Dalla presentazione della mostra alla Galleria L’Indiano, Firenze 1970
Ingres da un lato, Pascin dall’altro sono, a mio avviso, i termini di confronto a « monte », dal mondo pittorico di Antonio Bueno: una fedeltà malgré lui, alla forma, come unica espressione « libera » dell’artista, come unica salvezza e possibilità di autonomia dell’arte, in quanto, ancora, creatrice di forme; e la cosciente, internazionale — talvolta persino un po’ masochista — volontà di distruzione, di défiguration della forma stessa in un disfacimento che, in Pascin, è il risultato diretto del completo sfacelo di una società sulla quale incombe la tragedia di una guerra. Né possiamo dire, ancora, che cosa ci sia riservato nella contrazione violenta della nostra condizione attuale, in un mondo in cui la scienza, nonché l’arte, divengono quasi sempre, senza possibilità di scampo, strumenti del sistema distruttivo della società. Ingres resta, per Bueno, un punto di riferimento come simbolo della volontà di resistenza di un mondo amato come un’ultima età dell’oro.
Pascin denuncia la dissoluzione di un mondo, il passaggio dall’ultimo « classicismo » parnassiano, purista, all’informalismo di una nuova società « in fieri » che non è ancora padrona dei propri mezzi, che soprattutto non ha il suo spazio definito, che si apre su due guerre, che dà il via alle lotte dirette tra cultura e potere, per cui ti rendi conto — e un operatore come Antonio Bueno, nella sua posizione di etica marxiana non può non sentirlo — che ogni aggancio diretto, ogni fedeltà alla forma come fatto estetico può divenire strumento di potere.
Di qui la necessità dell’artista, se vuole avere ancora uno scopo nella società in cui vive, di mettersi contro ogni autorità costituita (anche, dunque, contro ogni costituzione « sintattica » e organizzata della torma), fino alla completa dissoluzione di essa (pure se. nella trascrizione attuale, di Bueno, la distruzione non si manifesta in termini esistenziali, kirkegaardiani, come aspirazione di libertà dell’inconscio). Anche la continua volontà di Bueno di rispondere direttamente, di piegare il suo discorso di base — che resta, comunque, un problema di forma — alle successive, varie sollecitazioni delle diverse correnti di rottura, anche se (direi quasi proprio perché) effimere, transitorie, non è che la storia successiva di un’operazione di défiguration e di repechage all’interno della forma; un insieme di atti di amore-odio alterni e continui.
A ben pensarci anche il momento metafisico (‘50 – ‘60) il periodo per cosi dire, parnassiano, è stato, in un certo senso, una cristallizzazione, un raggelamento della forma, divenuta come asettica; tanto che. in pieno periodo dei gomitoli e delle pipe (e nello stesso ordine di impostazione formale) si era potuta avere la piccola serie di tipo astratto-geometrico (tipico l’Omaggio a De Stjl), senza peraltro che questo raggelamento, tutto interiore, si potesse mai scambiare con l’imbalsamazione mortale (il cadavere exquis) dei surrealisti. Anche la successiva défiguration, quella che lo portava, verso il ’61-’62, ad una sorta di informalismo (dilatazioni a livello di paesaggio — i tracciati — perpetrate sull’immagine enfiata ed espansa fino a debordare dal suo « campo » — il piano del quadro —), non è stata, in fondo, che una sorta di raptus amoroso verso la forma-immagine.
E l’immagine resta, quasi costantemente, quella femminile. «Monogamia iconica» la definisce Sanguineti nella sua acuta, lucida interpretazione. (Quando, talvolta, la immagine è uomo, allora è l’uomo-io; ciò che si ripete, come suggestione di una sorta di ossessione dell’io, nelle successive «impronte». Lo scatto si aveva poi nel recupero della figura in termini di feticismo attuale, come mass-medium (i fumetti, i teatrini, le proposte new-dada). E questo coincideva, per Antonio Bueno, con l’unico periodo di lavoro di gruppo, svolto a livello intersoggettivo, all’interno del gruppo 70. è stato, quello, il momento in cui Bueno, pur recuperandola completamente, ha maggiormente disprezzato la forma. La immagini femminili son divenute bambolette-fantoccio, di pezza, senza sangue e senza che dalle rotonde boccucce aperte ad O uscisse alcun suono, senza che dai piccoli strumenti miniaturizzati che tenevano in mano nei Concerti si levasse alcuna armonia.
Scriveva Renzo Federici nel ’66, a proposito di alcune di queste « bambolette »: – C’è… un particolare che si scopre poi: i piccoli seni, anziché dipinti, sono a rilievo, in spugna da bagno: toccandoli si sentono morbidi. Ecco dunque la comunicazione, il coefficiente informativo: i seni femminili sono morbidi ». Ma c’è un altro coefficiente informativo: i seni femminili sono morbidi, ma possono anche essere di gomma! È una ennesima défiguration della forma classica, dell’ideale di bellezza femminile. Bueno arrivava, par questa via. alla distruzione analitica della comunicazione stessa intesa come mezzo di persuasione occulta, come mezzo di massificazione: al contrario, ad esempio di un Lichtenstein, che ci dà il tempio greco per i turisti con l’accentuazione volutamente smaccata del « colore locale » (l’azzurro del cielo sempre sereno, le ombre nette di un paese pieno di sole, la spiaggia puntinata) o di un Warhol che ci offre in serie il ritratto di Marilin con un gran tocco di rosso al posto della bocca, due righe viola per sopraccigli ( i simboli sfacciati, cioè, di un « idolo » delle masse), Bueno annulla a poco a poco tutti i colori-simbolo, le immagini diventano larve, si arriva ai rilievi bianchi.
E a questo vaglio spietato, a questo lavaggio, vengono sottoposte anche tutte le immagini del repertorio figurativo precedente, anche i fiori, anche le pipe. é il primo atto del processo di interiorizzazione successivo, dei ritorno al lavoro isolato, di un successivo riaffiorare del colore dell’immagine da un fondo divenuto nero, brumoso, denso il rosa delle carni riaffiora come un fuoco segreto, mentre alcune lettere-sigle si dispongono nette sulla superficie, chiavi di rebus irrisolvibili, codici di un linguaggio misterioso, cabalistico.
Le immagini femminili sono ancora le stesse, tengono in mano gli stessi strumenti, (dipinti, non più piccoli oggetti reali) come nei precedenti Concerti, sventolano sulla nuca le stesse, elegantissime code. Ma la forma non è più tornita, smaltata, lucida. È lievemente sfatta, morbida, appena macerata, come la pelle di un fiore reciso e conservato in vaso. Il filo conduttore che abbiamo fatto partire dal riferimento ingresiano riportandolo fino al dissolvimento pasciniano si va definendo ora in un discorso di un’intensità vivissima. Come se solo ora Antonio Bueno stesse raggiungendo il punto focale della sua espressione, l’espansione più piena e più ricca, la concentrazione più densa della sua maturità artistica.
Ma con Antonio Bueno non si può mai dire: forse domani avrà la forza di autodistruggersi ancora, e proprio al momento in cui il suo mondo pittorico sembrerà più chiaramente definito e raggiunto.
Anche questo, d’altronde, fa parte integrante del suo modo di espressione, fa parte del suo bisogno di dichiararsi vivo.