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Sergio Dangelo, Il paese del male agli occhi, 1963, tecnica mista su tela, 60 x 80 cm (collezione privata).

IL SURREALISMO

TRA VISIONI ONIRICHE E IMPEGNO, UNA QUERELLE CHE ANCOR OGGI DIVIDE LA PRODUZIONE ARTISTICA CONTEMPORANEA

DI STEFANO PIZZI

 

L’epoca e le origini

Comprendere al meglio l’itinerario della fantastica stagione surrealista ci impone, naturalmente, di evidenziarne i contesti in cui storicamente e socialmente si è sviluppata vieppiù, inquadrandola nel più ampio possibile panorama storico e culturale internazionale.

Gli anni in cui germoglia sono i cosiddetti ruggenti anni Venti, la città è Parigi, allora capitale nevralgica dei saperi e delle espressioni artistiche dell’Occidente, il pregresso è la fine del primo tragico conflitto mondiale, la contemporaneità è connotata dalla ripresa dell’economia, dallo sviluppo delle nuove tecnologie, dalla voglia di vivere. Il seme è innestato da Dada, il contorno è segnato dallo sviluppo della fotografia, del cinematografo, dei nuovi linguaggi letterari e artistico-visivi, da una ferma presa di coscienza sociale, dall’influenza della psicoanalisi: la regia è di André Breton.

 

Dada

Dada nasce nel 1916 a Zurigo, in pieno periodo bellico, per volontà di un gruppo di giovani di varie nazionalità rifugiati in Svizzera per non venire chiamati alle armi o per motivi di studio.

Tristan Tzara, Marcel Janco, Hans Arp, Hugo Ball, Richard Huelsenbeck costituiscono il nucleo storico di quello che diventerà il movimento più provocatorio delle avanguardie del Novecento germogliando ben presto negli Stati Uniti, a New York nel 1917 con Duchamp, Picabia, Cravan, Man Ray; in Germania a Berlino e Colonia nel 1918 con Ernst, Grosz, Heartfield, Baader, HÖch, Hausmann; in Francia a Parigi nel 1919 con Bréton, Picabia tornato dagli States, Aragon, Éluard, Soupault, Ribemont-Dessaignes; coinvolgendo tanti altri artisti, scrittori, architetti e pensatori in un impeto di ribellione nei confronti della guerra e dei valori sociali imposti.

Dada, in sostanza, si manifesta come uno spirito di rivolta libertaria senza dogmi estetici e senza confini, è una performance continua, contro tutto, contro tutti e, ça va sans dire, anche contro Dada.

 

Parigi, la nascita, le due anime

Parigi accoglie, abbraccia e cavalca Dada con impeto e passione ma, come anticipato in apertura, gli anni Venti pongono nuove questioni: sociali, politiche ed espressive nei confronti delle quali il Dadaismo non riesce, proprio per la sua natura totalmente anarchica, provocatoria e scandalistica, a formulare pregnanti apparati teorici sovrastrutturali che propongano alternative alle dinamiche strutturali e agli indirizzi ideologici più che conservatori che stanno prendendo piede in Europa.

Da una costola di Dada, da un suggerimento di Apollinaire e dalla lucidità di Bréton nasce quindi il Surrealismo che, fin da subito, manifesta le sue intenzioni di espletare un’attività militante nel sociale con intenti rivoluzionari.

Il pensiero di Karl Marx e gli studi e le ricerche di Sigmund Freud sono i due fari di riferimento del movimento surrealista che andranno a costituire nel tempo due linee teoriche differenti, che Bréton cercherà sempre di tenere unite, ma che nel corso degli anni presenteranno il conto non solo al Surrealismo, ma a tutti coloro che operano nell’ambito espressivo e che ancor oggi divide il mondo artistico e intellettuale.

Da una parte chi promuove la figura dell’autore libero e ancorché connotato dalla sua aura romantica slegata dalle questioni materiali, dall’altra quella dell’impegno, della partecipazione alla vita sociale, della volontà di cambiamento anche con l’organicità a un ideale.

È il perenne confronto tra individuo e collettivo, tra arte per l’arte e arte sociale che, paradossalmente, si consuma in una dialettica tra due precisi sogni: quello fine a se stesso e quello rivoluzionario.

Verso la metà degli anni Venti gli elementi più di spicco del movimento entrano nel Partito Comunista e si dichiarano in linea con gli indirizzi della Terza Internazionale, anche se pochi anni dopo, a seguito di vari screzi con il Partito, se ne allontanano pur mantenendo fede al pensiero marxista e perseguendo una militanza politico-culturale che sfocerà in un vivido antifascismo e li vedrà in futuro concretamente impegnati nella guerra di Spagna contro il fronte franchista.

 

Il manifesto, l’automatismo psichico e i linguaggi artistici visivi

Non va trascurato che la crisi economica internazionale, che troverà il suo apice nel 1929 colpendo soprattutto gli Stati Uniti, determina in Europa la nascita in politica di posizioni tristemente reazionarie che, relativamente al caos provocato dal primo grande fallimento del capitalismo, propongono, sostenute soprattutto dalla piccola borghesia, un ritorno all’ordine sia nella struttura che nella sovrastruttura.

Va da sé che i surrealisti non trovano la qual cosa molto digeribile, e qui il genio di Bréton trova ulteriormente il modo di mantenere unite le due anime del movimento dandone opportunamente, nella prima stesura del Manifesto del Surrealismo apparso nel 1924, una precisa indicazione del suo significato, e cioè che il surreale si manifesta concretamente nel momento del fare, senza progetto e senza ragione, originando una pratica espressiva detta “automatismo”.

Certo, tale espletamento risultava più semplice per i poeti e gli scrittori, che erano tra l’altro in maggioranza tra i firmatari, ma per le arti visive la questione risultava più complessa poiché probabilmente solo Arp, Masson e Miró, in quanto aniconici, rientravano in questa linea, non riuscendo però a trasmettere nella rappresentazione quell’idea di onirismo e al contempo di attaccamento alle questioni del reale costituenti l’anima duale del gruppo.

È il momento in cui entra in gioco l’opera di quel — già grande — maestro internazionale, culturalmente nomade di formazione ed espressione, che era Giorgio de Chirico.

Per Bréton l’opera di de Chirico rappresenta ciò a cui bisogna forzatamente guardare, le sue famose “Piazze d’Italia” iniziate addirittura negli anni Dieci diventano quindi un punto di riferimento figurale del fare pittura surrealista.

Pittura della quale, probabilmente, Ernst è stato l’interprete più esaustivo benché autori come Dalí, Tanguy o Magritte abbiano più inciso visualmente nella memoria collettiva, grazie anche a una parte della critica che per anni ha inquadrato le fenomenologie dell’arte esclusivamente dal punto di vista estetico e non sociale e sociologico.

Vero è che gli artisti avvicinatisi al e avvicendatisi nel Surrealismo sono numerosi, dal già citato de Chirico a Picasso, Brauner, Gorky, Matta, Cam, Domínguez, Oppenheim, Ensor ecc., personaggi autorevoli e tutti di grande pregio ma con personalità e linguaggi decisamente distanti tra loro. La comunanza di questi artisti, pertanto, dal punto di vista espressivo non risulta essere quella esteticoformale, quanto l’atteggiamento ideologico e critico verso l’esistenza.

Permane comunque quantomeno curiosa la questione che, quando comunemente si pensa o si parla di Surrealismo, sono proprio le opere artistico-visive quelle che la memoria focalizza subito: non vengono alla mente i contrasti sociali, e men che meno le poesie di Bréton o Éluard, o gli scritti di Artaud, Desnos e Péret o il cinema di Buñuel, che in assoluto trasmette più di ogni altra forma artistica la questione onirica.

Quest’ultimo infatti, grazie al racconto visivo del film che si snoda temporalmente, pone in risalto, tramite la mimica degli interpreti, la direzione della fotografia e la regia, gli stati d’animo dei personaggi in relazione ai contesti in cui si muovono.

Impegno e lacerazioni in sostanza, tra le avanguardie storiche del Novecento, quella surrealista è stata la più politicizzata, pensiamo anche solo alla rivista del movimento “La Révolution Surréaliste” che, all’inizio del 1930, tramuta il proprio nome in “Le surréalisme au service de la révolution”, permanendo sempre e comunque in balia di un’identità binaria, che originerà negli anni successivi a prese di distanza: Aragon ed Éluard, nonché a varie espulsioni di chi non condivideva la linea dell’impegno come Artaud, Soupault, Desnos, Leiris e Queneau.

Per non parlare dell’autentico processo fatto nel 1934 a Dalí, reo di non aver mai preso una precisa posizione politica e di non aver criticato il fascismo, la cui condanna sprezzatamente infamante, redatta di proprio pugno da Bréton, fu l’anagramma coniato con il suo nome: “Avida dollars”.

Si incrina ineludibilmente cosi la fulgida traiettoria del sogno surrealista, che comunque persegue con attività varie sino alla grande mostra del 1938 alla GaIerie des Beaux-Arts di Parigi, vedendo però svanire l’impeto collettivo iniziale segnato anche dalle scelte militanti di Bréton che, nello stesso anno, raggiunge Lev Trotsky esule e ospite di Diego Rivera e Frida Kahlo in Messico, dove stende il manifesto “Pour un art rivolutionnaire indépendant”.

Nel corso del secondo conflitto mondiale buona parte dei surrealisti sono a New York, dove il loro pensiero automatista lascerà un incisivo segno, facilmente riscontrabile nella pittura di artisti quali Gorky, Pollock, Kline e in diversi altri protagonisti gestuali dell’Espressionismo astratto americano.

La visione surrealista comunque, benché oramai forzatamente diramatasi anche per i mutamenti storici e politici postbellici, permane relativamente viva fino agli anni Sessanta, oltre che in Francia, Germania e Stati Uniti, in Paesi quali il Giappone, l’Inghilterra, il Belgio, la Cecoslovacchia e l’Italia, in forme e modalità espressive a volte collettive, in altri casi indipendenti, ma più legate alle questioni poetiche ed estetiche che non ideologiche.

 

L’appendice milanese

Un contesto decisamente particolare si rivelerà quello milanese dove i pittori Nucleari, Baj e Dangelo, iniziano fin dagli anni Cinquanta una serie di rapporti con la realtà parigina. Enrico Baj soggiornerà spesso nella capitale francese, anche perché membro del gruppo Patafisico, e avrà contatti con Bréton, Queneau, Ernst, Duchamp e altri partecipando a riunioni e a mostre surrealiste.

Molto attivo, sempre a Milano e in concordanza con Baj e Dangelo, è l’intellettuale, collezionista e gallerista Arturo Schwarz, già alfiere del pensiero internazionalista trotskysta e appassionato del Surrealismo e dei suoi autori, che nel proprio spazio propone tra le altre le esposizioni di: Duchamp, Man Ray, Ernst, Janco, Picabia.

Doveroso quindi citare la mostra “Surrealisti italiani” del 2005 presso la Galleria Nazionale di Arte Modernaa Roma, a cura di Mario Ursino e Marcella Cossu, con opere di: Enrico Baj, Guido Biasi, Corrado Cagli, Bruno Capacci, Fabrizio Clerici, Sergio Dangelo, Lucio Del Pezzo, Gianni Dova e Alberto Martini, donate a suo tempo proprio da Schwarz.

Altre figure di artisti italiani potrebbero in futuro venire inserite in eventuali pubblicazioni, o esposte in occasione di mostre sul Surrealismo nostrano, una tra tutte, benché slegata dal punto di vista ideologico ma di alto valore espressivo surreale, quella di Luca Crippa, ben documentata da un’esposizione del 2022 in più sedi a Seregno, sua città natale, a cura di Carlo Franza.

Per alcuni critici d’arte contemporanea la stagione surrealista non avrebbe mai termine e l’interessante pubblicazione degli Editori Riuniti del 2002 Surrealismo 1919-1969. Ribellione e immaginazione, di Paola Dècina Lombardi, la inserisce in uno specifico cinquantennio approfondendo giustamente più le questioni ideali e letterarie.

Per quello che può contare, chi scrive può testimoniare che Sergio Dangelo in una serata primaverile del 2019, al bar Jamaica di Milano, quartiere di Brera, rifaceva giuramento di fedeltà assoluta al Surrealismo.

 


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