Note d’Arte
Nino Morelli espone al Palazzo Ghibellino
di Renato Morelli
1968
Richiamare l’attenzione sulla crisi, profonda, e in certo modo salutare, subita dalla pittura negli ultimi decenni dopo secoli di monotonia figurativa, è ripetere inutilmente un concetto che il più sprovveduto amatore delle cose d’arte ha ormai assorbito fino alla saturazione.
In quest’arco di tempo, ma specialmente dal primo Novecento a oggi, i pittori, esaurite tutte le possibilità di contaminazione, di alterazione, di aberrazione dalle forme naturali, si sono dati da fare per liberarsi del tutto da queste forme, e le hanno annegate sotto pozze di colore, nascoste dietro muraglie di sgorbi, sostituite più o meno arbitrariamente con intrichi di altre figure cervellotiche, più o meno strutturate, più o meno significanti…
Ma il simbolo ricorda inevitabilmente la cosa simboleggiata, l’astratto richiama il concreto, il calligramma bizzarro ridesta la nostalgia della linea armoniosa, così l’oggetto cognito, l’immagine familiare riemergono volta a volta dagli impasti amorfi che li mortificavano, più vivi, più nuovi, più evidenti di prima.
In questo clima di insicurezza e di sconforto, in questo tempo di scuole, di gruppi, di tendenze d’avanguardia tanto numerose quanto effimere, esiste tuttavia qualche solitario che dopo l’indispensabile sforzo di chiarificazione interiore si mette per una strada tutta sua e la segue senza tentennamenti né deviazioni, teso unicamente alla piena attuazione delle proprie possibilità, convinto di portare un contributo quale che sia alla vita del proprio tempo.
A questa categoria di persone appartiene Nino Morelli.
I canoni della sua poetica, una poetica punto astrusa né peregrina, traspariscono dalle opere e svelano, attraverso l’apparente linearità, l’impegno e la coerenza strutturale di questa pittura.
L’artista, usando non importa quali tecniche, sfruttando non importa quali materie, deve proporsi di creare. Emulo della natura, una natura propria, un mondo privato una realtà nuova, originale nell’aspetto, ma che armonizzi intimamente col sentimento generale, partecipi dell’attualità sociale, e sia pertanto comunicabile e fruibile dal maggior numero di persone.
O può chiedere alla realtà attuata di svelare i suoi segreti più riposti che consistono, nel nostro caso, nell’essenza dei rapporti natura-uomo, nel trasferimento reciproco degli attributi umani e naturali.
La tele esposte al Palazzo Ghibellino si muovono quasi esclusivamente nell’ambito di questa seconda concezione.
La realtà che ci circonda, se si esclude la presenza umana, assume due aspetti distinti: quello puramente naturale (pianure, monti, alberi, fiori, animali) e quello determinato dalle creazioni dell’ingegno umano, la realtà costruita, la città in ultima analisi, con tutti i suoi annessi e connessi.
A questo mondo enigmatico si rivolge il nostro pittore, e protagonisti delle sue opere sono principalmente le case, le vie, i porti, i luoghi ove l’uomo consuma le sua esistenza amando, soffrendo, lavorando; l’ambiente da cui l’uomo resta spiritualmente e fisicamente determinato, e dove con vece reciproca lascia la sua impronta viva dolente, incancellabile.
L’abitazione, l’opificio, la strada, sono affrontati e interrogati perchè svelino più apertamente questa intimità umanizzata, vengono spogliati delle inutili superfici, scavati fino all’osso, ridotti a scheletri, ma scheletri vivi, scheletri parlanti, eloquenti, pur nella loro scabra scontrosità.
Una esemplificazione vasta e minuta ci porterebbe troppo lontano, e dobbiamo accontentarci di esaminare, trascurando oltretutto i disegni e le caricature, meritevoli di un discorso a parte, un quadro soltanto. Scegliamo «Fabbrica spenta».
Qui, per illuminare l’essenza intima dell’opera basta intendere, come va inteso, l’attributo spenta, cioè non abbandonala temporaneamente, fino a domani l’altro per il turno festivo, ma sgombrata definitivamente, smobilitata, messa a riposo per soppressione di attività… e non è la figura umana, fisicamente assente, a creare l’atmosfera di tragedia, ma sotto le mura desolate dell’edificio, le porte irrimediabilmente chiuse, sì che il titolo del quadro potrebbe essere, e sarebbe meglio, «Fabbrica morta».
La fedeltà a questa concezione dell’arte, a questo programma di lavoro da parte del pittore, non esclude il processo di ricerca, e in qualche tela si può già intravedere l’affermarsi o almeno il trasformasi, il porsi in evidenza di qualche elemento prima trascurato o altrimenti determinalo; per esempio, la luce.
In quasi tutti i lavori il cielo, o lo sfondo, in perfetta armonia col soggetto, e grave, o scialbo, o smorto, raffigura insomma lo scenario tristo e indifferente di una rappresentazione malinconica e avvilita. In qualche quadro invece, per esempio «Tramonto», ecco la luce e il colore sbocciare come d’improvviso e porsi in contrasto col soggetto, svelando possibilità nuove, presentando altre vie da tentare, altri accordi consonanti o dissonanti da sperimentarsi in unità armoniche.
Ma qui il discorso si farebbe troppo lungo e, quel che è peggio, ipotetico. Tornando alla realtà attuale e per concludere, se si volesse applicare a questa pittura, come si suole, una etichetta qualunque, potremmo chiamarla, per esempio, «espressionismo essenzialistica » o «essenzialismo espressionistico» o qualcosa dì simile. In ogni modo siamo in presenza di un tentativo di manifestazione estetica di una realtà materiale spiritualizzala, di una «natura» prima considerata morta nel senso più statico della parola, e invece tanto vicina e coordinata all’uomo, come individuo e, soprattutto come cellula della compagine sociale operante e sofferente.
Quale sia il grado di dignità raggiunto da queste opere sta al pubblico, al gran pubblico, giudicare: almeno questo è il desiderio e la speranza di chi dipinse.