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La Vita di Lodovico Cardi detto Il Cigoli

di Mario Bucci

 

dal Catalogo della Mostra del 1959 a San Miniato

 

 

Mario Bucci negli anni 70

 

A Castelvecchio di Cigoli, nella ridente terra di S. Miniato, da Ginevra Mazzi e da Giovanbattista di Olivieri Cardi, fiorentini, nacque il 21 settembre 1559, Ludovico. Ritenendo la famiglia, molto civile e competentemente provveduta di sostanza, sia il castello di Cigoli che propria «terra» vicino ad Empoli, ad Empoli ebbe Ludovico nella sua prima età gli insegnamenti di umane lettere, presso il valente maestro Bastiano, detto il Morellone, fino all’età di anni 13.

Ma dividendo egli il tempo tra lettere e disegno, con «… delineare spiritose figure sopra piccole carte», il padre, trasferitosi a Firenze, non si oppose a che il figlio nella sua diletta occupazione si approfondisse, e si decise di porlo allo studio di Alessandro Allori, pittore che andava sul momento per la maggiore, assai stimato in Firenze; studio ove il giovane stette dai tredici ai diciotto anni, dal ’72 al ’76 circa, gli anni cioè più importanti a lasciare una traccia durevole.

È questo il periodo di studio indefesso, di duro tirocinio e di pratica in quella tale stanza che l’Allori aveva nei chiostri di S. Lorenzo, ove teneva, come di suo solito, lungamente gli allievi sopra i cadaveri a dissezionarli, a discernere i muscoli, le ossa, le infinite legature e tendini di cui il corpo è intessuto, prima di lasciar loro in mano i pennelli.

E in quelle malinconiche occupazioni, «tra il fetore e schifezza de’ cadaveri, spavento e terrore di si fatti spettacoli, assiduità ed attenzione nel disegnarli, fu nella detta stanza da mal caduco così fieramente assalito che quasi un mese stette di tal maniera sbalordito et in particolare con la memoria offesa che poco o punto delle cose passate ricordava».

Fu mandato dal padre a ritemprare le forze nel castello di Cigoli tra le vigne, gli ulivi e il venticello pulito della sua terra. Stette, in questa sorta di convalescenza dalla sua forma di epilessia, durante tre anni quasi isolato, dal ’76 al ’79; e gradatamente andava dipingendo «cose di basso rilievo» fino all’invito del Buontalenti.

Messer Bernardo, detto «delle Girandole», suo caro amico e Maestro, come attesta il nipote, con una lettera invitava il giovane a tornare a Firenze per finire alcune opere lasciate interrotte da Antonio Crocino, mediocre pittore fiorentino, che era morto nel ’78.

Il «San Francesco di Paola» per la Chiesa di S. Giuseppe a Firenze, dove si trova tutt’ora, è la sua prima opera citata dalle fonti; condusse in quel tempo la decorazione a grottesche ed ornati di un soffitto non meglio identificato nella Galleria degli Uffizi.

Nello studio del Buontalenti non ha solamente un avvio ed un approfondimento per le regole dell’Architettura e per le leggi della Prospettiva, che tanto l’appassioneranno nell’età più matura, ma frequenta e conosce le maggiori personalità del momento: artisti, scienziati, principi.

Da Santi di Tito egli andava ogni giorno a disegnare «dal naturale»; a lezione di matematica da Ostilio Ricci, suo amico, insegnante e frequentatore della casa di Don Giovanni de’ Medici.

Fu nello studio del Buontalenti che si fece conoscere dal Granduca Francesco, entrando nella domestichezza di casa Medici, che così fortemente lo proteggerà e lo stimerà fino agli ultimi anni del soggiorno romano.

Appassionato disegnatore, ricopia le opere del Pontormo, di Michelangelo, dei manieristi della prima generazione, e attende a piccole tavole, ad «operette» di minor conto.

Ma l’avvio, la molla per un maggiore impegno nella sua opera di artista, a detta delle fonti, pare sia stata la vista della «Madonna del Popolo» di Federico Baroccio, che corse a vedere nella Pieve di Arezzo, insieme all’amico e pittore Gregorio Pagani; dalla quale opera rimasero «folgorati».

È di questo momento il primo incarico importante, la prima commissione che lo mette in lizza con i migliori nomi di Firenze; due affreschi nel Chiostro Grande di S. Maria Novella, condotti tra l’81 e l’84; primo il «Cristo al Limbo», al quale seguì la «Vestizione di S. Vincenzo Ferrer».

Ma i molteplici interessi del Cigoli non si accontentano della pittura. Dopo l’84 infatti c’è come una lunga parentesi durante la quale poco dipinge e molto disegna, cercando un approfondimento, una più scelta preparazione; e l’attività di architetto lo affascina, accanto a quella dello scenografo, del creatore di apparati festivi, un’attività con la quale certo aveva preso amore nella casa di Messer Bernardo delle Girandole, il mago del momento per una simile arte.

Dapprima al suo fianco, poi sempre più libero e personale, la sua opera è continuamente richiesta per gli ammirevoli festeggiamenti nella Firenze del tempo; ché certo il momento era dei più propizi.

Ben quattro matrimoni si celebrano in questi anni all’interno di casa Medici; gli archi trionfali, le scenografie, i costumi per gli spettacoli di occasione, le bardature, i carri montati per le feste, sono all’ordine del giorno; e gli architetti, gli uomini di gusto come il Buontalenti o come il Cigoli sono continuamente richiesti.

Già nel 1579 Francesco I sposava in seconde nozze Bianca Cappello, nel 1586 Don Cesare D’Este sposava Virginia, figlia di Cosimo; nello stesso anno Vincenzo Gonzaga, Duca di Mantova, sposava Eleonora, figlia di Francesco; nel 1589 sarà addirittura Ferdinando I a sposare Cristina di Lorena.

Fervono le giostre, gli spettacoli, i preparativi. Ludovico, prodigo e appassionato, si ingegna ad architettare invenzioni di gusto raffinato e si fa un nome sempre più chiaro; tanto che si chiederà anche a lui, insieme agli architetti più rinomati, di pensare a un modello per la sistemazione della facciata di S. Maria del Fiore; progetti architettonici, modelli, e disegni di feste che non lo distraggono completamente dalla pittura, continuando egli a disegnare, insieme al Commodi, le belle statue di Michelangelo nella Sacrestia vecchia di S. Lorenzo.

E insieme ai disegni per la porta dei Gaddi, per la Cappella del Sacramento in S. Marco, insieme ai modelli della facciata del Duomo, conduce in questo periodo ad affresco, alcune storie di Goffredo di Buglione nella medicea villa della Petraia, ora scomparse per il maltempo; soggetto certamente ideale per un modo di essere e di sentire quale era il suo, lirico e malinconico, vicino e anticipatore di una atmosfera arcadica, e nello spirito, quasi tassesca.

Di questo lirico sentimento e di questa musicale tendenza è una prova la memoria che danno le fonti di un suo dilettarsi a sonare il « leuto » proprio in questi anni prima del ’90, anni di giovanili furori e abbandoni.

Il « Martirio di S. Lorenzo», primo quadro datato che ci sia giunto, fu molto lentamente maturato, proprio per questa «musicale» parentesi del Cigoli musico dilettante; solo nel ’90 riuscirà a consegnarlo, rompendo le corde del suo «leuto», tornando d’impeto alla pittura, che darà d’ora in poi frutti continui, già maturi di mezzi tecnici, per le conoscenze e i rapporti non solo con 1a cultura del proprio ambiente, ma con le opere e i risultati delle culture vicine.

Santi di Tito, l’Allori, lo Zuccari dapprima; in un secondo tempo il Baroccio con il quadro di Arezzo e con la «Deposizione» di Perugia, e attraverso di lui anche il Correggio; dal ’90 i Veneti con 1a tavolozza ricca di colore puro, vibrante, saranno per il Cigoli la linfa attraverso la quale si nutre, la sua personale «istruzione».

Dal «Martirio» la fama si va confermando e procurerà a lui giovane, in mezzo ad artisti ormai celebri e sicuri, la commissione di un quadro per 1a Cappella di Palazzo Pitti, la  «Resurrezione»; un punto di arrivo per un altro artista, per il Cigoli un punto di partenza.

E finalmente la Commissione importante per 1a pala di S. Croce a Firenze, quella «Trinità» che è del ’92 nella quale Ludovico riverserà quanto ha visto e imparato negli anni che precedono; i ricordi dei manieristi, di un Santi di Tito, dell’Allori, fusi alle emozioni recenti di un Baroccio e di un Correggio.

Dal quadro di S. Croce, paesi e città della Toscana si contendono l’opera sua: Empoli con la

«Cena» perduta, Montopoli con la «Resurrezione» di Lazzaro, Pontorme con la «Concezione» e ancora Empoli con l’ « Eraclio che porta la Croce».

Contemporaneamente le commissioni vengono dalle più importanti Chiese di Firenze: il «S. Pietro Martire» per S. Maria Novella, un «Eraclio» per S. Marco, l’«Annunciazione» per i Cappuccini di Montughi; il «San Giovan Gualberto» per S. Maria Maggiore, dove il quadro si viene ad inserire in una sistemazione architettonica della facciata interna, che è sempre del Cigoli; pittura e architettura.

Architettura e pittura per le famiglie private; Ascanio Pucci, Iacopo Giraldi, Cosimo Ridolfi, Capinera Ricasoli, Carlo Guidacci, Alberto De’ Bardi, oltre naturalmente al Cardinale della famiglia Medici, lo impegnano e a gara lo contendono per dipinti di uso privato o per gli altari padronali dentro alle Chiese.

Gerolamo Mercuriale di Forlì, lettore allo Studio Pisano, che aveva già ordinato un «S. Mercuriale» per la sua città, ordina per sé un quadro religioso da salotto, quella «Cena in casa del Fariseo» che è finita poi nell’incredibile salotto della collezione Doria di Roma.

Dopo l’omaggio dei primi anni ai pittori fiorentini post-Michelangioleschi, dopo l’improvvisa rivelazione del Baroccio, gli anni intensi che vanno dal ’90 al ’97 tradiscono interessi, emozioni verso l’ambiente veneto, verso il colore atmosferico e verso le composizioni di Tiziano, di Paolo Veronese, del Tintoretto e forse dei Bassano, con una materia tonale ed una sensibilità al chiaroscuro che, nuovi in ambiente toscano, portati da un Passignano e da un Ligozzi, hanno nel Cigoli un divulgatore; il punto di attacco di una cultura fiorentina ormai stanca e di una sensibilità veneta in pieno fervore.

II « Martirio di S. Stefano » che è del ’97, dovette impegnarlo oltre misura nella sua faticata passione per le nuove scoperte, per aderire ad un mondo che sentiva completamente nuovo, e nel quale intendeva inserirsi, continuando a portare con sé il bagaglio manieristico, con il quale, fin da ragazzo, era entrato nel mondo della pittura.

E insieme al «Martirio»,  sintesi e coronamento delle sue ricerche e dei suoi «amori» coltivati negli ultimi anni, il «Miracolo della Mula» per la città di Cortona, sempre del ’97, offre la soluzione forse più consona al suo carattere, l’esempio più equilibrato e maturo di questo periodo.

Intorno al ’97, dopo i due quadri fondamentali per questi anni, è un primo breve soggiorno a Roma, che lascia una impronta notevole di impressioni e ricordi nel suo bagaglio di esperienze con la diretta visione dell’opera dei Carracci, principalmente, e dell’opera di Caravaggio, anche se ancora si tratta di una adesione esteriore; solo impressioni dal di fuori, quasi incoscienti e non le mature riflessioni del suo definitivo soggiorno romano.

Al ritorno da Roma dipinge per Colle Val D’Elsa una «Pietà», che è dell’89 e un «San Gerolamo», inviato a Roma nello stesso anno, ammiratissimo dai Fiorentini prima della partenza, che ha qualche cosa di nuovo nella sua intima semplicità, nella sua casalinga atmosfera di verità, come un’eco di verità caravaggesca.

Fu esposto nella Chiesa della SS. Annunziata al pubblico giudizio, per una bellissima usanza di quel tempo, che faceva delle Chiese palestre vive di pittura, inserendole nel generale interesse dei cittadini.

Siamo alle soglie del ‘600. Cosimo I gli commette il dipinto con la sua «Elezione» per Palazzo Vecchio, commissione che segna una sorta di ufficiale battesimo, come una prova della validità ormai sicura della sua fama.

Sempre per Cosimo disegna, insieme all’Allori ed allo Stradano, i cartoni per una serie di arazzi con le «Storie della Passione», che figuravano all’esterno del Palazzo Vecchio, nella festività del Corpus Domini.

È di questo tempo la elegantissima «notomia» in cera dello «Scorticato» dove torna, a insegnamento per le Accademie dei secoli che seguiranno e per generazioni intere di pittori, il resultato e il ricordo in chiave raffinata e nitida di quel lungo tirocinio giovanile fatto a disegnar legamenti e muscoli e ossa in quella tale stanza nel chiostro di S. Lorenzo.

E del ‘600 ancora, in occasione delle nozze di Maria De’ Medici con Enrico IV di Francia, sono i disegni per gli apparati e le scene bellissime con i fantasiosi costumi, per i quali i contemporanei giustamente tenevano alto il suo nome, che il nipote e il Baldinucci, suoi primi biografi, ricordano con parole di somma lode.

Scenografo ma insieme architetto e pittore; per S. Pier Maggiore disegna una bella facciata con ampio loggiato del quale restano pochi avanzi e, nel ‘601, dipinge una « Adorazione dei Magi ».

Poi un nuovo interesse, un’altra esperienza lo tiene fervidamente occupato; il «commesso» di pietre dure. Per il tabernacolo del Buontalenti, che doveva esser posto nella Cappella dei Principi in S. Lorenzo, e che si trova nella Cappella Palatina di Pitti, disegna una «Cena» e un’ «Adorazione dei Magi» e si ingegna a guidare gli artigiani che traducono questi disegni nella materia preziosa, splendente della pietra dura, sfruttando le variegature per effetti di stoffe o di chiaroscuri nella composizione.

Dal 1602 al 1603 nella Chiesa di S. Gaggio fuori le mura, fa lavori di restauro, addossando ad un tabernacolo trecentesco, una nuova cappella di sua architettura, ornata di ameni paesaggi e grottesche, dipingendo per l’altare maggiore una bella «Disputa di S. Caterina».

Si aggiunga in questi anni alle sue attività quella di letterato, sia pure dilettante e per ragioni onorifiche; il 7 Maggio 1603 entra a far parte dell’Accademia della Crusca, dove tiene una conferenza, inserito con i maggiori letterati e scienziati del tempo.

E ancora dipinge quadri per i privati, per il Granduca Ferdinando, per il Principe Doria, per Carlo Guidacci e Ilarione Martelli.

Ha studiato appena la composizione di un grande dipinto per i Serristori, da essere posto ad un altare di S. Croce, «l’Entrata di Cristo in Gerusalemme» che viene chiamato a Roma, e deve lasciare interrotto il quadro dei Serristori insieme ad un piccolo rame con la «Fuga in Egitto» che si farà poi mandare nel ‘607 (mentre il quadro di S. Croce sarà poi terminato dall’allievo Bilivert, per sua volontà testamentaria).

Aveva scritto, in questi ultimi anni della sua permanenza a Firenze, un interessante «Trattato sulla Prospettiva», sfortunatamente ancora inedito, dove ha fatto tesoro degli studi e gli insegnamenti avuti con un Buontalenti come architetto, con Ostilio Ricci come matematico e certamente con il più importante dei suoi amici, per la sua formazione scientifica, Galileo Galilei.

Il Viviani nella sua vita di Galileo riporta infatti che il . . . «famosissimo Cigoli, stimato dal Sig. Galileo il primo pittore de’ nostri secoli, pregiavasi di poter dire, che quanto operava di buono, lo riconosceva in gran parte degli ottimi documenti del Sig. Galileo, e che particolarmente nella prospettiva egli solo gli era stato maestro».

Aveva tra l’altro inventato due strumenti per tirare praticamente una prospettiva, senza eccessiva perdita di tempo.

Lascia a Firenze, prima di partire, architetture in costruzione e disegni per architetture che verranno fatte: la Cappella Usimbardi di S. Trinita, la Loggetta dei Tornaquinci, il coro di S. Maria Maggiore, il coro di S. Felicita, progetti di ingrandimento per Palazzo Pitti.

A Roma viene inviato dallo stesso Granduca Ferdinando per l’allogazione di una delle grandi tavole che venivano assegnate dal Papa ai maggiori artisti del tempo per i nuovi altari del rinnovato S. Pietro; e si trovò impegnato insieme ad egregi architetti, a studiare la nuova sistemazione della facciata, per la quale fece disegni varissimi.

II 3 Aprile del 1604 arriva a Roma, ospite dei Medici nel palazzo di Trinità dei Monti; e c’è un’interessante lettera del Segretario di casa Medici, che dà l’annuncio di questo arrivo insieme ad un giudizio positivo sul carattere stesso del pittore: «. . . modesto, gratioso e di molto sentimento».

Iniziata l’opera a lui assegnata, «S. Pietro guarisce lo storpio» continua a dipingere per la Chiesa dei cavalieri in Pisa il «Cosimo I prende l’insegne di Cavaliere di S. Stefano» che è del 1605, e partecipa in questo tempo con l’ «Ecce Homo» al concorso indetto da Monsignor Massimi, insieme con il Passignano e con il Caravaggio.

Appena avuta la commissione per 1a «Deposizione di S. Paolo» da dipingere per la Basilica omonima, già deve tornare a Firenze, richiamato per le nozze di Cosimo II con Maria Maddalena di Austria, nozze avvenute nell’Ottobre del ‘608. Anche in questa occasione disegna grandi apparati, archi trionfali e scene.

Tornato a Roma, lotta contro l’invidia e la maldicenza di colleghi e di personaggi romani intorno alla tavola di S. Pietro, che distrugge, per rifarla di nuovo di fronte a tutti senza intavolato, onde mostrare agli increduli la sua capacità.

Dal palazzo de’ Medici a Trinità dei Monti, va ad abitare in casa Orsini a Monte Giordano. In questo suo definitivo soggiorno a Roma, dopo due incarichi importanti come quello delle due pale per le due maggiori Basiliche, le famiglie più in vista vogliono suoi dipinti, e fervono le commissioni.

Dipinge per Virginia e Corradino Orsini, per Monsignor Crescenzi, per il Doni, per Monsignor Giusti; e ancora per il Cardinal Barberini, per Monsignor Ricci; e per il Cardinale Arrigoni degli affreschi nella sua villa di Frascati.

Torna nel ‘609 a Firenze per una triste occasione, a dare disegni ed istruzioni nella cerimonia funebre che la città faceva alla morte di Ferdinando.

Paolo V gli dà l’incarico di affrescare una sua Cappella in S. Maria Maggiore alla quale lavorerà dal 1610 al 1613, contemporaneamente agli affreschi con la Favola di Psiche che i Borghese volevano dipinti in una loggetta nel giardino del loro palazzo a Monte Cavallo; ed erano con lui gli scolari Coccapani e Boccacci.

Finite queste opere, mentre andava dipingendo una « Assunta » per la Granduchessa, quadro rimasto interrotto, ebbe, prima di morire, un ultimo riconoscimento ufficiale, tramite Paolo V e il Cardinal Borghese, per i quali aveva lavorato in questi ultimi anni; il 30 Aprile 1613 veniva fatto Cavaliere dell’Ordine di Malta.

L’ 8 Giugno dello stesso anno moriva a Roma e, dopo la funebre pompa, veniva sepolto in S. Giovanni de’ Fiorentini, vicino alla pila dell’acqua santa; sepoltura dalla quale doveva esser tolto per arrivare finalmente a trovar pace nella Chiesa di S. Felicita a Firenze.

 


 

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