UN “LIBRO DI RICORDI” DI ALESSO BALDOVINETTI
APPENA RITROVATO
di HERBERT P. HORNE
Da: The Burlington Magazine
Number IV (pagg. 22 – 32)
1903
Traduzione di Andreina Mancini
Adattamento per il web a cura di Paolo Pianigiani
PARTE PRIMA
Tra i libri dello Spedale di San Paolo, a Firenze, c’è un volume contrassegnato in copertina dalla dicitura “Testimenti” e dalla lettera B. Contiene la registrazione di tutti i testamenti tra il 1399 e il 1526 in cui l’ospedale è stato in qualche modo beneficiario; e al foglio 16 recto c’è la seguente annotazione:
“Alexo di Baldovinecto Baldovinetti ha fatto oggi, 23 marzo 1499, una donazione al nostro ospedale di tutti i suoi beni, personali e reali, dopo la sua morte, con l’obbligo che l’ospedale mantenga Mea, la sua domestica, finché vivrà; [il testamento era stato] rogato da Ser Piero di Leonardo da Vinci, notaio di Firenze, il giorno suddetto.” “Alesso morì l’ultimo giorno di agosto 1499; fu sepolto nella sua tomba in San Lorenzo e l’ospedale rimase erede dei suoi beni. Che Dio gli perdoni i suoi peccati!”1
Milanesi, che nelle sue note al Vasari cita testualmente questo “ricordo”, non senza qualche piccolo errore, afferma che il volume in cui esso compare è conservato nell’Archivio di Stato di Firenze; mentre gli archivi dell’ospedale si trovano oggi nell’Archivio di Santa Maria Nuova, dato che il San Paolo è stato unito a quest’ultimo ospedale dal Granduca Pietro Leopoldo, nel 1783 circa.2
A prima vista, questo “ricordo” non sembrerebbe confermare la storia che Vasari racconta di Alesso e dei suoi rapporti con le autorità del San Paolo.
Vi si legge solo che Alesso fece una donazione all’ospedale di tutti i suoi beni dopo la morte, a condizione che la sua fedele domestica, Mea, fosse alloggiata, vestita e nutrita per tutta la vita; mentre Vasari, al contrario, afferma che il pittore stesso divenne un degente di San Paolo.
- Appendice, Doc.I
- Vasari, ed. Sansoni, Vol. II, p. 597, nota 3, p.22
“Alesso”, dice, ”visse ottant’anni; e quando cominciò ad invecchiare, desideroso di potersi dedicare agli studi della sua professione con animo tranquillo, entrò, come spesso fanno molti uomini, all’Ospedale di San Paolo; e per essere forse accolto più volentieri e trattato meglio (anche se potrebbe essere accaduto per caso), fece portare nelle sue stanze, nell’ospedale, una grande cassa, comportandosi come se contenesse una bella somma di denaro: al che il direttore e gli altri operatori dell’ospedale, credendo che fosse così, gli riservarono la più grande gentilezza del mondo, poiché sapevano che aveva fatto una donazione all’ospedale di tutto ciò che fosse stato trovato in suo possesso alla sua morte. Ma quando Alesso morì, vi furono trovati solo disegni, cartoni e un piccolo libro che illustrava come fare le tessere per il mosaico, insieme allo stucco e al metodo per lavorarle.”3
3. Vasari, ed. 1568, Vol. I, p. 381
L’apparente discrepanza tra il “ricordo” nei libri di San Paolo e il resoconto del Vasari mi ha spinto a cercare, e non senza successo, l’atto con cui la proprietà di Alesso passò all’ospedale. Ho scoperto che sia il nome del notaio che la data di esecuzione dell’atto sono riportati in modo errato nel “ricordo” sopra citato.
L’atto fu rogato da Ser Piero di Antonio di Ser Piero da Vinci, padre di Leonardo da Vinci, ed eseguito il 6 marzo 1497-8. Con questo atto Alesso, ex titulo et causa donationis, “irrevocabilmente donò e lasciò in eredità, durante la sua vita, all’Ospedale dei Pinzocheri del terz’ordine di San Francesco, altrimenti chiamato Ospedale di San Pagholo, e ai poveri di Cristo che vivono in detto ospedale in quel momento”, ecc. “tutti i suoi beni, reali e personali, presenti e futuri, ovunque situati o esistenti”, ecc. riservando per se stesso l’uso e l’usufrutto di detti beni” ecc.”vita natural durante”.
I “rogiti” di Ser Piero da Vinci per l’anno 1498 non sono stati conservati tra i “protocolli” di quel notaio, ora nell’Archivio di Stato a Firenze; e quindi non è più possibile dire a quali condizioni, se ci sono, la donazione sia stata fatta: ma si deve presumere, sulla base del ricordo citato, che essa comportasse l’obbligo da parte dell’ospedale di mantenere Mea, la sua domestica, per tutta la vita. Il 17 ottobre 1498, Alesso eseguì quella che tecnicamente è nota come ‘renuntiatio’, che fu ugualmente trascritta da Ser Piero da Vinci.
Questo secondo documento, che inizia richiamando il precedente atto di donazione nei termini sopra citati, stabilisce come, in quel giorno, Alesso, “per legittime e ragionevoli cause di moti che influenzano, come si afferma, la sua mente, e per sua semplice, libera e propria volontà”, etc, “ha rinunciato al detto uso e usufrutto, espressamente riservato a se stesso nella suddetta donazione, e liberamente ha rimesso e rilasciato il detto uso e usufrutto al suddetto ospedale, e ai poveri di Cristo che abitano nel suddetto ospedale,” etc.
Il testo di questo documento, che è conservato nell’Archivio di Stato di Firenze, è riportato in calce a questo articolo.4
4. Appendice, Doc. II
Esso ci permette di trarre una sola conclusione: che quando il pittore stipulò l’atto di donazione, il 16 marzo 1497-8, era rimasto senza moglie né figli e che prevedeva solo due eventualità per le quali avrebbe provveduto dopo la sua morte – la salute della sua anima e il mantenimento della sua fedele domestica, Mea.
Alesso si era sposato tardi. Dalla “Portata al Catasto”, da lui resa nel 1470, risulta che a quell’epoca non era ancora sposato e che non possedeva beni immobili, ma affittava una casa nel “popolo” di San Lorenzo, a Firenze, descritta nelle sue successive “Denunzie”, come situata nella Via dell’Ariento, al Canto de’ Gori.5
5. Appendice, Doc.IV
In un’altra ‘Denunzia’ resa nuovamente nel 1480, Alesso descrive così la sua famiglia:
“Alesso Baldovinetti, di cui sopra, di 60 anni, pittore; Monna Daria, sua moglie, di 45 anni; Mea, sua domestica, di 13 anni”.
In realtà, Alesso aveva 63 anni. Essendo Baldovinetti nato il 14 ottobre 1427, Milanesi, tra l’altro, nelle sue note al Vasari, attribuisce alla moglie di Alesso il nome di Diana, in errore per Daria.6
6. Vasari, ed. Sansoni, Vol. II, p. 601
Secondo la stessa ‘Denunzia’, il pittore possedeva a quel tempo un appezzamento di terreno di dodici staiora, situato nel “popolo” di Santa Maria a Quinto, e un altro appezzamento di sette staiora, nello stesso “popolo”, acquistato nel 1479 con una parte della dote della moglie. È quindi probabile che a quell’epoca non fosse sposato da molto tempo”.7
7. Appendice, Doc.V
Da una Denunzia ancora più tarda in cui viene calcolata la ‘Decima’ del 1498, anche se la dichiarazione stessa fu probabilmente redatta nel 1495, risulta che egli possedeva, oltre ai due appezzamenti di terreno nel “popolo” di Santa Maria a Quinto, un terzo appezzamento di oltre undici staiora, nel contiguo “popolo” di San Martino a Sesto, sulla strada per Prato.
A quel tempo abitava ancora nella stessa casa al Canto de’ Gori; e godeva anche degli affitti di due botteghe, con soprastanti case di abitazione, che gli erano state cedute vita natural durante dai Consoli dell’Arte dei Mercanti, il 26 febbraio 1483-4, in pagamento del suo “magistero e esercitio et trafficho”, per aver restaurato i mosaici del Battistero di San Giovanni.8
8. Appendice, Doc.VI
Lo Spedale di San Paolo, la cui bella loggia con le decorazioni di Andrea della Robbia è ancora visibile in piazza di Santa Maria Novella, era in origine un ospedale per la cura dei malati; come tale è citato in un documento del 1208.9
9. G. Richa, Chiese Fior. Vol. III, p. 122
Dal momento in cui si dice che San Francesco stesso ha alloggiato a San Paolo, l’ospedale sembra sia stato amministrato dai francescani, chiamati nei documenti “Fratres tertii Ordinis de Penitentia S. Pauli”.
Nel corso del XIV secolo, la casa subì alcune modifiche e nel 1398 fu decretato dalla Signoria che “il luogo non fosse più un ospedale, ma una casa dei Frati Pinzocheri del terzo ordine”.10
10. l.c., p. 124
Nonostante ciò, i membri della comunità continuarono a dedicarsi alla cura dei malati e un breve papale del 1452 stabilì che le entrate della casa fossero destinate agli infermi.11 In un primo periodo della storia del San Paolo si parla di Pinzochere, cioè di donne legate alla comunità, senza dubbio per il servizio dell’ospedale; ma a differenza degli uomini della casa, che sono invariabilmente chiamati Frati Pinzocheri, esse non avevano il titolo di “Monache”: da questo Stefano Rosselli deduce che in origine esse non avevano alcuna parte nel governo della casa.12
11. l.c.,p.125
12. Cod. Magliabechiano; XXVI, 23; Fol. 810 recto a 811 recto
Tuttavia, per un motivo non molto chiaro, sembra che verso la fine del XV secolo i Frati Pinzocheri si siano estinti, lasciando alle donne il possesso dell’ospedale. Dalle testimonianze che Rosselli e Richa riportano, sembra che nel 1497 l’Ospedale San Paolo fosse controllato e amministrato interamente dalle Pinzochere; e nel documento del 1499, citato più avanti, è chiamato “lo spedale di pizichora del terzo ordjne dj san franchesco”.13
Da ciò dobbiamo concludere che, quando il 17 ottobre 1998 Alesso rinunciò all’uso e all’usufrutto dei suoi beni, entrò nell’ospedale di San Paolo non come membro della comunità, ma come un malato che non cercava altro sulla terra che essere curato durante il breve arco di vita che gli rimaneva.
Morì dieci mesi dopo, il 29 agosto 1499, e fu sepolto nella sua tomba in San Lorenzo.14
13. Appendice, Doc. VIII
14. Appendice, Doc. III
L’ospedale di San Paolo probabilmente ereditò, insieme agli altri beni di Alesso, tutti i suoi cartoni e disegni, come afferma il Vasari: certamente, come sappiamo, entrò in possesso dei suoi libri e delle sue carte.
Il piccolo trattato sull’arte del Mosaico è andato perduto da tempo; ma Milanesi ha affermato in un noto passo della sua opera sul Vasari, che ai suoi tempi il manoscritto autografo di alcuni “Ricordi” di Alesso Baldovinetti esisteva ancora, nell’Archivio di Santa Maria Nuova, fra i libri dell’ospedale di San Paolo.
Aggiunge che questi “Ricordi furono pubblicati a Lucca nel 1868, dal dottor Giovanni Pierotti, per le nozze Bongi e Ranalli.” 15
15. Vasari, ed. Sansoni, Vol. II p. 595, nota
Pochi di quegli innumerevoli opuscoletti con cui gli Italiani, colti e non, si dilettano a celebrare i matrimoni dei loro mecenati, amici o parenti, sono più difficili da trovare del piccolo opuscolo di dieci pagine, in un involucro di carta verde, al quale Milanesi allude.
Il frontespizio recita:
“Ricordi di Alesso Baldovinetti, pittore fiorentino del secolo xv. Lucca. Tipografia Landi. 1868.”
Purtroppo in questo opuscolo è riportata solo una parte del manoscritto di Baldovinetti. Gli estratti, che riempiono meno di metà delle venti pagine, sono riportati in parte nel testo e in parte in un estratto dell’opera. Il resto dell’opuscolo contiene la prefazione introduttiva e le note del dottor Pierotti.
Sono passati alcuni anni da quando ho tentato per la prima volta di trovare il manoscritto originale di questi “Ricordi” nell’Archivio di Santa Maria Nuova, per poi scoprire che non ero il primo studioso di pittura fiorentina a cercare invano il volume.
Sia che fosse stato preso in prestito da Pierotti, o semplicemente fosse stato smarrito, o in che modo fosse scomparso, nessuno sapeva dirmelo. Non molto tempo dopo questo tentativo, tuttavia, mi imbattei in quello che si rivelò un indizio sulla sua storia.
Cercando tra le Carte Milanesi, la voluminosa raccolta di manoscritti che il celebre commentatore del Vasari ha lasciato alla Biblioteca Comunale di Siena, mi imbattei in una serie di estratti dai ‘Ricordi’ di Baldovinetti, scritti di pugno da Milanesi, con il titolo:
“Estratto del libro dei Ricordi di Alesso Baldovinetti autografo ‘essitente’ nell’ Archivio dello Spedale di Santa Maria Nuova di Firenze.—Libri dello Spedale di San Paolo, 2 Febb°. 1850”.
Confrontando questi estratti con l’opuscolo di Pierotti, ho constatato che le due copie coincidevano parola per parola. Era evidente che Pierotti si era servito del manoscritto di Milanesi (lo dichiara infatti nella sua nota conclusiva), e che potrebbe non aver mai visto il manoscritto originale.
Lo scorso autunno, avendo occasione di fare alcune ricerche nell’Archivio di Santa Maria Nuova, con l’amico Sir Domenic Colnaghi, per il suo “Dizionario dei pittori fiorentini”, ho colto l’occasione per ripetere la ricerca del volume mancante.
Sullo scaffale superiore di una delle postazioni che contengono i libri e le carte dell’ospedale di San Paolo, mi sono imbattuto in una “filza” etichettata come “Libri Diversi” e piena di libri contabili vari dell’ospedale, soprattutto del XV e XVI secolo.
Tra questi, in verticale, c’era un piccolo libro di quarantasette pagine, rilegato in una copertina in pergamena con la scritta:
RICHORDI 16
B
16. Appendice, Doc.VIII
Sul recto del primo foglio era scritto:
“1470. In questo libro terrò nota di tutte le spese che sosterrò per la cappella dell’Altare Maggiore di Santa Trinita, cioè di oro, azzurro, verde, lago, con tutti gli altri colori e spese che si sosterranno per conto della detta cappella; e così potremo rimanere d’accordo [io e] Messer Bongiani Gianfigliazi, committente dell’opera, e patrono della detta cappella, come appare da una scrittura che conservo, sottoscritta di suo pugno”.
I fol. 2 tergo, e fol. 3 recto, erano pieni di annotazioni relative all’acquisto di colori e di altri materiali per i lavori della cappella, e il fol. 3 tergo conteneva altre due annotazioni della stessa mano; dopo di che era scritto, da una mano diversa:
“Qui seguono i registri dell’ospedale delle Pinzochere del terz’Ordine di San Francesco, scritti da Giovanni di Ser Antonio Vianizzi.”
Il resto del libro era pieno di annotazioni relative all’ospedale di San Paolo, la prima delle quali registrava un pagamento di ventitré lire, effettuato dall’ospedale il 19 ottobre 1499, a Luca di Alesso Baldovinetti.
Confrontando i Ricordi relativi a Santa Trinita con la “Portata al Catasto”, resa da Alesso nel 1471, risulta evidente che entrambi i documenti sono di mano del pittore.
Della “Portata al Catasto”, resa da Alesso nel 1480, esistono due copie della stessa mano; ma non sembrano essere state scritte dal pittore stesso, anche se Milanesi ha riprodotto parte di una di esse, nella sua “Scrittura di Artisti Italiani”, Firenze, 1876, vol. 1, n. 74, come esempio della sua scrittura.
Inoltre, questo manoscritto, che chiamerei “Libro B”, getta una luce sulla natura del volume mancante, il “Libro A”.
Nel caso del “Libro B”, quello che senza dubbio accadde è che le buone Pinzochere, esaminando i beni di Alesso dopo la sua morte, trovarono un libro di conti di cui erano state utilizzate solo le prime tre pagine. Con giusto spirito di economia, decisero di utilizzare il resto del libro per la contabilità del loro ospedale: ma invece di strappare le pagine con i “Ricordi” di Alesso, li lasciarono fortunatamente inalterati; il loro procuratore aggiunse la nota che ho citato sopra.
La stessa cosa probabilmente è accaduta nel caso del “Libro A”. Dagli estratti che Milanesi ha riportato, risulta che i “Ricordi” di Alesso riempivano solo sedici pagine di un volume, che certamente non può aver contenuto un numero di pagine inferiore a quello del “Libro B”.
Con questo indizio per il suo ritrovamento, lascio ai miei amici e rivali di Firenze il compito di continuare la ricerca di un volume per la cui perdita ogni vero studioso di pittura italiana deve rammaricarsi.
La storia della Cappella Maggiore di Santa Trinita offre un curioso esempio del processo tardivo con cui molte delle chiese fiorentine e delle loro cappelle sono state portate a compimento.
L’attuale chiesa di Santa Trinita fu iniziata verso il 1250, ma molte delle cappelle laterali rimasero incompiute fino al XV secolo, e tra queste la Cappella Maggiore. Il 1° novembre 1371, l’abate di Santa Trinita, inter missarum solemnia, fece un appello a molti dei principali parrocchiani, riuniti per la messa, affinché contribuissero alle spese necessarie per l’erezione della Cappella Maggiore.17
17. A. Cocchi. Le Chiese di Firenze, Firenze. 1903. Vol. l, p. 180.
Sembra che i lavori siano stati eseguiti con grande lentezza, dal momento che è documentato che nell’anno 1463 la cappella era costruita solo a metà. Per portarla a compimento, l’abate, riuniti i parrocchiani in chiesa, comunicò che, mancando il denaro per terminare l’opera, sarebbe stata concessa la licenza di farlo alla famiglia che fosse stata in grado e disposta a sostenere la spesa; così, il 4 febbraio dello stesso anno, il patronato della cappella fu concesso per acclamazione dei parrocchiani a Messer Bongianni Gianfigliazzi e ai suoi discendenti.18
18. Appendice, Doc. IX
I Gianfigliazzi erano un’antica famiglia fiorentina, stimata non poco nella gestione degli affari e delle armi durante gli ultimi due secoli della Repubblica. Ugolino Verino li celebra nel suo poema latino, “De Illustratione Urbis Florentiae”:
“Non genus externum est: agro venere paterno,
Janfiliazze, tui, si vera est fama, priores.
Protulit illustres equites generosa propago.19
(La tua stirpe non è straniera: dalla terra paterna vennero i tuoi antenati, Gianfiliazzo, se la fama è vera. La nobile discendenza ha generato illustri cavalieri.)
Secondo Piero Monaldi, i Gianfigliazzi discendevano e presero il nome da un certo “Ioannes filius Acci”, che viene citato in un trattato concluso tra i senesi e i fiorentini nell’anno 1201.20
19. l.c., Lib.III, ed.1790, p.122
20. Firenze: Biblioteca Nazionale. Codice Il, I. 129: Storia della nobilità di Firenze; scritta da Piero di Gio. Monaldi. [c. 1626]
Oltre a cavalieri di Malta e Santo Spirito, questa famiglia vantava dieci gonfalonieri della Repubblica e trenta priori; il primo dei quali ricoprì la carica nel 1345. Gherardo Gianfigliazzi fu gonfaloniere nel 1462; e messer Bongianni, suo fratello, nel 1467 e di nuovo nel 1470.
Quest’ultimo, “magnificus miles” come viene definito nei documenti, era un “ cavalier spron d’oro”, ed era famoso ai suoi tempi come capo delle forze fiorentine. Fu più volte nominato ambasciatore della Repubblica fiorentina e uno dei Dieci di Balìa.
Nel 1471 fu uno dei sei “oratori” inviati a congratularsi con Sisto IV per la sua elezione a pontefice e nel 1483 fu nominato “commessario” nella guerra contro i Genovesi, che si concluse con la presa di Sarzana. Alesso non era l’unico artista famoso che questa famiglia patrocinava.
Il loro scudo, scolpito con un leone rampante da Desiderio da Settignano, è ancora visibile sulla facciata del loro palazzo sul Lungarno Corsini, a Firenze”.21 Giuseppe Richa afferma che l’atto di concessione del patronato della Cappella Maggiore di Santa Trinita ai Gianfigliazzi fu rogato da ser Pierozzo Cerbini il 3 febbraio 1463-4, cosa che si può ben credere;22 ma aggiunge che lo “ius patronale” fu conferito alle persone di messer Bongianni e messer Gherardo.23
21. Vasari. ed. 1568. Vol. I. p. 417
22. L’ho cercata invano nel protocollo di quel notaio, conservato nell’Archivio di Stato di Firenze
23. G. Richa, Chiese Fior. Vol. III p. 177
Quest’ultima affermazione, tuttavia, sembrerebbe errata, poiché Gherardo a quell’epoca era già morto, come si apprende dall’iscrizione sulla lastra sepolcrale (una delle più belle del genere a Firenze), ancora visibile sul pavimento della cappella, ma ora parzialmente coperta da un organo corale:
GHERARDO . IANFILIATIO . DE . SE . FAMILIA . ET . PATRIA . BENEMERITO BONIOANNES] . FRATRI . PIENTISSIMO . SIBI . IDVS . SEP . AN . SAL . MCCCCLXIII
(“A Gherardo di Gianfiliazzi, benemerito della sua famiglia e della sua patria, il devotissimo fratello Bongianni [pose questo monumento] per sé. Il giorno delle Idi di settembre, anno della salvezza 1463.”)
Messer Bongianni sembra aver iniziato subito il lavoro di finitura della cappella. La sua parte di lavoro può ancora essere individuata: la volta, con i suoi pesanti costoloni arrotolati, troppo grandi per le mensole su cui poggiano, è stata chiaramente eretta da lui. Le mensole stesse risalgono probabilmente al XIII secolo. Inoltre, costruì la grande finestra con due luci a tutto sesto e un “occhio”, o luce circolare, al di sopra, che si può ancora vedere nella testata della cappella.
Completata la struttura, si dedicò quindi alla decorazione, che iniziò rivestendo le luci della finestra con vetri dipinti. Alesso Baldovinetti annota, nei suoi “Ricordi”, Libro A, che
“Lionardo di Bartolommeo, detto il Lastra e Giovanni di Andrea, vetraio, mi devono questo giorno 14 febbraio (1465-6) lire 120; le quali somme sono per la pittura di una finestra posta nella Cappella Maggiore di Santa Trinita; e Bongianni di Bongianni Gianfigliazzi ha ordinato che questa finestra sia eseguita dai detti Lastra e Giovanni, maestri vetrai”; e io, Alesso, l’ho disegnato e dipinto per loro, a ragione di quaranta soldi il braccio quadrato: “l’occhio” di sopra essendo stimato con la detta finestra, nella detta somma, e secondo la detta misura”.24
24. Appendice, Doc.VII
Dal “Trattato” di Cennino Cennini risulta che nel XV secolo a Firenze era pratica comune dei ‘maestri di finestre’ non solo assumere pittori per disegnare cartoni per le loro finestre, ma anche per dipingere il disegno sul vetro.
Il “maestro di finestre”, dice Cennini,
“verrà da voi con la misura della sua finestra, sia in larghezza che in lunghezza. Prenderete tanti fogli di carta incollati insieme quanti ne occorrono per la vostra finestra; disegnerete la figura prima a carboncino, poi la delineerete a inchiostro, dopo averla ombreggiata completamente come se la disegnaste su una tavola.
Poi il maestro vetraio prende questo disegno e lo stende su un tavolo o su un piano, grande e liscio, e a seconda di come vuole colorare i panneggi della figura, così, pezzo per pezzo, taglia i vetri, e vi dà un colore fatto di limatura di rame, ben macinato; e con questo colore, pezzo per pezzo, voi procedete con una piccola matita di mina, con una buona punta, a creare le vostre ombre, facendo combaciare le pieghe e le altre parti della vostra figura, un pezzo di vetro con l’altro, proprio come il maestro vetraio li ha tagliati e messi insieme; e con questo colore siete in grado, senza eccezione, di fare sfumature su ogni tipo di vetro”.25
Nel 1616, essendo i vetri disegnati e dipinti da Alesso “tutti rovinati, rotti e rattoppati, in modo tale che non davano luce, se non dove non c’era la rete di schermo, l’insieme delle luci fu ridipinto a spese del monastero e dei committenti della cappella.26
La bella muratura della finestra, tuttavia, disegnata secondo il gusto classico dell’epoca, con lesene finemente lavorate agli stipiti e al montante, è stata restaurata e completata con vetrate moderne durante il recente restauro della chiesa, nel 1890-7.
Dai “Ricordi”, Libro A, di Alesso Baldovinetti, risulta che il pittore fornì ai “maestri di finestre” i disegni per diverse vetrate. Nel 1472 disegnò un’Annunciazione da eseguire in vetro per la chiesa cattedrale di San Martino, a Lucca; e nel 1481 disegnò una finestra per la chiesa di Sant’Agostino, ad Arezzo.27
25. C. Cennini, Il libro dell’Arte, Firenze, 1859, cap. clxxi, p. 122
26. Appendix, Doc. IX
27. Ricordi di Alesso Baldovinetti, Lucca, 1868, pp. 14 e 16
Queste finestre sono andate perdute, ma rimane ancora a Firenze una finestra dipinta che fu senza dubbio eseguita da un cartone di Alesso. Questa finestra, che, per quanto mi risulta, non gli è mai stata attribuita, si trova sopra l’altare della cappella Pazzi, nel primo chiostro di Santa Croce. [Figura 1]
È composta da due luci, una inferiore a testa circolare che contiene la figura intera di Sant’Andrea, patrono della cappella, con le armi dei Pazzi in basso, e una superiore a tutto sesto, o “occhio”, con una figura a mezzo busto di Dio Padre.
Questa finestra offre un buon esempio dell’uso dei colori puri e brillanti che i “maestri di finestre” fiorentini utilizzavano nel XV secolo, e che ai nostri occhi nordici possono apparire grezzi e troppo poco lavorati.
Ma viste, come senza dubbio dovevano essere viste, con tutta la potenza del sole italiano su di esse, i loro colori si fondono e assumono quella qualità che le fa assomigliare a un gioiello e che è distintiva dei migliori vetri dipinti.
La figura di Sant’Andrea è avvolta in una veste verde foglia d’oro, foderata di blu smalto e indossata sopra una veste di un viola caldo e brillante. Il fregio della nicchia dietro la figura è di un viola più freddo, i capitelli di una tonalità robbia; la cupola di un blu smalto e il cielo sullo sfondo di un blu oltremare pieno
La figura di Dio Padre nell’ ‘occhio’ in alto, indossa una veste viola dorata e un manto blu smaltato; e le tende di un viola rossiccio, foderate di verde, che sono sollevate e rivelano dietro la figura un fondo celeste oltremare.
Nel corso del recente restauro della cappella de’ Pazzi, questa cappella è stata riparata, e diversi pezzi di vetro mancanti sono stati ripristinati. Queste riparazioni sono particolarmente evidenti nel vetro azzurro oltremare.
Originariamente l’altare maggiore di Santa Trinita era collocato immediatamente sotto la finestra, nella testata della Cappella Maggiore.
Il suo bel paliotto marmoreo, scolpito con il simbolo della Trinità in rilievo, è stato ritrovato durante il recente restauro della chiesa, nella Cappella della Pura, in Santa Maria Novella, ed è stato nuovamente destinato alla sua funzione originaria.
Per questo altare Alesso, come riporta il Libro A, nell’aprile del 1470, ricevette l’incarico da Messer Bongianni di dipingere una pala d’altare in cui doveva essere raffigurata una Trinità con due santi, San Benedetto e San Giovanni Gualberto, e angeli.
La terminò l’8 febbraio 1471 e ricevette ottantanove fiorini d’oro come compenso per il lavoro.28
Nel 1569 l’altare maggiore fu spostato in avanti e collocato sotto l’arco della Cappella Maggiore; il coro che anticamente si trovava davanti all’altare maggiore, nel corpo della chiesa, fu ricostruito nella cappella, dietro l’altare.
Nel 1671 il crocifisso di San Giovanni Gualberto fu prelevato da San Miniato e collocato sul nuovo altare maggiore; la pala di Alesso fu lasciata appesa nella sua posizione originaria, sotto la finestra del coro, dove era visibile quando don Averardo Niccolini raccoglieva i suoi appunti su Santa Trinita, verso la metà del XVII secolo”.29
28. Appendice, Doc.VII
29. Appendice, Doc. IX
In un secondo momento il quadro fu trasferito in sacrestia e infine, con la soppressione del monastero nel 1808, fu portato alla Galleria dell’Accademia, dove è tuttora conservato, con il n. 159. [Figura II]
È dipinto su una tavola di 7 piedi e 8 pollici e ½ di altezza e 9 piedi e 1 pollice e 3/4 di lunghezza. Dio Padre è seduto al centro della composizione, in mezzo a una gloria di serafini che sorreggono la croce a cui è appesa la figura di Cristo.
Lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, si libra sopra il crocifisso; ai piedi della croce, che poggia per terra, si trova il teschio di Adamo. Nell’angolo in basso a sinistra è inginocchiato San Benedetto, con l’abito del suo ordine; sul lato opposto del quadro è inginocchiato San Giovanni Gualberto.
Negli angoli superiori, due angeli reggono una tenda ricamata di perle, mentre altri angeli si librano intorno, sullo sfondo celeste.
Asciutta, quasi sgradevole nell’insieme e con poco o nulla di quel delicato senso di bellezza sensuale che contraddistingue le prime opere di Alesso, questa pala d’altare è tuttavia una delle produzioni più notevoli della pittura fiorentina del XV secolo. Nell’esecuzione, mostra una padronanza della tecnica che pochi contemporanei di Alesso raggiunsero.
I panneggi, ad esempio, sono lavorati con una ricchezza di colore e di trama che ricorda il lavoro di qualche grande fiammingo. Nella concezione troppo severamente intesa, nella presentazione troppo precisa e con una definizione troppo esigente, questa pala d’altare sembra anticipare qualcosa di quella resa profondamente intellettuale della forma costruita, che Michelangelo porterà poi al suo apice nell’affresco del Giudizio Universale.
Certamente, ci sono pochi esempi più significativi del modo in cui i pittori fiorentini del XV secolo svilupparono la tecnica e la scienza della pittura.
UN “LIBRO DI RICORDI” DI ALESSO BALDOVINETTI
APPENA RITROVATO
di HERBERT P. HORNE
PARTE SECONDA
Da: The Burlington Magazine
Number V (pagg. 167 – 174)
1903
Per una strana coincidenza, i dipinti della “Cappella Maggiore” di Santa Trinita a cui si riferiscono le voci dei “Ricordi di Alesso, Libro B,” sono gli unici che si sono conservati fra tutti gli affreschi della cappella, ad eccezione di alcuni frammenti di lunette sulle pareti laterali. La penultima di queste voci registra l’acquisto di cinabro per le ali dei serafini sull’intradosso dell’arco che porta alla “Crociera”.1
La prima voce del “Libro B” è datata 9 marzo 1470-1; ma secondo l’ estratto di una voce del “Libro A”, Alesso “ricevette l’incarico di dipingere la “Cappella Maggiore” di Santa Trinita da Bongianni Gianfigliazzi, per 200 ducati d’oro, il 1° luglio 1471, e si impegnò a terminare l’opera entro un periodo da cinque a sette anni”.2
Quest’ultima data è senza dubbio quella dell’esecuzione della “scrittura”, sottoscritta per mano di messer Bongianni, che Alesso conservava e a cui fa riferimento nel “ricordo” della prima pagina del Libro B. Nell’intervallo tra queste due date il pittore iniziò i cartoni per le figure dei profeti e gli altri ornamenti della volta.
Il 28 aprile 1471, acquistò “16 quinterni di carta grossa (carta da straccia) in formato reale, a 5 soldi il quinterno, per fare gli ‘spolverizzi’ dei profeti e gli altri ‘spolverizzi’ che si trovano in detta volta”. Gli “spolverizzi” erano propriamente i contorni trasferiti sull’intonaco, per mezzo del cartone punzonato; ma qui, con una figura retorica, Alesso intende chiaramente i cartoni stessi.
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- Appendice, Doc.VIII
- Appendice, Doc.VII
Il metodo più comune per trasferire un cartone era quello di tracciare i contorni, per mezzo di una punta metallica, sull’intonaco fresco, come raccomanda Vasari.3
Il cartone forato sembra essere stato più comunemente impiegato per i ricami e i ‘drappi’.4
Avendo nel frattempo acquistato alcuni colori per il lavoro, Alesso, infine, il 29 agosto 1471, pagò varie somme per spostare le casse contenenti i suoi colori, ecc. nella cappella, e per l’acquisto di pennelli e vasetti in preparazione della pittura vera e propria della volta.
Ci sono due annotazioni per quella data: la prima registra che acquistò “da Bernardino di Ventura, fabbricante di pennelli, 58 pennelli di vaio, tra grossi e fini, l’uno con l’altro, grandi e piccoli”, per un costo di lire 1 soldi 12; la seconda, che spese, “tra pentolini nuovi e vasetti, e setole di maiale e spago da pacchi per fare pennelli di setola, e per il trasporto di cassoni e cavalletti per il lavoro di pittura della detta cappella, lire 3 soldi 5”.
Alesso, tuttavia, non sembra che sia andato molto avanti con la pittura vera e propria della volta fino alla primavera successiva; il 12 aprile 1472, infatti, registra di aver comprato “cinque libbre di azzurro della Magnia (cioè biadetto) per fare il fondo sotto l’azzurro fine, e questo l’ho comprato da Lorenzo di Piero, il pittore, in Borgo Sant’Apostoli, al prezzo di 5 soldi l’oncia”.5
3. l.c., ed. 1568, Vol. I, p. 37
4. C. Cennini, “Il libro dell’Arte”, Firenze, 1859, cap. 141, p. 94
5. Il pittore dal quale Baldovinetti acquistò questo “biadetto” era “Lorenzo dipiero randeglj dipintore in borgho s.apostolo”; così chiamato in una voce dell’anno 1472 nel “Libro Rosso” della Compagnia di San Luca, fol.90 tergo. Questo Lorenzo era, senza dubbio, il Lorenzo dipiero dip[a]pa, dipintore, del popolo di “Santa Maria di Verzaia drento alle mura”, che nel 1498 rese la sua “Portata della Decima” in Gonfalone Drago, Quartiere di Santo Spirito. Egli viveva allora in una casa che aveva comprato nel 1483, situata in Via San Gallo; e aveva anche in affitto “una botegha aduso dipintore, posta in firenze in borgho sant° appostolo enelpopolo di sant°stefano a ponte” – Firenze: Archivio di Stato, l.c Campione 2do N. verde 28, fol. 909.
Questo “biadetto” era probabilmente identico allo “sbiadato” menzionato da Cennini, in un passo in cui dice che “un azzurro come lo sbiadato, e molto simile all’azzurro della Magnia”, può essere fatto con l’indaco e il bianco, “biacca” o “bianco sangiovanni”.6
Sembra che Alesso abbia dipinto a fresco il fondo blu dietro le figure dei profeti sulla volta con questo “biadetto”, usandolo come “letto” per il pregiato azzurro della Magnia, che poi applicò a secco.7
6. Cennini, ed.1859, cap.61, p.37
7. Questo sembra sia stato un metodo molto insolito. I pittori giotteschi solitamente usavano un “letto” di colore rossiccio.
Costava un quinto, o anche meno, del vero azzurro della Magnia e, senza dubbio, gli assomigliava nel colore.
Sembra che l’autentico azzurro della Magnia non sia stato facilmente reperibile a Firenze; e Alesso è generalmente attento a registrare come si è procurato i suoi acquisti.
Il 7 marzo 1470-1, secondo la prima annotazione del “Libro B”, comprò “2 libbre e 9 once di azzurro di Magnia dal Cardinale del Bulletta, al prezzo di 26 soldi l’oncia”; e il 12 dello stesso mese, 4 libbre e 2 once e mezzo, a 33 soldi l’oncia.
Il 31 aprile 1471 comprò 1 libbra e 7 once, “da un tedesco, in una vescica”, a 31 soldi l’oncia. “Il 25 settembre 1472”, annota Alesso, “comprai 2 libbre di azzurro di Magnia da Giovanni d’Andrea, vetraio, al prezzo di 25 soldi l’oncia; disse che apparteneva a un suo conoscente, un corriere, che l’aveva portato da Venezia: il detto Giovanni voleva 4 soldi per andare a bere”.
Questo Giovanni d’Andrea era il vetraio che, in società con il Lastra, aveva eseguito la finestra della “Cappella Maggiore” di Santa Trinita, su disegno di Alesso. Finalmente, il 13 gennaio 1472-3, Alesso acquistò 2 libbre e 10 once, “da un polacco”, a 20 soldi l’oncia; “un blu chiaro, bello e finemente macinato”, aggiunge soddisfatto.
In quel periodo il pittore stava per iniziare le lunette sulle pareti laterali della cappella. Cennini definisce l’azzurro della Magnia “un colore naturale che si trova dentro e intorno alle cave d’argento”.
“Molto, aggiunge, si ottiene in Germania [La Magnia, da cui il nome], e anche nei dintorni di Siena”.8
Milanesi, nelle note alla sua edizione del Cennini, afferma che questo blu era un ossido di cobalto; ma la signora Herringham, con maggiore probabilità, identifica il colore con il carbonato di rame blu, comunemente chiamato blue verditer verde blu: allo stesso modo, identifica il verde azzurro, “che il Cennini dice essere stato fatto artificialmente dall’azzurro della Magnia”, con il verditer verde-verde, che è anch’esso un carbonato di rame.9
Alesso registra nel “Libro B” che, il 20 marzo 1470-1, comprò 6 libbre di verde azzurro, a 14 soldi l’oncia. È da notare che in un’opera dell’importanza di questi affreschi, eseguiti per un committente così facoltoso come Messer Bongianni Gianfigliazzi, Alesso non avrebbe usato l’oltremare, ma un azzurro che costava solo la ventesima parte di quello “nobile, bello e più perfetto di tutti i colori”.10
8. Cennini ed. 1899, cap.60, p. 36
9. Cennini ed. 1859 cap. 52, p. 33
10. In un primo manoscritto citato dalla signora Herringham, nella sua edizione del Cennini, si dice che l’azzurro della Magnia costava da 1 a 3 ducati l’oncia, mentre l’ oltremare costava 5 ducati l’oncia. Cennini, ed. inglese, 1899, p. 257
Secondo le voci sopra citate, Alesso acquistò l’azzurro della Magnia a prezzi che variavano da 20 soldi a 33 soldi l’oncia.
Pochi altri colori sono specificati per nome in questi “Ricordi”. Il 24 maggio 1471, Alesso acquistò 4 libbre e 5 once di giallo, cioè “arzicha”, a 13 soldi l’oncia.
Cennini definisce l’arzica un colore prodotto chimicamente e poco usato, ma più a Firenze che altrove. Aggiunge che, esposto all’aria, deperisce e non è adatto per i muri, ma mescolato con un po’ di azzurro della Magnia e di giallorino fa un bel verde.11
La signora Herringham suggerisce che l’arzica potrebbe essere il massicot, chiamato azarcon in Spagna.12 (Il 1° settembre 1471, Alesso acquistò 5 once di lago pregiato a 14 soldi l’oncia.
11. Cennini, ed. 1859, capp. 50, p. 32
12. Cennini, ed. inglese., 1899, p. 255
Probabilmente il colore fu utilizzato per la veste viola del David. Infine, il 14 settembre 1472, acquistò “8 once di cinabro fine per fare i cherubini dell’arco davanti alla detta Cappella”, a 2 soldi e 8 danari l’oncia. Si trattava del vermiglione per le ali dei serafini, che ancora oggi si trovano sull’intradosso dell’arco.
Nel giugno del 1472 la pittura della volta era così avanzata che Alesso iniziò a comprare l’oro per le decorazioni.
Il 13 giugno acquistò da Domenico, battiloro, 1.700 pezzi d’oro fino “posati su carta stagnola”, per lire 61; il 15 giugno, da Giovanni, battiloro detto il Rosso, 500 pezzi, sempre su carta stagnola, per lire 18; il 23 giugno, 4.000 pezzi d’oro fino, a 3 lire e 4 soldi il centinaio, da un genovese; e il 28 giugno, 86 fogli di carta stagnola gialla, su cui posare l’oro, per lire 8.
Infine, il 9 luglio 1472, acquistò “8 libbre di vernice liquida, per applicarle sulla volta, cioè sulle decorazioni d’oro fino”.
In tutto questo Alesso sembra aver seguito il metodo esposto da Cennini, nel cap. 99 del suo “Trattato”.13
Ma un’altra voce di questi “Ricordi” merita un’osservazione: il 24 luglio 1471, Alesso “comprò quattro libbre di olio di lino al prezzo di 4 soldi la libbra”. A quale scopo era destinato quest’olio? Era per qualche “tempera” ad olio?
Vasari, parlando di questi dipinti di Santa Trinita, dice che “Alesso li stese a fresco, e dopo li finì a secco, temperando i colori con tuorlo d’uovo, mescolato con vernice liquida fatta sul fuoco”; aggiunge che Alesso ‘pensava che questa tempera avrebbe protetto le pitture dall’umidità, ma era di natura così forte che, dove è stata applicata liberamente, l’opera si è in molti punti sfaldata, e così, mentre pensava di aver trovato un segreto raro e bellissimo, rimase ingannato dalla sua opinione”.14
13. Cennini. Ed.1859, p.66
14. Vasari. ed. 1568. Vol I. p. 380. Il passaggio nell’originale dice così: “le quali Alesso abozzò à fresco, e poi finì a secco temperando i colori con rosso d’uovo mescolato con vernice liquida fatta a fuoco”
Senza voler discutere la natura della “tempera” che è qui descritta, posso ricordare che Domenico Veneziano, che fu senza dubbio il maestro di Alesso, è celebrato dal Vasari per “il nuovo metodo che impiegava per colorare a olio”; e nei libri dell’ospedale di Santa Maria Nuova sono annotati i pagamenti di notevoli quantità di olio di lino che quel maestro utilizzò per i dipinti perduti nella “Cappella Maggiore” di Sant’Egidio15.
Domenico, senza dubbio, possedeva il segreto di qualche miglioramento del vecchio metodo di dipingere a olio sui muri, che Cennino Cennini, che lo descrive a lungo nel “Libro dell’Arte”, cap. lxxxix.- cap. xciv., dice che era “molto in uso tra i tedeschi”.
Alesso, come ho detto, si impegnò inizialmente, il 1° luglio 1471, a dipingere la “Cappella Maggiore” di Santa Trinita per 200 fiorini d’oro, e a terminare l’opera entro un periodo di cinque-sette anni. Solo il 19 gennaio 1496-97, dopo un intervallo di oltre venticinque anni, Cosimo Rosselli, Benozzo Gozzoli, Pietro Perugino e Filippino Lippi stimarono in 1.000 fiorini d’oro l’importo totale da corrispondergli per l’opera finita.16
In altre parole, Alesso aveva impiegato per l’opera cinque volte il periodo minimo inizialmente stabilito per il suo completamento, e gli fu assegnata una somma cinque volte superiore a quella originaria per la quale si era impegnato a completare la cappella. Due cause sembrano aver contribuito a questo ritardo.
La prima è che il metodo di Alesso di stendere i suoi dipinti a fresco e di finirli a secco comportava un’elaborazione infinita e un conseguente dispendio di tempo che la pura pittura a fresco non prevedeva. L’altro è che, poco dopo aver ricevuto l’incarico per la cappella, Alesso sembra aver rivolto la sua attenzione alla riscoperta dell’arte del mosaico, che a Firenze era quasi scomparsa.
Si parla per la prima volta di Alesso che lavora nel mosaico nel 1481, anno in cui restaurò le figure della facciata di San Miniato a Monte.17
15. Vasari. ed. Sansoni. Vol. pp 673 e 685
16. Appendice, Doc IX
17. Vasari, ed. Sansoni Vol. II p. 599 nota
Nel 1483 fu incaricato dai consoli dell’Arte de’ Mercanti di restaurare i mosaici della tribuna del battistero di San Giovanni, “non essendovi altro, in tutto il dominio e la giurisdizione di Firenze, che lui, che allora conosceva quell’arte”: in considerazione di ciò i consoli deliberarono di cedergli, “per tutta la durata della sua vita naturale, una proprietà immobiliare che rendesse 30 fiorini annui, a condizione che si impegnasse, finché fosse in vita, a riparare e restaurare i mosaici di San Giovanni.18
In base a questa risoluzione, due case nella Piazza di San Giovanni, appartenenti all’Arte de’ Mercanti, furono assegnate ad Alesso il 26 febbraio 1483-4,19 e con due strumenti della stessa data, rogati dal notaio ser Giovanni di Jacopo de’ Migliorelli, Alesso affittò le due case alle persone che ne erano già in possesso alla data dell’assegnazione. Questi documenti sono stampati per la prima volta in appendice a questo articolo.20
18. G. Richa, ‘Chiese Fior.’, vol.V, p. xxxv
19. Appendice, Doc VI
20. Appendice, Doc.XI
La decorazione della “Cappella Maggiore” di Santa Trinita e il restauro dei mosaici del battistero di San Giovanni e di San Miniato a Monte sembrano aver impegnato quasi interamente gli ultimi trent’anni di vita di Alesso. Durante questo periodo non si hanno notizie di opere importanti da lui intraprese, ad eccezione della perduta pala d’altare di Sant’Ambrogio, iniziata nel 1470.
Messer Bongianni Gianfigliazzi morì il 7 novembre 1484 e fu sepolto nella sua cappella di Santa Trinita, molto prima che Alesso ne portasse a termine gli affreschi.21
L’opera, tuttavia, fu continuata per volere del figlio Jacopo Gianfigliazzi; e Stefano Rosselli, nel suo “Sepoltuario Fiorentino”, riporta che all’epoca in cui scriveva, intorno al 1657, il basamento della pala d’altare di Alesso nella Cappella Maggiore di Santa Trinita recava l’iscrizione: “Jacobus Gianfigliazzius Bongiannis Equitis Filius, sua erga Deum Pietate”.22
21. Appendice. Doc.XII
22. Appendice. Doc. XIII. Cfr.anche Doc XIV
Dei dipinti che un tempo decoravano le pareti di questa cappella possediamo solo resoconti parziali e imperfetti. Il Vasari, al quale dobbiamo principalmente le scarne notizie che ci sono pervenute, dice che consistevano in “storie del Vecchio Testamento”.
Alesso, dice,
“disegnò molti ritratti dal vero; e nella storia della suddetta cappella [di Santa Trinita], in cui aveva rappresentato la regina di Saba che si recava ad ascoltare la saggezza di Salomone, disegnò Lorenzo de’ Medici, il Magnifico, padre del papa Leone X, e Lorenzo dalla Volpaia, eccellente maestro di quadranti e grande astrologo”.
In un’altra storia, sulla parete opposta a questa, Alesso disegnò Luigi Guicciardini il vecchio, Luca Pitti, Diotisalvi Neroni, Giuliano de’Medici, padre del papa Clemente VII; e accanto al pilastro di pietra [dell’arco che si apre nella chiesa] Gherardo Gianfigliazzi il vecchio, e Messer Bongianni, cavaliere, con abito blu e collare intorno al collo, insieme a Jacopo e Giovanni della stessa famiglia.
Vicino a questi ultimi ci sono Filippo Strozzi e Messer Paolo dal Pozzo Toscanelli, astrologo”.23
Quale possa essere stato il soggetto di quest’ultima storia, oggi non lo sappiamo. Secondo Giovanni Cinelli, nella sua edizione delle “Bellezze di Firenze”, pubblicata nel 1677, l’altra storia della Regina di Saba si trovava sulla parete sinistra della cappella, dal “Corno del Vangelo”.
Cinelli, dopo aver citato questo passo del Vasari, aggiunge che “nell’angolo del coro, sul lato sinistro, è dipinto un Caino nell’atto di colpire il fratello Abele, una figura che è molto ammirevole nel suo atteggiamento, e che esprime nel suo volto la malizia e l’odio che Caino portava nel suo cuore verso il fratello: ed è molto apprezzata dagli intenditori; tanto che quando il cardinale della serenissima casa d’Este venne a Firenze e visitò questa chiesa, desiderò vedere e osservare con attenzione un dipinto così bello”.24
23. Vasari, ed.1568, vol. I, p.380
24. l.c, p.189
Già quando Vasari scriveva nel 1568, gli affreschi della Cappella Maggiore di Santa Trinita “avevano cominciato a sfaldarsi in molti punti”.25
L’ultimo scrittore che allude al loro stato precario è Giuseppe Richa, che lo descrive come “non poco consumato e rovinato dal tempo”.26
Questo accadeva nel 1755; cinque anni dopo, nel 1760, le storie di Alesso furono impietosamente distrutte o coperte di bianco e le pareti della cappella decorate con “stucchi” secondo il gusto del tempo.27
25. Vasari ed. 1568, vol. I p.380
26. G. Richa Chiese fior., vol. III, p. 178
27. Vasari ed. Sansoni vol. II p. 592, nota
Durante il recente restauro della chiesa, nel 1890-7, sono stati ritrovati sotto l’imbiancatura, e restaurati dal signor Dario Chini, (Figura III) i dipinti dei quattro patriarchi sulla volta della cappella, i serafini sull’intradosso della volta e i frammenti delle lunette sulle pareti laterali della cappella. La volta stessa è divisa in quattro spicchi triangolari dai costoloni incrociati della volta, che partono dalle quattro mensole agli angoli della cappella. Nello spicchio sopra la finestra della cappella si trova una figura seduta di Noè, con un ampio mantello di colore verde scuro, indossato sopra un sotto-abito di colore rossastro. Nella mano destra tiene un oggetto ora indecifrabile; accanto a lui, a sinistra, è collocata l’arca.
Nello spicchio sopra la parete sinistra della cappella si trova la figura seduta di Abramo, che indosssa una veste gialla foderata di verde, sopra una sotto-veste di colore vermiglio. Nella mano destra tiene il coltello sacrificale e ai suoi piedi è inginocchiato il figlio Isacco, legato e vestito di bianco.
Nello spicchio sopra la parete destra c’è la figura seduta di Mosè, che tiene in mano le due tavole della Legge.
La veste, che ricade sulle ginocchia della figura, è di colore vermiglio, mentre la sottoveste sembra fosse di colore verde foglia scuro. Nello spicchio sopra l’arco si trova la figura seduta di Davide che suona un salterio a tre fori. È vestito con un mantello viola foderato di verde, che lo avvolge quasi interamente.
Il viola di questa veste è ormai molto deteriorato.
I quattro personaggi sono tutti ritratti su sfondi blu, interrotti da raggi d’oro che sembrano provenire dalle figure; tutti e quattro gli spicchi sono circondati da bordure di frutta e fiori su un fondo vermiglio.
I costoloni della volta sono dipinti con un fogliame verde intrecciato con un nastro continuo, e la chiave di volta della volta è decorata con le armi dei Gianfigliazzi: un leone rampante d’azzurro.
Sull’intradosso dell’arco che apre la cappella è dipinta, su fondo blu, la sequenza di serafini con ali vermiglie, a cui si è già accennato. Nella lunetta della parete sinistra, subito sotto la figura di Abramo, nella volta, si trovano i resti di una “storia” del “sacrificio di Isacco”. Nella parte superiore dell’immagine, su un terreno roccioso e in salita, si vede Abramo girato verso destra e inginocchiato davanti a un altare.
Questa figura è quasi interamente cancellata e la figura dell’angelo che gli appare nel cielo e quella di Isacco sull’altare sono ormai difficilmente riconoscibili. Sulla destra del dipinto, tuttavia, si può ancora vedere un albero disegnato arditamente contro il cielo, che ricorda alcuni passaggi del dipinto della Natività di Alesso nell’atrio dell’Annunziata a Firenze. La parte inferiore di questa lunetta è completamente scomparsa.
Nella lunetta della parete opposta, sotto la figura del patriarca, nella volta, si trova la storia di “Mosè che riceve le tavole della Legge sul Monte Sinai”. Solo la parte superiore di questo dipinto è rimasta, in condizioni deteriorate. Sulla cima del monte Mosè è inginocchiato, girato verso sinistra. La figura è molto danneggiata e quella di Dio Padre, che gli appare dal cielo, è quasi del tutto scomparsa.
La cima spoglia della montagna è interrotta da macchie di erba, e intorno si possono ancora vedere alcuni cipressi, e altre fronde. Sotto ognuna di queste lunette, sulle pareti laterali della cappella, sembrano esserci state altre due storie; ma il soggetto di una sola di esse è stato riportato (come ho detto) da Vasari, cioè la visita della regina di Saba al re Salomone, che sembra fosse sulla parete sinistra della cappella.
La storia di Caino che uccide suo fratello Abele, riportata da Cinelli, era probabilmente sulla parete dell’altare accanto alla finestra, nell’angolo sinistro. Nelle figure della volta, Alesso raggiunge una nobiltà di disegno e una grandiosità di stile che non raggiungerà più in nessuna delle sue opere esistenti.
L’estrema ricerca della forma, che ci ha così largamente offuscato il piacere della pala d’altare che Alesso dipinse per questa cappella, non toglie nulla alla severa bellezza di queste figure, che possiedono un fascino, sia nella concezione che nel disegno, che è poco caratteristico della maniera successiva di Alesso, sebbene comparabile a una certa grazia e dolcezza di alcune delle sue prime opere.
Gli atteggiamenti di questi “profeti antichi” sono immaginati in modo molto maestoso, soprattutto quello di David, che guarda in alto mentre sfiora il suo salterio con un gesto che esprime un’estasi spirituale, con una finezza e una compostezza ammirevoli.
In effetti, queste figure sono rappresentate con una profondità di carattere e una raffinatezza di sentimento che invano cerchiamo in opere simili del suo allievo più famoso, e più evidentemente dotato, Domenico Ghirlandaio; come le volte della “Cappella Maggiore” di Santa Maria Novella e della cappella Sassetti in Santa Trinita.
A giudicare da queste figure dei quattro patriarchi, non si potrà mai deplorare abbastanza la distruzione delle “storie” che si trovavano al di sotto di esse; la fama di pochi maestri fiorentini dipendeva molto da una singola opera come quella di Alesso in questa cappella dei Gianfigliazzi. Un altro frammento delle ‘storie’ che un tempo decoravano le pareti di questa cappella è giunto fino a noi.
Giuseppe Richa nelle sue “Notizie Istoriche delle Chiese Fiorentine”, dopo aver elencato i vari ritratti che si trovano in questi dipinti, aggiunge: tutti questi personaggi sono citati dagli scrittori della vita di Alesso; ma non alludono al ritratto di un giovane nell’angolo del coro, dalla parte dell’epistola, che è rappresentato con un abito rosso, con un berretto verde in testa e un fazzoletto bianco tra le mani; e questo è Alesso Baldovinetti, che si ritrasse com’era da giovane; e vi disegnò anche il ritratto di Guido Baldovinetti, che era l’uomo più dotato e rinomato a quel tempo nella sua illustre famiglia.28
Domenico Maria Manni, nelle note alla sua edizione del Baldinucci, pubblicata pochi anni dopo la pubblicazione dell’opera di Richa, cita un certo “Memoriale di Francesco di Giovanni di Guido Baldovinetti, scritto nell’anno 1513”.
Secondo questo “Memoriale” (da cui, senza dubbio, Richa ha tratto la notizia del ritratto in questione) Alesso ritrasse sulle pareti della “Cappella Maggiore” di Santa Trinita, tra molti altri nobili cittadini, “Guido Baldovinetti, e, ultimo di tutti, se stesso, con un cioppone di rosa appassita e un fazzoletto in mano”.29
Tra i quadri che Morelli ha lasciato in eredità all’Accademia Carrara di Bergamo, c’è un frammento di affresco, il n. 23, con la testa di un uomo. È stato ritagliato in un tondo di 0,23 centimetri di diametro. Secondo un’iscrizione sul retro, si tratta di un ritratto di Alesso Baldovinetti, dipinto da lui stesso e preso da un angolo del coro di Santa Trinita a Firenze.30
Non c’è dubbio che si tratti della testa a cui Francesco Baldovinetti fa riferimento nel suo “Memoriale” e che sia stata staccata dalle pareti di Santa Trinita quando i dipinti di Alesso vennero distrutti nel 1760; ma se si tratti di un ritratto del pittore è una questione che non devo discutere in questa sede.
28. G. Richa, “Chiese Fior.”, Firenze, 1754, Vol. III, p. 177
29. F. Baldinucci, “Notizie de’Professori del Disegno, da Cimabue in Qua,” Firenze, 1767, Vol. III, p. 187, nota
30. G. Frizzoni,”La Galleria Morelli in Bergamo”, Bergamo, 1891, pp. 15-16