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Presentazione del Catalogo della Mostra

sul Cigoli e il suo ambiente

(San Miniato 1980)

di Giulia Sinibaldi

 

   La città di S. Miniato ha preso occasione dal ricorrere del quarto centenario dalla nascita del Cigoli per esporre un gruppo di dipinti e di disegni, che portino in luce la sua figura.

Il lavoro che essa ha compiuto, con la collaborazione delle Soprintendenze di Pisa e di Firenze e con i contributi di vari Enti, riceve un riconoscimento dall’alto patronato di S. E. Giovanni Gronchi. a cui vadano perciò i ringraziamenti del comitato e di tutta la città.

   L’idea di questa mostra è stata suggerita dall’amore del luogo nativo e di quanto di meglio esso ha dato alla vita. Ma la rivalutazione, che s’intende di fare, tocca un punto attuale degli studi dell’arte.

Infatti il gruppo del Cigoli e dei suoi compagni di tendenza era quasi caduto nell’ombra, e soltanto da pochi anni è diventato oggetto di nuova attenzione e di ricerche.

Il primo chiarimento è in verità del 1927, in quelle brevi e dense frasi del Longhi, che non sarà male ripetere in questa occasione, perchè, aprendo la questione, già la risolsero in modo definitivo:

 

«Firenze era anch’essa, nel secondo cinquecento, più che non si creda, una fucina di “tendenze”; che dico, occorrerebbe rifarsi anche più addietro per avvertire…, che proprio nel cuore dei movimenti più irrealistici del cosidetto manierismo, e addirittura nei più famosi rappresentanti dell’irrealismo come il Bronzino e il Pontormo si possono scorgere con una buona lente d’ingrandimento, frammenti o residui di una vena naturalistica, amorosa e dedita alla apparenza ottica delle cose, ai “valori” che è probabilmente eredità di uno degli aspetti dello spirito figurativo del Quattrocento….

Questi accenni, non mai perduti di vista per via di certe evidenze che appaiono nel Cavalori, nel Macchietti e in altri ancora, s’infittiscono sempre più nella seconda metå del ‘500 e con l’appoggio della riforma, sia pure chiusa in una legatura accademica e scolastica, di Santi di Tito…. si svolgono a nuove emcenze nell’ultimo quarto del cinquecento, provocando capitali “crisi di tendenza” nell’opera di Alessandro Allori, di Jacopo da Empoli e di Ludovico Cigoli.

Il nuovo apporto di fluidità e di legamento atmosferico di masse giunto col Passignano da Venezia — senza parlar del Ligozzi e del Pagani — si confonde e salda perfettamente con la tradizione riformata del Titi, spostando sempre più l’interesse degli artisti sugli accordi cromatici e luministici; il Cigoli ne dà un segnale notevolissimo nella sua Ultima Cena, notturna, di Empoli (1591), Senza dire dei nuovi accordi da lui tentati, tra la gamma calda e positiva dei Veneti, con quella acidula e irrealistica del Baroccio…»

 

   Accanto agli studi stimolati da questa traccia così lucida, c’è da ricordare qualche mostra e qualche altro contributo alla conoscenza del Cigoli e del suo gruppo.

Nel 1913, anniversario della morte del Cigoli, fu fatta agli Uffizi una mostra dei suoi disegni, essendo allora di aiuto specialmente il saggio di Kurt Busse, pubblicato due anni prima.

In quell’occasione la città di S. Miniato stampò la fonte più importante del suo pittore, cioè la biografia scritta dal nipote Giovanni Battista quasi a premessa del «Trattato di prospettiva pratica Bisogna poi arrivare al 1940, per veder apparire un notevole gruppo di pittori della riforma» nella mostra del Cinquecento toscano.

Ma da molti anni la Soprintendenza di Firenze ha l’intenzione — che ancora purtroppo non ha potuto trovare il modo di attuarsi — di raccogliere in una sola Galleria gli sparsi dipinti di quegli artisti.

La mostra dei bozzetti, del 1952, presentò alcune di quelle loro piccole opere di getto, impresse di una prontezza e vitalità di pittura che contrasta, come molti disegni, con l’impegno morale e l’aria quasi affaticata di certi loro dipinti grandi. Infine è di quest’anno la bella mostra di disegni fiorentini del Louvre, parte della collezione di Filippo Baldinucci, dove il Cigoli figurava stupendamente.

Ultimo contributo è la nuova edizione del carteggio tra il Cigoli e Galileo, uscita a S. Miniato a cura di Anna Matteoli; un testo vivissimo, che aggiunge assai alla biografia.

   La biografia e il carteggio non soltanto ci danno notizie sulle opere del Cigoli, ma ci danno il senso della sua indole, dei suoi costumi e dell’atmosfera in cui visse. Abbiamo così la fortuna di sapere assai di lui.

Non c’è dubbio che, nel caso del Cigoli, la possibilità di renderci conto delle sue qualità di uomo ci aiuti molto a capire i sensi della sua pittura, perchè essa veramente muove da un contenuto di umanità, di religiosità e di morale.

   La biografia ha certamente il tono di un encomio. Si trattava di tramandare una gloria familiare e forse anche di pagare un debito di riconoscenza.

Ma posto questo e ammessa anche l’omissione di quanto potesse eventualmente non tornare a lode, la biografia è così minutamente informata e così trasparente che ne esce fuori una figura viva e vera. Era un uomo ben nato, di famiglia antica, agiata, poco numerosa, vissuta a lungo tutta quanta nella stessa villa.

Di lì il Cigoli esce ancora ragazzo, per andare a Firenze, e poco dopo la sua salute crolla negli studi d’anatomia, fatti sotto la guida di Alessandro Allori; ne segue il mal caduco, una lunga infermità. Superato questo difficile principio, egli torna a Firenze e riprende gli studi.

Dal punto dove l’aveva messo l’Allori, cioè dagli esercizi del disegno del corpo umano, dove pareva che potesse concentrarsi il valore della natura ideale, egli risale al Pontormo tardo.

Comincia così quella ricerca di varie maniere, che lo affatica per molto tempo e che dimostra fin dal principio che qualcosa d’indistinto e di nuovo premeva dentro di lui.

Egli cercava di sviluppare questi sensi prendendo da fonti diverse quello Che l’aiutava a rivelarli e più volte nella stessa opera cambia, parte per parte, disegno e modo di colorire.

È una cammino che sorprende, se si pensa alla forza e all’originalità del suo spirito, ma anche il suo appoggiarsi a questo e a quello, e il suo lungo cercare in una scuola piena di grandi nomi e di tradizioni profonde, finisce con l’illuminarci.

   Pare Che egli fosse mosso soprattutto da una sensibilità istintiva e dal sentimento, e che egli operasse, nella sua ricerca incessante, senza uscire dal rispetto verso le cose già trovate.

Sicchè non si può fare a meno di contrapporgli l’interiorità così lucida, intellettuale e ribelle del Pontormo e degli altri manieristi della prima fase, dove i contrasti brillano e tutto avviene a scatti di energia. Il Pontormo piaceva molto al giovane Cigoli, perchè doveva apparirgli un patriarca del disegno fiorentino.

Ma fu soltanto una breve esperienza, anche se depositò nel fondo del suo animo qualcosa di segretamente vitale, che rigalleggia nei momenti d’estro, nei disegni più rapidi, in certe punte, che egli addolcisce e arrotonda ripensandoci su.

Perchè il manierismo non fu mai completamente divelto dal fondo del suo spirito. E vi coesiste in un quasi pacifico accordo con tendenze tanto diverse, più moderne e dominanti.

Moderno era il senso della plasticità ombrosa, sensibile, di una figura umana, e poichè la norma era di cominciare a disegnarla dal nudo, dopo gli studi con l’Allori il Cigoli, in compagnia di Andrea Commodi, si esercitò a copiare le statue della sagrestia nuova di S. Lorenzo, e ne ritraeva la pienezza non soltanto in disegni, ma materialmente in copie di terra.

Osservando così il girare che fanno le superfici di un corpo tra luce e ombra, forse agivano in lui inconsapevolmente i ricordi di quei primi studi fatti nella stanza dell’Allori, e impressi dalla paurosa malattia che ne seguì.

Infatti il nipote pone accanto alle copie da Michelangiolo altri studi anatomici in cera, da scheletri considerati da tutte le parti, e annota cose interessanti:

 

«Et essendo di temperamento malinconico assai fissamente senz’altre pratiche d’intorno a detti studi si tratteneva, nei quali compiacendosi per la detta cagione non è da meravigliarsi se con più gusto e maggiore amore condusse l’opere funeste che l’allegre

 

Da queste parole risulta quanto lo deprimevano quegli studi d’anatomia, che per altri erano stati esaltanti. Certamente gli scheletri e i pezzi anatomici dovevano sembrare alla sua sensibilità assai meno il mezzo per dipingere forti figure con muscoli pieni di energia che l’immagine del passare delle cose terrene e del loro annullarsi.

Comunque, con l’animo volto alle dolcezze e alle melanconie dell’ombra, egli sceglie bene l’uomo adatto a incamminarlo per la sua vera strada, cioè Santi di Tito, «dal quale ogni giorno andando a disegnare dal naturale, fece assai profitto nell’intender l’attitudini» e, come si dice altrove, «attitudini, proporzioni, movenze ed esplicazione di storie cioè il nuovo assetto di una «storia», dove sia disegnato come stanno le figure e quali gesti fanno, proporzionati al vero e alla naturalezza dei fatti.

Nel nuovo modo il Cigoli compone fin dal 1592. Il Lazzaro risuscitato di Montopoli è un’opera già tutta piena di naturalezza quieta e modesta.

Il miracolo avviene quasi in un’aria di famiglia cristiana, di dolce e umile accordo, di assorta semplicità. Il tono sentimentale è così intimo e fuso con la «verità» del Cigoli, che la spiega tutta; ne spiega i limiti, la sincerità, la possibilità di accordarsi in certo modo con la tradizione degli ideali classici e di aderire sinceramente alla Controriforma.

   I paesi e gl’interni, dove il pittore pose le sue storie di santi, sono indeterminati e romantici, come fondali di scena, senz’aria e senza verità. Di solito legano poco con i primi piani, cioè con i, fatti raffigurati.

Del resto nei disegni spesso i fondi delle storie sono cambiati più volte, proprio come si cambia uno scenario. Forse egli rifuggiva istintivamente dallo storicizzare troppo i fatti sacri e perciò ne lasciava imprecisabili i luoghi e i momenti.

   Il Cigoli non accetta la squisita limpidezza e serenità di Santi di Tito e cerca altrove; fuori di Firenze, quei mezzi pittorici e ombrosi che coincidano con la sua sensibilità.

Li trova in opere veneziane, e questa è una scoperta fondamentale, avvenuta assai presto e stimolo a tutti gli sviluppi successivi; le esperienze intercalate del Baroccio e del Correggio sono care e utili fino agli ultimi anni per ragioni simili di dolcezze di colorito e di ombre sentimentali.

   Il nipote segna con molta precisione i progressi dal disegno al colore; ma una sua grave lacuna è l’aver dimenticato Venezia. Da Venezia il Cigoli riceve idee e aiuti di varia natura dal tempo del Martirio di S. Lorenzo (1590) in poi, essendo da ricordare nel procedere di queste esperienze l’anno importante della «svolta» verso un esporre più aperto e libero, il 1597, quando, tra cose diversamente composte, ma di altrettanta maturità, il Cigoli dipinse il Martirio di S. Stefano.

In quest’opera da Tiziano viene, mi pare, non solo il salire obliquo e sfogato di tutta la veduta d’insieme, ma quel tono più alto, quell’energia cresciuta e perfino, di ritorno, quanto c’è di manierismo alla michelangiolesca nelle figure dei carnefici, dipinte, d’altra parte, con tanta pienezza di pittura.

A questo punto l’artista è già maturo per il suo incontro con i Carracci a Roma e capace di venire in contatto con loro, finchè dipinge quelle storie di Psiche, che hanno perfino portato il nome di Annibale.

   Son queste le sue sole storie «un po’ lascive» e, per non cadere in peccato, le

 

«andava ricoprendo con questa allegoria: intendendo per Psiche l’anima nostra, la quale spinta dal vento delle tentazioni fosse condotta nel palazzo del peccato, ornato di apparenti delizie, nel quale ostinatamente acconsentendo ai vietati appetiti, se ne vola da lei la grazia divina, mediante la qual perdita riconoscendo il misero stato nel quale si trovava, se ne va con pentimento a ritrovarsi il belletto della penitenza, del quale servitasi vien ricondotta davanti a Dio, alla presenza del quale bevendo il nettare della sua grazia, vien di nuovo degna di godersi quell’eterno bene del quale era restata priva.»

 

Il confessore del Cigoli a Roma, Don Iacopo Valponio della Congregazione dell’Oratorio, disse pubblicamente di non averlo mai trovato in peccato mortale durante gli anni romani. Della sua vita virtuosa sono prova e testo l’ideale del pittore perfetto che egli si era formato, e i precetti che dava ai suoi scolari.

Cercava soltanto

 

«l’amicizia di persone grandi e ingegnose… lasciando sempre da parte il conversare con certa sorta di gente con le quali era un perder tempo.

E perciò consigliava i suoi giovani, alli quali volentierissimo insegnava, a starsene ritirati, dicendogli che per venir valentuomo era necessario innamorarsi della professione, la quale, in qualunque, ricerca tutto l’uomo, e non bisognava svagarsi e riempir l’immaginativa di diversi fantasmi, dai quali essendo distratta, malagevolmente si rende atta all’opera per le varie invenzioni che si ha di bisogno; le quali se non son prima profondamente immaginate, non si possono con le mani molto bene esprimere, e che si doveva solo amare le bellezze umane per l’utilità dell’arte acciò scelto il bello dal bello si imitasse nel più perfetto della natura, lasciando da parte ogni pensier lascivo e disonesto, si come mostrò al mondo il viver suo…»

 

   È una specie di testamento spirituale, e perciò le formule della tradizione classica e accademica e i doveri del perfetto pittore vi sono insegnati con un tono pesante, che certamente il Cigoli non usava nella pratica della sua bottega, come del resto dimostrano le opere degli scolari. Tuttavia la realtà era guardata attraverso quelle formule, e non fa meraviglia Che potessero essere ancora validi gli esempi dei «classici» del principio del secolo, cioè Andrea del Sarto e i pittori della scuola di S. Marco, questi ultimi anche in un senso religioso, come è stato detto.

Infatti nella scuola del Convento di S. Marco «la riscoperta del valore “sacro” di Fra Giovanni da Fiesole…, la castigata semplificazione dei dati formali…, i coscienti e voluti arcaismi cromatici, sono il sincero portato dell’intento di riformare la pittura religiosa e i propositi di un Fra Bartolommeo e di un Mariotto Albertinelli anticipano di quasi un cinquantennio i fatti che abitualmente vengono imputati alla Controriforma» (F. Zeri).

   Il rifiuto delle divagazioni e dei diversi fantasmi » dei manieristi, dell’ «anormale per rifarsi al «normale» aveva un valore morale. E anche se qualcosa della «verità» del Caravaggio potè lasciare un’impronta sul Cigoli, il Caravaggio e il Cigoli erano inconciliabili.

Non è senza significato che essi s’incontrassero così di rado alla taverna e che il Cigoli vi andasse soltanto per condiscendenza e per salvarsi dalle censure e persecuzioni di quello stranisSimo cervello» .

Per la prima volta, credo, si ritrovano insieme, in questa mostra, i dipinti con l’«Ecce Homo» del Caravaggio e del Cigoli, ordinati da Monsignor Massimi, e l’occasione è preziosa, trattandosi dello stesso soggetto, anzi dello stesso soggetto a tema prefissato, a meno che, come insinua il Longhi, il Cigoli non avesse dato un’occhiata al quadro del Caravaggio prima di fare il suo.

Non è certo il caso di approfittare di questa occasione per giudicare di nuovo il «concorso», perchè è pacifico che ne uscirebbe premiato il Caravaggio. Anzi è il caso di cercare di mettersi al punto di vista di Monsignor Massimi, che, per il Cigoli, è quello giusto.

Da questo punto di vista il dipinto del Cigoli rivela la sua evidenza ammirevole, la sua capacità di riportare davanti agli occhi l’immagine «vera» del Redentore martirizzato, con la sua divina mansuetudine, il corpo bianco e come intangibile, le nobili mani e le braccia delicate, che le catenelle non osano di stringere. In contrapposizione con quella sublime bontà che si manifesta in bellezza, la cattiveria del manigoldo ha l’aspetto di una bruttezza deforme e vuota di anima umana.

Il manto purpureo non pare il travestimento imposto al Cristo per scherno, ma il segno della sua vera dignità regale, e un lembo di quella bella stoffa pende dal parapetto come da un altare. La commozione, che ispira la testa graziosamente languente e inclinata del Cristo del Cigoli è dunque di una natura diversa da quella suscitata dal Cristo del Caravaggio.

   Bisognerebbe che invece delle parole «convenzioni accademiche, limiti di fronte al reale» che hanno un senso negativo, potessero usarsene altre capaci di esprimere le stesse cose in modo positivo, perchè in modo positivo e in armonia con sè stesso il Cigoli le visse.

 


 

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