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Una importante mostra del Cigoli

da: L’Unità, Sabato 22 Agosto 1959

 

(Dal nostro inviato speciale)

 

 

SAN MINIATO, agosto.

Nella quieta sera di mezza estate, il biblico Giacobbe si è assopito, le mani hanno ancora un languido moto musicale quasi chiudessero sulla scena che sa di vigne toscane sotto la luna d’agosto, l’ultimo sospiro d’uno di quegli spericolati cantori che, sul finire del Cinquecento, trionfavano a Firenze nella Dafne e nell’Euridice dell’acclamatissimo musico Jacopo Peri; e, sul filo di questo sospiro che incatena la invisibile platea, il cielo si spalanca improvviso, una scala abbagliante con tanti angeli pazzerelloni che si rincorrono leggeri come dita sui tasti di un clavicembalo, si drizza meravigliosa su su fino al dio di cartapesta affidato alle mani sapienti degli inarrivabili macchinisti teatrali delle feste e degli spettacoli di Casa Medici.

E’ il Sogno Giacobbe, uno dei quadri maturi di Ludovico Cardi detto il Cigoli ( 1559-1613), nato a Castelvecchio di Cigoli quattrocento anni or sono e del quale la città di San Miniato ha voluto rinverdire la fama con una gran bella mostra al Conservatorio di S. Chiara, dove sono con gran cura ordinate un centinaio di opere, fra pitture e disegni, di Ludovico e circa quaranta «pezzi» degli artisti del suo ambiente.

E’ noto come Cigoli stesse dietro alle macchie solari, e guardasse il corso degli astri, e corrispondesse agevolmente con Galileo; ma a sgranar pazientemente gli occhi nei cieli e negli spazi ch’egli oziosamente accomoda su spettacoli di estasi e martiri, di Passione e di favole arcadiche. bisogna proprio dire che essi non vibrano di nessuna esaltazione e di nessuno sgomento per le nuove dimensioni dell’universo.

Si pensi all’uso spericolato che fa il Cigoli della prospettiva e dell’anatomia per costruire i suoi drammoni: anatomia relativa scienza della natura, terza dimensione e relativa speculazione matematico-fisica erano state per gli iniziatori del Rinascimento mezzi formidabili per la conoscenza del mondo; per la cultura a cui attinge il Cigoli manierista la tecnica della prospettiva e della anatomia ha raggiunto un tale grado di stupefacente ma impotente artifizio che la capacità dl conoscere la realtà si offusca e si spegne.

Ludovico Cardi, dopo un apprendistato dal 1572 al 1576 presso la bottega di Alessandro Allori stimatissimo a Firenze per la sua «fabbrica» di pitture e di allievi nei chiostri di S. Lorenzo, entra nel giro ufficiale con la conoscenza del Buontalenti. Dal Buontalenti cavò anche buon succo di architettura e di prospettiva, oltre a imparar lo stile del cortigiano degno di metter piede nelle case dei Medici.

Va ogni giorno a disegnare da Santi di Tito: e con diligente passione e secondo il gusto di quei giorni. che era fortemente sotto lo choc della scultura di Michelangelo, disegna nella Sacristia di San Lorenzo. Si fa un bel mestiere: l’aver disegnato un certo numero di gambe e di braccia gli mette l’anima in pace: proprio l’opposto dell’angosciato Pontormo il quale teneva il conto dei frammenti dipinti giorno dopo giorno col tono di chi una volta o l’altra sul proprio diario segni tristemente la  decisione del suicidio.

Corre ad Arezzo con l’amico pittore Gregorio Pagani — un personaggio tuttora trascurato e Che pure ebbe la sua importanza a Firenze nell’opera di svuotamento delle ragioni estetiche e morali del manierismo e resta letteralmente folgorato dalla visione della Madonna del popolo di Federico Barocci inaugurata nella Pieve di Arezzo.

A questo momento risale il «pastiche» fra disegno fiorentino e luce e psicologia I correggesche. presto caricato dal colore veneziano (Tiziano maturo e Veronese) ch’egli ebbe buon occhio per intendere e sottilmente assimilare dai quadri veneziani delle raccolte Medicee.

A Roma nel ’97, sbircia i Carracci e di Caravaggio fraintende il far naturale, nel senso che riesce ad accrescer il suo guardaroba di verosimiglianza. E’ un pittore pienamente arrivato quando Cosimo I* allo scadere del secolo gli commette il quadro con la sua «Elezione» per Palazzo Vecchio.

 

* Evidente errore, il ritratto di Cosimo I fu commissionato al Cigoli da Francesco I nel 1585; Cosimo I morì nel 1574. (nota della redazione)

 

Tocca il trionfo con la chiamata a Roma nel 1604 per una delle grandi tavole per il rinnovato S. Pietro, e qui arriva addirittura a discutere come architetto della sistemazione della facciata della chiesa.

Torna di nuovo a Roma nel 1609, e riesce a stento a star dietro tutte le commissioni private e pubbliche.

Qui la morte lo coglie nel 1613 al culmine degli onori.

Il catalogo delle pitture del Cigoli è tuttora assai confuso e controverso, in ispecie per le opere private: districare la sua individualità nell’anonimato del cosmopolitismo manierista e post-manierista sia nelle origini fiorentine sia nel trapianto romano, è impresa assai ardua.

Qui, nella pur bella mostra di San Miniato il peso di questa oscurità che avvolge la concreta produzione del Cigoli si sente fin troppo: siamo nella terra di nessuno delle attribuzioni per le quali un pittore oggi una cosa e domani un’altra.

Il nucleo essenziale delle opere del Cigoli è costituito a San Miniato dall’affresco con la Vestizione di S. Vincenzo Ferrer (Firenze, Chiostro Grande di S. M. Novella) che è una raggelata meditazione eclettica sul Pontormo, su Andrea del Sarto e su Santi di Tito; dalla tavola, sino a oggi inedita, del Noli me tangere, un quadro ancora spaurito alla maniera buona dei manieristi tipo Pontormo e Rosso e dove il miele del colore correggesco del Barocci, visto ad Arezzo, fortunatamente non fa corpo col formalismo esasperato del disegno; dalla Resurrezione e dalla Trinità in cui c’è già tutto il Cigoli zelantissimo pittore di devozione e che tocca strane forme di primitivismo nella semplificazione dei simboli e del racconto (che è però quasi sempre un raccontino): un parrucchiere dei tempi di Luigi Filippo, con un po’ di tecnica accademica alla Ingres, non avrebbe potuto aggiustar meglio barba e capelli quali li dipinge il Cigoli per la dubbia maestà del Padreterno; dall’Autoritratto con un giovane (forse l’allievo Bilivert che somiglia stranamente al modello che posò per il David del Caravaggio ora alla Galleria di Vienna).

Col Martirio ‘di S. Pietro martire siamo intorno al 1595, quando Ludovico ormai tenta il gran quadro: tutta l’esagitazione macchinosa del quadrone spreme soltanto quelle poche gocce di sangue come corallo che dalla testa di Pietro calan giù fino al suo indice che intinge nella pozzetta di sangue per scrivere una parola di fede: basta appena evocare come il Caravaggio fa saltar via la testa dal corpo degli uomini per dar giusto peso a così facile spreco di sangue.

La Cena in Emmaus (nelle due versioni esposte) è una deliziosa accademia alla veneziana e segna il passaggio a una maniera estremamente più mossa, pittoresca e sovraccarica. senza altra ragione però che non sia quella di aggiunger nuova brillantezza e stravaganza alla tecnica.

Se bastasse il gusto genericamente veneto di un quadro lodatissimo quale è il Martirio di S. Stefano (c’è forse una punta di erudizione nei gesti che sembrano sbirciati sul Laocoonte ritrovato sul principio del ‘500 fatto presto copiare dai Medici al Bandinelli) datato 1597, sarebbe possibile anche scambiar questo controriformista per un superamento delle posizioni manieristiche strettamente fiorentine oramai esauste e sterili: ciò che tradisce il Cigoli è l’indifferenza, celata sotto la devozione, per una idea responsabile della vita e della pittura, la sua ossessione di far spettacolo comunque, meglio se il soggetto è di ferocia e di morte: che potesse divertire a uno spettacolo di morte che è «scoperta»  particolare della generazione manieristica del Cigoli, fino a quella «Summa» di tutti i sadismi che son gli affreschi romani del Pomarancio a S. Stefano Rotondo.

E il S. Girolamo nello studio è ancora un umanista più preoccupato dei libri che del teschio, e la naturalezza della sua meditazione crea un ben stretto contrasto con le tre i virtù celesti appollaiate sulle solite nuvolette di cartone — e sembra che il sipario sia levato innanzi tempo e abbia colto le comparse in un cicalare stretto stretto: un altro raro quadro sobrio e sostenuto di umori vagamente carracceschi e caravaggeschi.

Prezioso chiarimento alle pitture è il folto gruppo di disegni, anche architettonici, dai  quali il Cigoli sembrerebbe un pittore furioso e tormentatissimo se non ci si chiedesse quale ragione abbia il suo uso turbinoso di segno e macchia.

Ma la maniera turbinosa del Cigoli nasce da un’impotenza di definizione formale su un‘autentica scoperta: il groviglio del disegno nasconde a inala pena l’assenza di un nucleo di verità; così il bozzettisino e il «non-finito» del Cigoli disegnatore finiscono con l’essere lo specchio d’un faticoso annaspare sul soggetto senza che il pittore riesca a rinverdirlo di contenuti: la finitezza oleografica delle pitture è poi soltanto conseguenza di una scrupolosa fedeltà iconografica e illustrativa nei riguardi del soggetto.

Utile è anche l’accostamento al Cigoli di quello che nella mostra definito il suo ambiente, anche se la scelta e l’attribuzione di tante pitture sono assai discutibili: Federico Barocci, Alessandro Allori, Santi di Tito, Jacopo Ligozzi, Bernardino Poccetti, l’Empoli, Aurelio Lomi, Andrea Boscoli, il Passignano,  Gregorio Pagani, Andrea Commodi (che sopravanza di tutta una spalla il Cigoli col Miracolo di S. Benedetto), Agostino Ciampelli, Fabrizio Boschi, Francesco Curradi, Giovanni Bilivert, Cristofano Allori. G. B. Lupicini. Matteo Rosselli, Sigismondo Coccapani.

Dario Micacchi

 


 

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