Il principio umano della pittura-scienza
di Paolo Volponi
1968
Tommaso Cassai, che più tardi, per qualche ragione della sua tristezza o della sua intemperanza, verrà soprannominato Masaccio, nacque a San Giovanni Valdarno il 21 dicembre 1401.
All’età di cinque anni restò orfano di padre, e poco dopo dovette assistere alle nuove nozze della madre con un vecchio speziale del paese.
È da ritenere che la sua infanzia sia stata poco felice, piuttosto gravida di ombre e di carenze, tutta interiore secondo la logica del dolore infantile, anche se la cronaca accenna alla benevolenza del patrigno.
Tommaso dovette trascorrere il suo primo tempo per le strade del paese, sugli scalini, dentro il vicinato, davanti a una rappresentazione umana precoce e violenta, tra il silenzio delle porte gentilizie e le voci degli incontri.
Egli avrà di sicuro cercato scampo, portandosi dietro il fratello minore Giovanni, anche fuori delle mura, tra le colline lungo le rive dell’Arno.
La pittura poteva essere uno studio accostabile, per lui, nella bottega di qualcuno, a impastare, a spezzare le terre, a raschiare le tavole, a inchiodare, sempre con il fratello minore accanto.
La madre rimase un’altra volta vedova e allora la famigliola trasmigrò a Firenze, spinta dalle irrequietezze di Tommaso, forse già divenuto Masaccio, che non potevano essere più placate fra le strade e le piazze di San Giovanni o nelle escursioni fuori le mura, e anche dalla voglia di allargare gli insegnamenti e di esercitare la pittura in quella capitale.
A vent’anni Masaccio è a Firenze, aggregato al popolo di San Nicolò Oltrarno; dopo due anni comincia a lavorare con Masolino, suo conterraneo.
Il suo universo è costruito e completato nel giro di un lustro, da un lavoro prodigioso, fondamentale per l’arte della pittura e per la cultura umana, anche se talvolta fu ignorato e distorto e perfino mutilato, come accadde, verso la fine del ‘500, nella stessa chiesa del Carmine, con la distruzione del chiostro che recava una sagra da lui dipinta.
Nell’autunno del 1428, Masaccio parte per Roma, dove la morte lo coglierà, giovane di ventisette anni.
Questi dati, che sono quasi tutto quel che resta della vita terrena di Masaccio, fissano con la loro forza essenziale un campo stretto e sicuro, simile a quello di una scena delle sue pitture, dove corre un’aria adolescente e si compone un racconto battuto dalla premonizione.
Nel clima culturale di Firenze in quell’inizio del secolo, nel gusto e nell’esercizio della pittura, solo un adolescente addolorato, ricco di se stesso e di tutti i confronti con un ambiente umano circoscritto e con una natura compagna, poteva affermare la severità, la bontà naturale, lo slargo prospettico e quella pensierosa, trepida fissità che distinguono il lavoro di Masaccio.
Roberto Longhi nel suo prodigioso Piero della Francesca parla di “ansiosa emergenza” e Libero de Libero scrive:
“Fu proprio Masaccio, il più giovane di tutti i pittori che siano stati giovani prima, durante e dopo di lui, in pochi anni di gioventù a compiere il miracolo di risvegliare la pittura e di rianimarla con un’urgenza di vita, finalmente reale e terrena, che mai aveva avuto prima di allora”.
L’orfano dipinge, e allora in mezzo alla scena avanza la figura della madre, tra il gruppo dei mendichi e degli storpi a prendere l’elemosina da san Pietro. Ella è chiara, femminea, con lo sguardo che accenna alla speranza di un sorriso, la bocca sigillata dalla sua stessa morbidezza femminile.
Ella sorte da una fatalità che ancora le trattiene il passo e le vesti: san Pietro guarda altrove e dietro di lui, anch’essi distratti, sono gli apostoli e sotto, di traverso, il corpo esanime di un giovane padre.
In braccio alla madre sta, al centro della luce, un infante aggrondato e dolente, mezzo nudo, che regge con dolore la sua grossa testa e che se la tocca con una manina in un gesto appassionato e presago; l’altra mano resta protesa verso il collo e il seno materni.
Tutti i bambini di Masaccio sono inequieti e dolenti, sorpresi in gesti intimi di estraneità e di interrogazione, fuori degli schemi della dolcezza senese o della fissità fiorentina.
Il bambino, contornato da angeli musicanti, della Madonna della National Gallery, tiene due dita in bocca e resta distratto con gli occhi in alto, assorti, anche se la sua mano è portata a toccare l’uva che la madre gli porge per consolarlo, per attirarlo alla comunicazione.
Così il bambino della tavola di Palazzo Vecchio a Firenze, aggrappato alla mano della madre che cerca mestamente di fargli solletico.
Così il bambino della Madonna di San Giovenale, anch’egli con due dita cacciate profondamente tra le labbra in un gesto di irrequietezza che lo porta a divincolarsi, con l’altra manina aggrappata al velo materno; così quello biondissimo della rossa piramide fra sant’Anna e la madre il quale, sporgendosi verso qualcuno estraneo al gruppo, buttando avanti le braccia per un abbraccio, sembra voler uscire dalla rigidità della costruzione, dalla dolorosa e severa sacralità di sant’Anna e della sua stessa madre.
Quando la pittura ammette in una delle sue composizioni quell’interlocutore, quel fratello maggiore al quale si rivolge quest’ultimo bambino, e quindi la scena si allarga solennemente, la folla è quella del mondo stesso di Masaccio.
Ogni figura scaturisce ed è fissata dalla sua stessa ansia, disposta in un ambiente che è quello vero, assunto per la sua verità fino allo spasimo da un giovane che incontra ed enumera le sue cose e che le riconosce, anche dentro di sé, e che si nutre e si rafforza con questo riconoscimento: i parenti, i compagni, le case intorno, gli alberi uno per uno o in fila, vicini o al confine, le rive celesti del fiume, i palchi gemelli delle colline.
Sono i volti degli uomini giusti che Masaccio incontrava o quelli dei mendicanti e diseredati, o quelli dei generosi che lo aiutavano ; di sicuro la faccia di san Pietro è quella dell’uomo che gli fece da maestro, nell’adolescenza, e che gli suggerì di mettersi a lavorare nella pittura.
Ognuna di quelle figure, e più ancora ognuno di questi volti, è quello di una giornata della vita di Masaccio, di un buon incontro, di un affidamento dal quale egli trae una forza paterna: facce di struttura greve, massiccia, dalla fronte aperta o bozzuta, dalle occhiaie allargate dalla tenerezza, gonfie ai lati per flettersi sulla tempia amorosa, interrompersi sullo sbalzo delle ciglia, sotto le quali s’apre una occhiaia profonda, dolce come una sponda, mobile, dove la palla marroncina dell’occhio e il bianco della sua vela pongono un pensiero triste, assorto, lo stesso che arriva a gonfiare la nuca, che compenetra gli zigomi e scende fino alle guance tirate, terrose, alle bocche suggellate da uno sgomento di follia paesana.
Tutti insieme questi personaggi non sono un gruppo, mai, nemmeno gli apostoli intorno ai gesti di san Pietro.
In quello spiazzo di terra che sta davanti agli archetti della casa, che va verso il fiume e verso i calanchi, ognuno narra la sua propria vicenda, alza il suo proprio mento, riempie il suo spazio della sua propria barba ; i gesti legano il racconto, che poi trova le sue strutture e le sue cadenze nelle pieghe degli abiti con i quali questi personaggi di campagna sono camuffati, e poi nelle gambe del giovane, nella loro forza vibrante che muove tutta la scena, e poi nell’intervento spaziale degli strumenti fondamentali del paesaggio, o nella ripresa di qualche colore: il rosso calcinoso, il verde stento, raschiato dal greppo delle colline faticose dell’Arno.
Forse l’ “ansiosa emergenza” di ciascuno, per conto suo, la sua trepidazione (così teneramente accentuata nelle figure dei due giovani ignudi che stanno per ricevere il battesimo), proprio perché collocata nell’ordine scientifico della ricerca prospettica, è quella che ha dato agli storici il suggerimento di un ideale, di una coscienza storica, secondo la quale, per dirla con Eugenio Garin, “pittori come Masaccio e Piero della Francesca generarono e fissarono nei loro affreschi la figura fisica dell’uomo che la meditazione contemporanea andava indicando come l’essere privilegiato, capace di dominare il mondo”.
E ancora: “Le figure della cappella Brancacci, nella chiesa del Carmine di Firenze, realizzano le dimensioni che l’uomo assume nella coscienza del ‘400”.
Ma la spinta e la gravità umana di queste figure è raccolta da Masaccio nel suo stesso campo, nella sua disponibilità psicologica a cercare padre e fratelli, a cercare se stesso tra quegli adulti sbandati e quei giovani intimiditi, meravigliosi compagni destinati troppo presto a partire, a perdersi nel lavoro servile o ad affogare nei gorghi del fiume.
La crescita, in ogni piccolo paese, è affidata al vento, alle correnti, agli incontri come quella di un polline, che è la più disponibile e aperta, la più accorata, la più fervida, quella che riesce da una scaglia di terra sopra un sasso a far germogliare una pianta, ad accendere un colore.
La rivoluzione formidabile, che Masaccio mette in atto, prorompe anche dal suo cuore di orfano, dalle sue manchevolezze, dalle sue paure. Queste paure sono tutte raffigurate nella tavola della Crocifissione, che è nelle Gallerie Nazionali di Capodimonte, a Napoli, e nella Trinità di Santa Maria Novella, a Firenze.
In entrambe il corpo del Cristo è paterno, allettante quanto respingente ; l’inguine e il pube sono bianchi, lavorati da una curiosità spasmodica come mai nessun’altra fra le opere di Masaccio: specie quello della Trinità, che è anche il più duro, colto fino alla oscenità della macchia pelosa.
In tutte e due le figure del Cristo, la testa appare staccata, come fosse stata portata via e poi rimessa.
Nella Trinità la testa del crocifisso è addirittura rimpicciolita, sfuggente, come se il suo volto fosse quello di uno che si abbia paura di guardare.
Lo schermo fra queste figure e il pittore, o colui che guarda, che è sorpreso e che ha paura che il panno scenda e che si scopra la verità paterna, è dato da un’aria immobile, istituita in una scena ufficiale, architettata proprio come la porta di una chiesa, di un tribunale, di una scuola.
E lo schermo è ancora appesantito dalle due figure sul primo scalino, della Vergine e di san Giovanni, che sono appunto quelle di una donna e di un uomo senza alcuna pietà, ma piuttosto con i simboli degli ordinamenti della vita: la faccia della donna ha un ghigno di compassione ostentata, trattenuta dallo sdegno in un gesto di meccanica intercessione; la faccia dell’uomo è fredda, da notaio e da guardiano.
Ancora più sotto, le facce dei committenti, cioè dei borghesi o dei parenti, sono inebetite, caricaturali, sagomate e ritagliate da una verità piatta e convenzionale.
Anche se intorno a lui c’è un nuovo fervore tra i teologi, gli umanisti, i governanti, e se grande prestigio hanno sull’ambiente di Firenze le figure di Donatello e di Brunelleschi, Masaccio si muove, si arrovella, guarda, sbatte, tasta le cose che ha intorno, stabilisce le dimensioni del suo mondo dall’angolo di una casa a una collina, ridiscende fino al fiume, incontra il pescatore, il mendicante, il contadino, con i quali scambia una parola : un mondo di uomini che ha coscienza degli impegni della vita come della materialità della sua esistenza.
Ma proprio attraverso questa acquisizione della realtà sono infranti i limiti dell’urgenza autobiografica e della confidenza emotiva, cioè nella presa di possesso del proprio dolore come di una cosa che può essere analizzata e spostata, e quindi espressa.
Masaccio acquisisce la sua prodigiosa cultura, che resterà sempre venata di una severa tristezza e di una grossolana colpa (quelle che lo costringeranno a rinunciare a dipingere la faccia di Cristo nell’affresco del Tributo, la quale sarebbe dovuta essere bionda e accattivante per i canoni della devozione), ma che darà ai suoi risultati un significato universale e perenne.
Con la crisi del senso trascendente della natura e della storia comincia a svuotarsi il dominio temporale e culturale della Chiesa, che aveva improntato tutte le vicende del Medioevo.
Il Rinascimento ha fissato in due fasi questo processo. La prima attraverso il recupero di un modello di cultura antropocentrico, ma ancora di tipo classico-aristocratico, che doveva servire anche come nuova base di legittimità per il ‘Principe’, ma non a scardinare l’ordine gerarchico ‘naturale’.
La seconda, in cui il centro di gravità e d’autonomia veniva fondato nel ‘soggetto’, come interprete delle leggi della natura e autore della storia : anche se si trattava ancora di soggettività privilegiata e ristretta, era già in procinto di progettare nuovi ‘ordini’ nella natura e nella società. (Nascita della Scienza e della Nova scienza).
Nella prima fase di questo processo, nel Quattrocento, la pittura afferma una doppia funzione rivoluzionaria: essa era praticata da artigiani, figli di popolo (di un barbiere, Paolo Uccello; di un calzolaio, Piero della Francesca; di un macellaio, Filippo Lippi), e considerata una delle arti meccaniche.
In realtà e con questo sentimento, attraverso la novità della prospettiva si compiono due operazioni: si fonda l’arte sulla, scienza, si elevano i protagonisti popolari di arti ‘meccaniche’ alla dignità delle arti liberali, con il vantaggio di una doppia integrazione culturale e sociale.
L’ideale quattrocentesco di una cultura unitaria, da contrapporre e sostituire a quella totale teologica, si realizza contemporaneamente all’ideale conoscitivo del mondo attraverso la logica concreta della pittura-scienza, contrapposta alla logica aristotelica degli universali astratti.
È l’ideale teorizzato dai Coluccio Salutati, Marsilio Ficino, Nicolò Cusano: e significa non solo l’affermazione del realismo umanistico, ma la interpretazione aperta del platonismo.
La prospettiva, attraverso l’ideale dell’occhio immobile, fissato dallo sgomento della rivelazione scientifica, costruisce però anche quel tipo di oggettività razionalistica in cui la storia si riduce (“le tre dimensioni sono il risultato di infinite dimensioni “: Novalis) e si fissa sotto l’ordine invisibile delle relazioni matematiche.
Se è vero che la terza dimensione introduce il ritmo del corpo in movimento e se “la sua teorizzazione” scrive Dino Formaggio “segna la teorizzazione del moto avanzante dell’uomo (e della sua visione) e coincide con la suprema esaltazione dell’uomo che come corpo naturale entra nel mondo”, è nel sentire la società non come natura data, con le sue gerarchie sociali, nell’introdurre nello “spettacolo geometrico” presenze di umanità marginale, nel rompere le regole materiali della gerarchia rispettando quelle formali della geometria euclidea, che Masaccio pratica la pittura rivoluzionaria del Quattrocento in maniera rivoluzionaria.
Il valore della sua opera si amplia oltre i limiti storici e biografici del suo tempo, e indica anche dal di dentro della pittura, nel modo in cui stabilisce in termini plastici il valore permanente e tragico del sottosuolo della storia, il rischio di restaurazione che è dentro ogni rivoluzione razionalistica.
Nella crisi di transizione fra i due mondi, che si svolge al livello dei poteri e dei valori del nuovo dominio, Masaccio salva definitivamente la pittura italiana dall’iconismo consolatorio, anche se prima di lui Giotto e i Lorenzetti erano già andati al di là della “tavola” e lavorando sui muri avevano dovuto affrontare i nodi del racconto e la vertigine della prospettiva, riuscendoci con purissimi grigi, rosa, rossi, gialli copiosi, e campi, collinette e vigneti, da commuovere a maggior ragione un buon figliolo di campagna.
Masaccio allarga la pittura e vi mette dentro aria e vi impasta terra, fino a costruire quelle figure ignote, ma vere e larghe di riferimenti e di umanità, che potranno sostenere sulle loro spalle tutti gli sbagli della nostra storia civile, da quel 1425 ad oggi.
I deboli di ingegno, i servitori dei principi fiaccati della seconda metà del ‘600, gli addetti culturali, gli organizzatori di festivals, vorranno ad un certo punto distruggerle e sarà solo una povera duchessa di Urbino, l’ultima dei Della Rovere, Vittoria, andata sposa il 1634 ad un Medici duca di Firenze, sofferente anche lei per le sue proprie vicende di sposa e di madre, che ne capirà il significato e che le salverà.
Così Firenze dovrà a questa duchessa anche gli affreschi del Carmine oltre al gruppo di tesori che l’infelice sposa aveva recato nella sua dote, spogliandone le stupende stanze di Urbino: i Piero della Francesca, i Tiziano, i Raffaello.
In cambio ne avrà un mediocre ritratto del pittore fiammingo Justus Sustermans, che la rappresenta addirittura con i simboli della penitenza e dell’abbandono.
La duchessa riuscirà a respingere l’attacco agli affreschi del Carmine portato da un certo marchese Ferroni, interprete delle esigenze di ammodernamento dei buoni frati.
Contro marchesi del genere e contro tutti gli accomodamenti delle stesse realistiche e ministeriali esigenze, nell’avvicendamento secolare dei primi e dei secondi, questo popolo delle figure di Masaccio riuscirà a salvarsi, molto spesso dimenticato nel fondo della sua passione.
Su quei muri e in quei radi cortei è effigiata la qualità fisica di una resistenza civile, di un fronte perenne di umanità; l’occhio sempre aperto o distolto per la compassione, o inclinato nella meditazione, guidato, dritto, teso, sempre all’altezza dell’uomo, da una coscienza che sta per arrivare alle labbra, che parrebbe disserrarle con un discorso.
Ma questi uomini di Masaccio sono muti, come se avessero pronunciato tutte le parole prima, ed egli le avesse solidificate in quella pittura e in quegli spazi o che le avesse portate strette dentro di sé sino al momento della sua scomparsa a Roma; muti, anche perché a tutto sembra sovrastare l’urlo strappato di Adamo e di Eva scacciati dal Paradiso.
Eva apre la bocca per liberarsi dell’empito: lo guarda salire verso il primo cielo, immediatamente sopra la sua testa, là dove stanno i piedi di Dio e quelli dei prepotenti : la sua sorte di femminile soggezione ne discende e la imbianca e la imbellisce.
Adamo invece inghiotte l’urlo, e con il gesto stesso delle mani se lo porta dalla testa, dalla fronte, dagli occhi, attraverso una rapida bocca e l’acutezza del mento, giù dentro il petto, che lo rinserra strutturandosene, gonfiandosene fino a inarcare la schiena.
Alla fine, dopo che il silenzio gravido ha percorso le scene nell’eco dell’urlo del primo uomo, legando i diversi quadri con i gesti, i panneggi e le gambe del giovane e dei miracolati, le finestre e la profondità delle strade, pare che uno degli uomini stia per parlare: quello che, a fianco della cattedra gialla di san Pietro, unico leva gli occhi verso di noi per guardarci, unico ad avere le guance animate da un soffio e il labbro appena sollevato: l’ultimo, colui che raffigura Masaccio.
Da quel momento egli è pronto a sparire. Passa senza indulgenza e, finito il suo lavoro, esplorato il suo mondo, stabilitane la storia (e quella propria), fissatane l’asperità terrestre nelle colline, nei calanchi, nella vegetazione rada e accanita, e la speranza in qualche bianco castello o clivo più dolce e verde, fugge per Roma, perché in San Giovanni Valdarno e in Firenze ha toccato e visto tutto, capito quello che c’era da capire: ne ha ricevuto un buon mestiere e un’età e un corpo da uomo, anche se alla meglio infagottato.
Masaccio crede di poter cominciare a fare il pittore a Roma : la sua forza, la sua purezza amorosa, i risultati di Pisa e di Firenze, un cavallo, una strada e l’ansia che ancora lo preme gli sono sufficienti per partire. Ha davanti a sé un viaggio e una città favolosi, un mondo ancora vastissimo e oscuro che ha appena intravisto qualche anno prima. È pronto a ri-
schiare se stesso, a perdersi del tutto dentro la grande macchia che aleggia su Roma, è pronto ad affrontare competizioni, comitive, ad allargare il cerchio, a discutere, a conquistare.
Nella sua pittura non ci sono ancora l’impasto e l’ornamento della sensualità : forse a quell’età di ventisei anni anche questa, come dote razionale, come stimolo della ricerca, comincia a spingerlo.
Masaccio sparisce dentro Roma, senza testimonianze, senza spettacolo; distoglie gli occhi, muove una mano, un ginocchio: le sue giunture ancora spesse s’irrigidiscono; si dissangua per una ferita o si estenua nel tremito di una febbre, o cade da cavallo, o sparisce in chissà quale lotta o inganno della città.
“Dicesi morto a Roma per veleno“ : è la notizia che corre a Firenze fra creditori e notai.