fortunato potrà mai illuminarci su questo affascinante retroscena: dovrebbe fare troppe scoperte. Eppure i seguaci di quei predicatori non trovavano ospitalità solo tra le genti della Suburra. Ci fu persino tra le guardie del Pretorio, nella stessa famiglia imperiale chi sentì il fascino di questa nuova filosofia dell’amore fraterno.

Di L. Gavio contentiamoci di supporre che sia stato vittima del suo carattere dolce e della sua condotta non violenta, senza volere ulteriormente soddisfare il nostro istintivo bisogno di conoscere ancora i molti particolari oscuri del dramma, seguendo i quali oggi scivoleremmo davvero, di congettura in congettura, in un romanzo improbabile ed incredibile.

Ma passiamo oltre, o meglio, esaminiamo insieme una diversa ipotesi che possa dare una spiegazione non proprio ” letterale ” come quella ricavata dalla supposizione di avere individuato nella cicogna un emblema araldico.

Esaminiamo un’ipotesi di più ampio respiro, partendo dal presupposto che C. Gavio fosse si un ” aspro ” soldataccio, ma anche un buon conoscitore dei classici e un amante della poesia, come del resto lo furono non pochi veterani delle guerre di conquista romane, che poi, ” in senectute “, nell’ ” otium ” delle ville di campagna si dedicarono al diletto delle lettere e della filosofia.

Tale ipotesi ci autorizzerebbe a trovare, se non altro, un rapporto più dinamico, più organico, tra le varie parti della stele. In alto, la poesia degli affetti nella curata ed elegante grafia del testo epigrafico e nella variopinta atmosfera della campagna ridente e della vita esplodente dai grappoli e dal fremito dei piccoli navigatori canori del cielo, una campagna che gli zeffiri hanno rivestito di gemme e di fiori e che hanno fatto diventare un ” paradiso “, e cioè un giardino fiorito, un ” posto ” congeniale ai sogni d’amore e ad una felicità senza delimitazioni.

Sempre in alto, ma in contrasto con questa vita lussureggiante, la morte, le ceneri, il buio perenne della tomba. Una contrapposizione frequente nella immaginosa fantasia di un uomo di duemila anni or sono concepita per esaltare la validità della vita e insieme per onorare coloro che “non sono più”, essendone stati recisi gli esili legami che le Parche avevano filato e con cui li tenevano avvinti al mondo della luce e della gioia.

 

Tu fior de la mia pianta

percossa e inaridita,

tu de l’inutil vita

estremo unico fior,

sei ne la terra fredda,

sei ne la terra negra;

né il sol più ti rallegra

né ti risveglia amor.

                 (G. Carducci) 7

 


7  G. CARDUCCI – Rime nuove – VI, «Pianto antico..»

_________________________________________________________________________

 

Primavera dintorno

brilla nell’aria, e per li campi esulta,

sì ch’a mirarla intenerisce il core.

Odi greggi belar, muggire armenti;

gli altri augelli contenti, a gara insieme

per lo libero ciel fan mille giri,

pur festeggiando il lor tempo migliore:

tu pensoso in disparte il tutto miri;

non compagni, non voli,

non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;

canti, e così trapassi

dell’anno e di tua vita il più bel fiore.

         (G. Leopardi)8

 


8   G. LEOPARDI – Canti; XI, – « Il passero solitario ».


 

Ecco due esempi di poesia pessimistica, che sono però nel contempo una splendida esaltazione del seducente mistero della natura  e della sublime validità del vivere e del “gioire”9. Quasi “lo stesso” stato d’animo quello di Saffo e di Lucrezio e quello di Carducci e di Leopardi nei confronti della vita e della natura e del loro fascino irresistibile.

Come può essere accaduto? Giunti alla luce e alla poesia da quattro punti cardinali diversi, quei poeti hanno potuto incontrarsi tuttavia e intenerirsi quasi con “le stesse” immagini e con le stesse espressioni.

Ciò è stato possibile perché uno stesso intenso ardore li teneva avvinti alla vita del cosmo, della cui intimità essi sentivano di far parte, e perché i duemila anni e più che dividono Saffo da Carducci sono stati perfettamente “un nulla di fatto” nei tentativi escogitati e perpetrati dall’uomo per veder chiaro nel fitto mistero della vita e della morte e in quello della gioia e del dolore.

Ogni tappa, ogni vittoria sul sentiero del conoscere si è rivelata in questo campo sempre una risposta incompleta e inadeguata ai bisogni e ai desideri sempre rinascenti dell’uomo.

Ma ritorniamo a C. Gavio. La contrapposizione dialettica  tra ” le ceneri ” e ” la luce del sole ” continua ora a piè del cippo tra ” la luce ” e la penombra della ” bolgia tragica ” del vivere quotidiano simbolicamente espressa nello scontro fra una cicogna e una volpe.

Fedro non suggeriva nelle sue favole che intrighi e perfidia (il lupo contro l’agnello), incontri e ricatti (il lupo contro la gru) e la rissa, come nel caso nostro, con l’immancabile vendetta finale, anche se condotta col delicato tocco di un atto di pura intelligenza ed astuzia.

Fedro però aveva proprio scritto ciò che faceva per il caso. C. Gavio deve aver gioito quando ha finito di leggere la ventiseiesima favola fedriana del primo libro.

Tutte le ragioni che avevano mosso il veterano a consultare il repertorio fedriano per concludere a piè del cippo il suo discorso, iniziato  con  le  parole  dell’ epigrafe  e  con  un  deferente  saluto  alla  Dea  della  giocondità  della  vita e da chiudersi con la goffa e ” oscena ” lingua di un povero canide costretto per ritorsione a leccare solo i bordi di un piatto impossibile, avevano finalmente trovato il modo di ricongiungersi insieme in una visione unitaria e in un disegno preciso.

I due regni, quello degli affetti più teneri e delle gioie più pure e quello su cui domina sovrano l’egoistico tornaconto, la costante conflittualità di interessi, la perfidia; i due regni, che poi sono due modi contrapposti di intendere la vita e di apprezzarne i suoi valori più veri, sono ci pare così presenti nella stele dei Gavi, anche se espressi con linguaggio cifrato e un tantino ermetico, che non ci possono essere più seri dubbi sull’intenzione del pio legionario di voler collegati in un ideale unitaria ricongiunzione tre momenti della sua esistenza, tre punti fermi, tre propositi: onorare i familiari e in particolare la madre e il fratello prematuramente scomparso; compiangere la loro scomparsa esaltando il tripudio della natura in fiore, la gioia di vivere e la luce sfolgorante del sole di cui i suoi cari erano stati privati; consolare in qualche modo se stesso cercando rifugio nella saggezza e nella intelligenza della favola, unico mezzo per sovrastare e per non cedere le armi nella incessante e incerta rissa che distingue e caratterizza le operazioni umane e i contrasti insanabili dell’umana convivenza.

Qualcuno a questo punto potrebbe chiederci che cosa concretamente sappiamo della ” gens Gavia ” e in particolare di questo ramo dei Gavi che abbiamo molte ragioni di ritenere ” empolesi ” almeno per adozione, e ciò anche al di fuori da ogni induzione o deduzione che l’ermeneutica archeologica potrebbe averci suggerito.

La risposta potrebbe portarci molto lontano, tuttavia assai succintamente diremo che i Gavi, forse originari di una città di mare essendo un gabbiano (lat. ” gavia “) il loro distintivo totemico, sono personaggi già notevolmente influenti nella Roma dei primi imperatori.

Un Gavio Silvano della legione pretoria è addirittura al centro dell’intricata faccenda della congiura dei Pisoni contro Nerone e della morte del filosofo Seneca, ritenuto dall’imperatore in contatto coi congiurati.

Gavio  Silvano  comunque  morì  suicida  in  concomitanza  dei  tragici  provvedimenti presi per rappresaglia dal feroce imperatore. Il ” mansueto ” L. Gavio secondo la stele faceva parte di una coorte, la dodicesima, di stanza a Roma, ma non abbiamo elementi per fissare alla sua milizia un’epoca precisa.

Le ” coorti urbane ” costituenti la più forte guarnigione militare dell’Urbe, una sorta di polizia politica, erano state comunque costituite da Nerone, il quale evidentemente reputava non più sufficiente per l’ordine pubblico e per la sua incolumità la vigilanza delle ” coorti pretoriane “.

Da quando si presume che i Gavi possano essersi insediati nella zona del ” porto ” di Empoli? Non ci sono notizie al riguardo. I papiri e le pergamene finora esaminati tacciono sull’argomento. Solo il reperto archeologico di Dianella dà notizie del fatto.

 


9  Gioia, gusto, gaudium, ghéuo. Con il termine greco « ghéuo » siamo giunti al cuore della misteriosofia orfica che trovò tanto favore sia in Grecia che in Roma. Nelle formule e nelle litanie misteriche questo termine è la ” magica ” consacrazione e divinizzazione della vita come ” godimento ” soave, intimo, ineffabile.


 

Si è giunti alla scoperta che sia l’agro fiesolano che quello pistoiese venivano ceduti in “pensione” ai veterani delle legioni romane, almeno fin dall’epoca di Catilina. Per la nostra valle dell’Arno i toponimi della cartografia antica rivelano, sì, la presenza di coloni romani, ma precisarne l’epoca dell’insediamento è per il momento impossibile.

Sarà bene attendere più approfonditi studi sulla centuriazione delle terre dell’empolese per approdare a conclusioni più sicure. La stele dei Gavi è comunque un punto di partenza (anche se di difficile datazione) per incominciare a lavorare con una certa sicurezza in questo campo. Non ora, ma solo allora sarà forse possibile dire se hanno rapporto con le terre possedute dai Gavi i toponimi come la nostra ” Gavena “: il ” Gavignano ” e la ” Gavignalla ” della Valdelsa e il ” Gavigno ”  dell’Appennino pistoiese.

A fornire ai Cecinesi il toponimo risolutore per fissare l’origine dell’appellativo  ” Cecina ” dato alla loro città, fu il testo assai noto di un’orazione di Cicerone. Aulo Cecina era un legionario che viveva in una villa sontuosa, presso alla marina, su una centuria concessagli in pensione da Silla.

Gli Empolesi non hanno per sfortuna un Cicerone dalla loro parte come i Cecinesi, tuttavia è da credere che anche per noi tanti toponimi riceveranno una risposta quando qualcuno si sobbarcherà alla fatica di interrogare e decifrare le mappe catastali in cui la centuriazione romana ha lasciato tracce sicure e consistenti.

Ci auguriamo d’altro canto che non sia lontano il giorno in cui lo scavo archeologico possa metterci sotto gli occhi qualche altro prezioso esemplare come la stele di Dianella. Solo allora potremo dire qualcosa di più sulla Empoli romana, uscendo dal limbo delle incertezze e delle mere supposizioni.

                                                                                                                                                                                          Agostino Morelli

 


 

Bibliografia

 

1) O. H. GIGLIOLI – Empoli artistica – F. Lumachi editore, 1906 – Firenze, Dianella – (Pagine 189-191).

2) Adolfo VENTURI – Storia dell’Arte ltaliana. vol. III « L’Arte Romanica », Milano, Ulrico Hoepli, pag. 162.

3) BORMAN – BENDORF – Aesopische Fabel auf einem römischen Grabstein (Jahreshefte der Österr. Archäol. Institutes. Bd. V, 1902).

 


 

 

Il Palazzo del Bargello nella Pontorme del 1400 circa.

(Ricostruzione ideale eseguita dal pittore Idimio Arrighi)

 


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