La mostra del Cigoli e del Suo ambiente
(San Miniato, 1959)
di Attilio Podestà
da: Emporium, Vol. CXXX, n. 780, pp. 253-258 (1959)
In questo rifiorire di studi sul Seicento pittorico e in questo rinnovato interesse per le complesse «tendenze» che ne formativa, si inserisce la mostra che la città di S. Miniato ha voluto dedicare a Ludovico Cardi il Cigoli, nel quarto centenario della nascita del suo più illustre pittore, che ebbe dimestichezza con Galilei, fu affascinato dall’architettura, fece normalmente lo scenografo. si dilettò di musica e fu accolto all’Accademia tra i maggiori letterati e scienziati del suo tempo.
Oltre che un intento celebrativo. la mostra ne ha uno critico, di rivalutazione di quella riforma neocinquecentesca, di quelle nuove tendenze che senza premesse teoriche e sia pure con ristretti esiti provinciali, si svolsero nella scuola toscana in parallelo con quelle bolognesi.
Il Lanzi aveva già scritto ma senza credito, che se «questi toscani avessero aggiunto alle forme qualche studio di greca eleganza» e qualche «osservazione più fine», «la riforma della pittura che in Italia si vide circa a questo tempo non si ascriverebbe a Firenze, men che a Bologna».
Nella trascurata affermazione del Lanzi è il più indicativo precedente della rivalutazione che anche in questo caso parte un giudizio longhiano, un giudizio del 1927:
«proprio nel cuore dei movimenti più irrealistici del cosidetto manierismo» «si possono scorgere con una buona lente di ingrandimento frammenti o residui di una vena naturalistica» che «s’infittiscono sempre più metà del Cinquecento e con l’appoggio riforma, sia pure chiusa in una legatura accademica e scolastica, di Santi di Tito, si svolgono nuove efficenze nell’ultimo quarto del Cinquecento, provocando capitali crisi di tendenza nell’opera di Alessandro Allori, di Jacopo da Empoli e di Ludovico Cigoli».
Iniziata da Santi di Tito, la riforma. nei limiti di così modesti orizzonti, diede forse con il Cigoli le soluzioni più vive e più pungenti: merito non poco dei reperti correggeschi (il Cigoli venne con qualche esagerazione chiamato il Correggio fiorentino) e dell’improvvisa illuminazione (una vera e propria «folgorazione» che il giovane allievo di Alessandro Allori aveva avuto dal quadro della Madonna del popolo del Baroccio nella pieve di Arezzo, visitata insieme con l’amico Gregorio Pagani.
Ma merito anche degli insegnamenti della pittura veneziana, alla quale, per l’innata tendenza al colorismo, s’era fin dall’inizio accostato. Soluzioni di corrente «riformata» in senso tradizionale, scorgere, senza forse ben volerlo, elementi di precorritrice temperie, soprattutto negli appunti e nelle confessioni a matita e a penna (a rigore il miglior Cigoli proprio nei disegni), negli nei bozzetti senza pretese; vistose interferenze di colori agri e irreali (presi dal bagaglio manieristico che il pittore si portava dietro dalla nascita), quiete stesure cromatiche di scolastiche figurazioni a fondali decorativi; ricorrenti particolari di sentimentale e malinconica dolcezza, introdotti quasi per intima necessità nelle severe composizioni d’una morale accademia.
Tra le componenti eclettiche del Cigoli la prima certamente quella manieristica a parte i faticosi esercizi di disegno anatomico nei cinque anni che il pittore stette sotto Allori a Firenze comprovata dalla devota ammirazione per il Pontormo e in subordine per Andrea del Sarto: ma l’attardatissimo continuatore non risentì in nulla delle intellettualistiche tradizioni dei maestri: ne mantenne soltanto distaccati elementi linguistici e isolate accentuazioni espressive, che, a distanza di tempo, affiorano nella sua opera come da un segreto deposito.
Il nipote Giovanni Battista scrisse nella celebre Biografia che il Cigoli si accostò ben presto al pittore più vicino al suo mondo, per il quieto naturalismo e per il tono del sentimento, Santi di Tito, «dal quale ogni giorno andando a disegnare dal naturale, fece assai profitto nell’intender l’attitudini».
Già nel Lazzaro resuscitato di Montopoli, che è del 1592, come rileva la Sinibaldi nella presentazione al catalogo, «il tono sentimentale è così intimo e fuso con la verità del Cigoli, che la spiega tutta; ne spiega i limiti, la sincerità, le possibilità di accordarsi in certo modo con la tradizione degli ideali classici e di aderire sinceramente alla controriforma.»
Nell’ambito della reazione consertrice, garbata e dolcigna di Santi di Tito, non sarebbe stato che un tiepido seguace, se le successive esperienze non avessero promosso continui. anche se non conseguenti e coordinati, tentativi d’evasione verso terre e miraggi che la sua sensibilità intravvedeva.
Riporti di colorismo veneto ai quali non forse estraneo l’arrivo di Jacopo Ligozzi, stimoli barocceschi e, indirettamente, correggeschi, reviviscenze manieristiche, si fanno strada quasi istintivamente per accentuare in modo vitale quelle opere che si propongono a giustificazione della validità pittorica e poetica della sua opera, oltre le formule e i precetti che il Cigoli, da Galileo stimato «il primo pittore dei nostri secoli» forniva agli scolari: «si doveva solo amare le bellezze umane per l’utilità dell’arte acciò scelto il bello dal bello si imitasse nel più perfetto della natura».
Possibilità di aperture vive, già indicate dagli affreschi con S. Vincenzo Ferrer, eseguiti dal Cardi ventenne con gli occhi fissi al Pontormo e al Bronzino e poi documentate, per esempio, nel particolare bellissimo dell’angelo affacciato in alto tra le frasche di fantasia e di freschezza settecentesche, che nel S. Francesco che le stigmate; nei tipici putti della Madonna del rosario di Pontedera; nell’invenzione delle tre virtù celesti distese tra le nuvole dominanti il San Girolamo nello studio; nelle acute e preziose compiacenze coloristiche di Sisara e Gioele; nella caduta a perpendicolo degli angeli (Venturi dice «per un residuo di dinamismo michelangiolesco») nel Martirio di Santo Stefano di Pitti e in quel bozzetto per il Martirio di Santo Stefano, «balenante di illuminazioni» che certo il quadro più bello e più espressionisticamente vivo e valido della mostra, testimonianza, ora che l’attribuzione è pressochè concordemente accettata, delle qualità in potenza del Cigoli.
Ben poco il Cigoli prese dal Caravaggio durante la prima permanenza e poi nel definitivo soggiorno a Roma, perchè non era certo in grado d’intenderne la lezione d’astratto rigore formale: e probante a questo proposito, il confronto dell’Ecce Homo di Pitti, che prese parte al famoso concorso del cardinale Massimi, con l’ Ecce Homo caravaggesco, delle collezioni comunali genovesi, che uscì battutissimo nello stesso concorso.
La mostra stata completata con una sessantina di disegni, di un’immediatezza e d’una rapidità di sintesi che ben di rado i dipinti conservano e con la documentazione del Cigoli architetto, presentata da un ampio studio di Luciano Berti.
A illustrazione dell’ambiente nel quale il Cigoli si formò, sono state esposte opere di Federico Barocci, Alessandro Allori e Santi di Tito, i maestri, di Jacopo Ligozzi, apportatore di novità veneziane, di Bernardino Poccetti, del sereno ed elegante Empoli, di Aurelio Lomi, di Andrea Boscoli, il più progredito forse della scuola e il più raffinato pittoricarnente, del Passignano, di Gregorio Pagani, in gioventù inseparabile compagno del Cigoli, di Andrea Comodi, di Agostino Ciampelli, di Fabrizio Boschi, di Francesco Curradi, di Giovanni Bilivert. seguace ed aiuto del Cigoli, di Cristofano Allori, riduttore del manierismo in termini di addolcita e signorile espressione, di B. Lupicini, di Matteo Rosselli, di Sigismondo Coccapani, di Domenico Fetti, che fu allievo del Cigoli e mantenne con il maestro rapporti che la critica tende ora a valutare più debitamente.