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A San Miniato nel quarto Centenario della Nascita

La mostra del Cigoli

Cinquanta dipinti e cento disegni documentano la sua attività di pittore e di architetto

e si inquadrano in un ampio panorama

 

di UMBERTO BALDINI

 

A degna celebrazione del quarto centenario della nascita del Cigoli, la città di San Miniato, con la collaborazione delle Soprintendenze di Pisa e di Firenze, ha allestito una grande mostra d’arte, riunendo nelle sale del conservatorio di Santa Chiara — opportunamente e sapientemente adattate allo scopo — una cinquantina di dipinti e un centinaio di disegni del pittore, più una nutrita rappresentanza di artisti operanti nel suo ambiente, a rendere ancora più valida la felice attività di lui entro i limiti anche ristretti del suo tempo.

Ne è venuta fuori una esposizione chiara, ordinata e — a parte qualche pezzo che ci si poteva risparmiare — di alta qualità. Il Cigoli vi appare veramente chiarito nella sua posizione di rappresentante per eccellenza della pattuglia di testa dei riformatori del tardo Cinquecento.

Tutto il trentennio della sua attività, che lo vide, anche come architetto, tra i più originali pur nella sua moderazione classicistica, è sviluppato e documentato dalla mostra ampiamente, coerentemente, efficacemente.

Dall’affresco con la Vestizione di San Vincenzo Ferrer del chiostro grande di Santa Maria Novella al Noli me tangere di San Miniato, dalla Madonna di Pitti, al Martino di San Lorenzo di San Salvi e alla Resurrezione di Arezzo è, tra 1’84 e il ’91, tutta una ricerca varia di temi e mezzi espressivi che definiscono un esordio quanto mai brillante, pur tra gli inevitabili alti e bassi, indirizzato verso una strada che risulterà impregnata dapprima, è vero, più che d’ogni altra cosa, di aperto barocchismo, ma che è calorosamente e sapientemente informata, nella conservazione di compostezze figurative di chiaro classicismo, alle energie correnti e aggiornate del manierismo e del post-manierismo, dal Pontormo («in gioventù piacendogli molto le cose di Jacopo da Pontormo di quelle assai disegnava») ad Alessandro Allori (che fu il suo primo maestro), dal Buontalenti (che lo avviò all’architettura) a Santi di Tito (che è presente un po’ dappertutto nelle sue prime prove), dal Macchietti al Buti (perché scomodare subito Tiziano per il Martirio di San Lorenzo?), dal Passignano al Ligozzi (che gli mediarono i succosi frutti dell’ambiente veneto).

E vale soprattutto, in questo primo tempo, l’inseparabile compagnia del Pagani che gli fu vicino nel tentativo di riformare la pittura e gli svelò la lezione del Correggio.

Su una base di elevato eclettismo culturale, il Cigoli, dal ’92 in poi, può considerarsi veramente l’uomo nuovo della pittura toscana, che va arricchendo gli schemi manieristici con una sensibilità tutta moderna.

Tra i primi suoi capolavori la Trinità di Santa Croce, ordinata, organica, sensibilissima nella sua raggelata rarefazione atmosferica, e di una simmetria che si discioglie in ampia stesura; e le fanno corona due notevoli pezzi: un bozzetto del Museo comunale di Pistoia condotto su carta (quasi un vero e proprio disegno colorito), inerente a una delle teste degli angioli e una Testa di Cristo (dalla collezione Corsini di Firenze), che riterremmo però più avanzata, non tanto per la diversa grafia, quanto per quella più calorosa e calda sensibilità che ci pare acquisizione sostanziale di almeno un lustro più tarda.

Segue, splendido, veramente inatteso, l’Eraclio che porta la Croce: una felice scoperta per chi, come noi, l’aveva mal giudicato, sempre «in cattivo lume» sull’altare di San Marco, coi colori spenti dall’ossidazione delle vernici e dall’ingiuria del tempo.

Un recente restauro — espressamente eseguito per la mostra — lo ha riportato sulla scena in vesti di primattore, tra grandi capolavori del Cigoli, laddove del resto lo aveva già collocato l’acuta osservazione del Baldinucci. Di un anno più tardi l’Annunciazione di Montughi e la Madonna del Rosario di Pontedera conservano ancora questi alti valori e si inseriscono tra i quadri più importanti del decennio.

Non cede, anzi si rafforza la bella vena che si tinge anche di nuovi mediati influssi veneti nei suoi San Francesco (stupendo quello della Palatina, che è del ’96), si allenta — forse per troppo studio — nel Martirio di Santo Stefano dell’anno successivo, torna cristallina e scorrevole nei vibranti intarsi cromatici del contemporaneo Miracolo della mula di Cortona e nel San Pietro Martire di Santa Maria Novella, che è datato 1598.

Ci si avvicina sullo scadere del secolo e la critica segnala una svolta per un importante viaggio a Roma precedente il suo definitivo soggiorno romano che lo terrà impegnato  — Firenze lo rivedrà comunque a più riprese e in importanti incarichi — fino al termine della sua vita.

Non crediamo troppo al peso reale di questo viaggio: se, come è vero, esso lascia una prima impronta «notevole di impressioni e ricordi nel suo bagaglio di esperienze con la diretta visione dell’opera dei Carracci principalmente e dell’opera del Caravaggio», la svolta non è decisiva: si tratta ancora di un’adesione esteriore, senza profondità: il linguaggio del Cigoli rimane sempre solenne e, nonostante certe soluzioni un po’ a «centone» che ne sfibrano talvolta la purezza, è ancora allineato con il suo mondo già espresso.

Ne sono prova, del resto, proprio i tre dipinti datati, potremmo dire, all’indomani del viaggio nel ’99: la Deposizione di Colle Val d’ Elsa, il San Girolamo nello studio per San Giovanni dei Fiorentini, e il San Pietro di Carrara. Dei tre, il secondo che è anche il migliore e tra i capolavori assoluti di lui, ha, più d’ogni altro, fatto parlare di caravaggismo: ma cosa, di più «toscano» della dignità del Santo che scrive, di più «fiorentino» del gruppo, sia pure vibrato, delle tre Virtù in alto?

Più logica ci pare l’acuta segnalazione di un caravaggismo «occhieggiato» nel famoso Concorso Massimi dal quale il Cigoli, ormai residente a Roma (e si ricordi che prima di partire aveva lasciato per Pisa un Presepio, datato 1604, ancora di tradizione, pur nelle rinnovate riprese correggesche), uscì vincitore, proprio in gara aperta con il Caravaggio.

Ma questa vittoria romana è per l’artista una specie di vittoria di Pirro, poiché negli anni successivi egli non troverà più i punti alti dell’ultimo decennio del ‘500: il mondo romano disperderà anziché rinforzare la sua bella vena, che si inquina di sdolcinature — riprendendo a scorrere limpida, forse, solo a Palazzo Rospigliosi in quegli affreschi che a lungo furono ritenuti di Annibale e poi di Ludovico Carracci — e si stagna in enfatiche passionalità che il colore rialza, ma che la forma non sempre trattiene a discrezione.

Avviene così anche per la bella Discesa dalla Croce di Pitti, ove certi accenti drammatici e la coerente composizione si allentano come in programmatici sdilinquimenti che luce e colore non riescono a sostanziare, o nella Deposizione dei Servi di Pistoia, un po’ slegata, o nel Giuseppe e la moglie di Putifarre, della Galleria Borghese di Roma, ove il chiaro gusto pienamente barocco si insipidisce nella ricercata «recita di galantuomini abbigliati da un trovaroba amante di ciarpami».

La forza e la validità del Cigoli pittore stanno dunque tutte, almeno per noi, nell’ultimo decennio del ‘500: quando da lui si aspetta ancora un colpo d’ala, la sua vena si asciuga. Resta comunque, con i grandi capolavori, il tentativo, nobile e meritorio di condurre avanti una riforma «moderna», alla ricerca di uno stile «ch’è dei migliori — scrisse il Lanzi — che in Italia si sian tentati; corretto sul gusto nazionale, morbido e ben rilevato sul far lombardo. Se avessero aggiunto (Cigoli e compagni) alle forme qualche studio di greca eleganza, alla espressione qualche osservazione più fina, la riforma della pittura che in Italia si vide circa a questo tempo non si ascriverebbe a Firenze men che a Bologna».

Proprio per questo, se non fosse altro, l’itinerario cigolesco di San Miniato è importante e interessante. E se in esso verrà fatto di sollevare qualche dubbio, ad esempio, per Sisara e Giaele della Corsini (certo più rossellesca e prossima al Pagani), per il Sacrificio di Abramo di Pitti (per il quale il nome di Cristofano Allori può ancora dire qualcosa), per la tela di Chartres (almeno per il riferimento al documento del ’07 che parla di rame) o per il Cristo coronato di spine della Corsini (per noi copia del tempo, da un esemplare indubbio del Cigoli) non si potrà certo minimamente diminuire la validità della rassegna.

Merito, oltre che degli organizzatori, di chi l’ha più da vicino preparata e studiata, da Giulia Sinibaldi, che ha steso una chiara presentazione, a Mario Bucci, autore del catalogo del Cigoli pittore, a Anna Forlani, che ha lavorato su cento splendidi disegni, a Luciano Berti, che ha acutamente indagato sul Cigoli architetto, portando un contributo di alto valore critico, a Mina Gregori le cui biografie di artisti operanti nell’ambiente cigolesco, largamente e sottilmente indagano le esperienze, i problemi, i rapporti, i valori di un mondo pressoché sconosciuto ma ricco di spunti notevolissimi.

 


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