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Non toccate il Giudizio!

 

Le obiezioni dello storico dell’arte americano James Beck al restauro della Cappella Sistina

di

Siegmund Ginzberg

Da l’Unità

Giovedì 29 Marzo 1990, pag. 17

 

 

  

 

NEW YORK. «Chiedo solo che non abbiano troppa fretta, si diano un attimo di riflessione, studino meglio le conseguenze, siano sicuri di non apportare danni irreparabili prima di attaccare il Giudizio universale», dice il professor James Beck, preside del dipartimento di storia dell’arte della Columbia University, il più appassionato tra coloro che in questi anni hanno denunciato come un protervo errore il metodo con cui procede il restauro della Cappella Sistina.

Beck è convinto che questo restauro è un disastro, che Michelangelo lo stanno distruggendo. La sua denuncia ha avuto in questi anni toni da crociata. Ha parlato di «Cernobyl dell’arte», di delitto nei confronti del patrimonio dell’umanità, perpetrato in un clima da grande cospirazione, dove i critici vengono fatti zittire con ogni mezzo. Le gran lodi che si sentono dei risultati del restauro della volta non lo fanno demordere, anzi accentuano quello che per lui è diventato il gran rovello della sua vita. «Ormai anche mia moglie è stanca di sentirmi parlare della Cappella Sistina», ci dice. L’ultima sua battaglia è perché almeno non abbiano tanta fretta di completare il “misfatto” sulla parte più preziosa e delicata, la parete dove è dipinto il Giudizio Universale.

Gli chiediamo come mai non è a Roma al gran simposio a far sentire le sue preoccupazioni. Non l’hanno invitata, professore? «Mi è pervenuto un invito solo all’ultimo momento, e per assistere, non per parlare al convegno», ci risponde. Lo stesso ci dice il professor Alessandro Conti, altro capo- scuola dei contrari, che ha espresso le sue critiche nel volume su «Michelangelo e la pittura a fresco» pubblicato un paio di anni fa, e che abbiamo interpellato per telefono a Milano. Lui comunque andrà a Roma a vedere la mostra e si riserva di esprimere un giudizio solo dopo averla vista.

«La cosa inammissibile è che vogliano iniziare il restauro del Giudizio universale subito dopo il simposio, senza nemmeno attendere di digerire le valutazioni», ci dice Beck, che qualche giorno fa aveva rilanciato pubblicamente il suo grido d’allarme da New York, con una dichiarazione al termine di una conferenza su Michelangelo alla Casa della cultura italiana. Non condivide nemmeno un po’ gli entusiasmi di chi parla di un «Michelangelo ritrovato» per la volta e le lunette, dove il restauro è stato già compiuto.

Si sapeva già che non lo convincono i nuovi colori «Benetton» con cui appaiono vestiti i Profeti. L’argomento suo e degli altri critici come Conti è che i restauratori della Cappella Sistina hanno probabilmente per troppa fretta buttato via il bambino con l’acqua sporca, appiattito dove l’artista, grandissimo scultore oltre che pittore, voleva invece dare una illusione di tridimensionalità, che l’AB-57, il potentissimo solvente usato, abbia tirato via anche ritocchi, sfumature a nero fumo, vernice e colle che potrebbero essere state messe da Michelangelo. L’errore, spiega, è considerare pittura solo quel che è stata applicata direttamente all’intonaco, escludendo che Michelangelo abbia poi fatto ulteriori ritocchi «a secco».  «Sono partiti dall’assunto che Michelangelo era un genio e quindi non aveva bisogno di correggere le pennellate originali. Ma chi gliel’ha detto, come fanno ad esserne così sicuri? Il Giudizio Universale è pieno di ritocchi, comprese le drappeggiature dell’allievo di Michelangelo Daniele Volterra». «Se hanno tanto ritoccato gli altri, figuriamoci cosa deve aver fatto l’artista medesimo».

«Se davvero Michelangelo aveva dipinto la Cappella in colori così brillanti, come mai non c’è nessuna fonte dell’epoca che parli dei colori, nessun pittore che lo imiti nella brillantezza, perché non c’è una sola delle molte copie d’epoca in cui i colori siano sgargianti come quelli emersi dopo il restauro?». Tutte le fonti contemporanee, ci viene fatto notare, parlano invece delle sfumature, della capacità di dare l’illusione che «ciò che è piatto sia pieno», come fa Paolo Giovio, di mescolare «luci ed ombre», come fa il suo biografo Giorgio Vasari. C’è qualcosa che non torna nel voler presentare Michelangelo come una specie di «anticipatore dei manieristi», leggiamo in un articolo molto critico, dal titolo «Michelangelo ritrovato o Michelangelo perduto?» apparso a firma del critico Michael Daley sull’«lndependent» di domenica scorsa.

Ma Beck dice di non voler entrare in un rissa «stilistica» ed «estetica». La sua preoccupazione a questo punto è soprattutto non solo per i danni che ritiene siano già stati apportati ma anche per quelli che potrebbero aggiungersi in futuro, per gli imprevedibili effetti che il solvente potrebbe avere sul supporto stesso dell’affresco. «Argan può benissimo dire che i colori sono meravigliosi, io voglio che Argan e Calvesi mi dicano che sono sicuri che non è stato rimosso nulla che era stato messo dalla mano di Michelangelo e che non c’è pericolo che con gli anni eventuali residui del solvente portino ad ulteriori deterioramenti. Voglio che mi dicano che ne sono assolutamente certi. E se questa certezza non c’è, l’unica via ragionevole è attendere finché la si abbia».

Ma lei professor Beck è cosi sicuro che quel solvente è cosi pericoloso, come fa ad essere così perentorio nel sostenere che il restauro è un disastro? «Il solvente usato è un prodotto fortissimo, che originariamente serviva a pulire la pietra. Agisce in modo velocissimo ed irreparabile, in tre minuti porta via tutto quello che non è direttamente affrescato sull’intonaco. Poi devono lavarne via i residui con l’acqua perché non intacchi il resto. Non c’è alcuna prova che molecole del solvente non continuino ad interagire alla lunga con l’affresco, non sappiamo come “lavora” alla lunga sul muro. Non vorrei che succedesse come per la Storia della vera Croce di Piero della Francesca ad Arezzo, dove negli anni 60 avevano usato, con effetti rivelatisi alla lunga disastrosi, un prodotto nuovissimo ritenuto allora miracoloso: il vinavil. Di recente ho chiesto al sovraintendente alla Galleria degli Uffizi di Firenze se anche loro usavano l’AB-57. Mi ha risposto secco: “No, noi non lo usiamo, è troppo veloce”».

Ma come fa a dire che ha già prodotto guasti? «Non ho prove. È solo un timore. Rafforzato dal fatto che c’è una sorta di censura sui risultati. È difficilissimo per gli specialisti entrare in possesso della documentazione necessaria ad analizzare i risultati. Ad esempio non siamo sinora riusciti ad ottenere il materiale fotografico che consentirebbe di fare un confronto tra la situazione pre-restauro e il risultato. Ho cercato di ottenere foto in bianco e nero di certi particolari. Dal Vaticano mi hanno risposto che loro non c’entravano, avrei dovuto rivolgermi alla tv giapponese che ha l’esclusiva del materiale fotografico per 10 anni. Ho scritto a Tokio. Mi hanno risposto che le foto costavano 300 dollari l’una, cioè il duemila per cento in più di quanto normalmente vengono fatte pagare copie di foto in bianco e nero, e che si riservavano di fornirle solo dopo che avessi dettagliatamente spiegato per iscritto a cosa mi servivano. Ho dato la spiegazione, le foto le aspetto ancora».

Quando gli chiediamo perché mai i restauratori dovrebbero avere tanta fretta se non fossero sicuri di quel che fanno, il professor Beck si scalda, si rimette le vesti da crociato. Hanno fretta perché questa non è una normale operazione di restauro e basta. È una grande operazione economica. È l’unico grande restauro al mondo che io conosca in cui i finanziatori non lo fanno per ragioni di immagine e di prestigio, come fa la Olivetti per la Cappella Brancacci o la Banca d’Etruria per Piero della Francesca, ma per guadagnarci».

Scusi, professore, ma si potrebbe farle l’obiezione che lei è uno storico dell’arte e non restauratore. “È vero, non sono un esperto in restauri. Ma è come per l’energia nucleare. Dovremmo forse lasciare che a occuparsene siano solo gli ingegneri e coloro che costruiscono e progettano le centrali? È ovvio che loro direbbero che bisogna costruirle. Non è quindi questione di “lasciar fare agli esperti”. In cose di questa portata può essere assai più utile affidarsi al senso comune. E poi, mi dica, vede un solo argomento per cui il restauro debba essere fatto così precipitosamente? Ma perché mai dovremmo correre, anche se avessero ragione e non ci fossero rischi, per fare piacere ai giapponesi?

 


 

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