Il Pontormo a Empoli
di Rosanna Caterina Proto Pisani
Da “Il Segno di Empoli”, n. 25, anno 1994
Ringrazio la dott.ssa Proto Pisani per avermi permesso la pubblicazione
(paolo pianigiani)
L’esposizione, prevista per il mese di settembre nel Convento degli Agostiniani ad Empoli, è nata come omaggio da parte di Empoli verso il suo concittadino più celebre -ormai possiamo dirlo a voce alta – dopo la rivalutazione operata dalla critica del nostro secolo dei rappresentanti della ‘maniera’, nei quali si è saputo cogliere una sensibilità e un rapporto con l’arte che precorrono un atteggiamento moderno.
Credo sia quindi importante sottolineare il rapporto di Jacopo con Empoli, anzi più specificamente con Pontorme, luogo natio dove il nostro pittore trascorse soltanto i primi anni di vita.
Jacopo qui rimase fino ai tredici anni – a detta del Vasari: il tempo per assimilare le prime nozioni scolastiche e i rudimenti di grammatica latina.
Ritornerà quindi, già promettente pittore, a dipingere uno stemma su una delle porte del castello e lascerà nella chiesa di San Michele i Santi che segnano dopo il superamento del classicismo, la svolta decisiva in senso manieristico avvenuta all’incirca in quegli anni.
Siamo nel 1519 ed Jacopo terminerà la sua vita nel 1557: da allora non vi saranno più occasioni di ritorni ufficiali e professionali ad Empoli. Ciò nonostante il piccolo borgo ha segnato con il suo nome questo grandissimo artista che, conosciuto come il Pontormo, ha reso noto universalmente l’antichissimo castello, divenuto ormai un sobborgo di Empoli.
L’infanzia di Jacopo trascorsa a Pontorme è cadenzata da una terribile sequela di morti (prima il padre, poi la madre, quindi il nonno ed ancora di lì a poco la nonna e la sorella) che segneranno la psiche del giovinetto solitario, introverso e ipocondriaco come testimoniano le stringatissime pagine del suo diario.
Il rapporto con il paese natio si interruppe molto presto, quando Jacopo fu affidato ai pupilli secondo il costume dell’epoca, trasferendosi definitivamente a Firenze, dove trascorrerà il resto della sua vita. Fu a Firenze che Jacopo si formò studiando – secondo il Vasari – con Leonardo da Vinci, Piero di Cosimo e Mariotto Albertinelli.
Qual’era dunque la situazione fiorentina al momento dell’arrivo di Jacopo? All’inizio del nuovo secolo, pochi anni dopo la morte di Lorenzo il Magnifico che porterà via con sé quell’arte preziosa e raffinata che si suole definire arte laurenziana – della quale viene presentata in mostra un’interessante testimonianza, il Tabernacolo Del Pugliese di Fra’ Bartolomeo – e i roghi della vanità di Savonarola, Firenze sembra attestarsi politicamente con Pier Soderini in una dimensione nuova e diversa.
Sul piano culturale la città nel primo decennio del secolo si poneva ancora come punto di riferimento importante: nei primi anni del Cinquecento le arti fiorivano sotto il magistero diretto di Michelangelo e Leonardo che, una volta partiti, lasciarono a formare le future generazioni i celebri cartoni delle Battaglie di Cascina e di Anghiari, ‘scuola del mondo’, fatti letteralmente a pezzi dai loro allievi.
La presenza a Firenze di Raffaello non solo stimolò le energie locali, ma introdusse sottilmente modi nuovi e confronti diversi. Nel campo della scultura personalità come Andrea Sansovino e il Rustici coltivavano un filone classicistico.
Quest’atmosfera di equilibrio, ma anche di euforia nel campo artistico, era destinata a spegnersi nel giro di pochi anni spostando il centro dell’asse culturale a Roma. Nel 1508 Michelangelo è sui ponteggi della Sistina, Leonardo è a Milano e nello stesso periodo Raffaello parte per Roma. A Firenze rimarranno i fiorentini a meditare sulle conquiste dei loro padri: è questo il momento in cui Jacopo entra in contatto con l’ambiente artistico fiorentino.
Punti di riferimento per i giovani artisti sono adesso la Scuola di San Marco, con personalità come Fra Bartolomeo e Mariotto Albertinelli, e la Santissima Annunziata dove Andrea del Sarto lavora al ciclo di Storie di San Filippo Benizzi e che presto vedrà la presenza dei suoi migliori allievi: il Pontormo e il Rosso Fiorentino.
E proprio per la Santissima Annunziata che Jacopo dipinge nel 1513 la sua prima importante opera autonoma: l’Arme di Leone X per la nomina a Papa del cardinale Giovanni dei Medici che celebrerà il ritorno a Firenze della famiglia medicea avvenuta poco prima, nel 1512.
Vale la pena soffermarsi su quest’opera per fare alcune considerazioni. Prima di tutto si tratta del debutto ufficiale di un giovane estremamente promettente. Il Vasari descrive dettagliatamente l’esecuzione di quest’opera voluta dai Serviti, ordine filo-mediceo, per esaltare il ritorno della famiglia destinata a dominare ancora a Firenze, ed affidata ad Andrea di Cosimo Feltrini.
Il programma iconografico dell’affresco prevedeva, accanto all’impresa medicea, le figure allegoriche della Fede e della Carità, che dovevano esemplificare le virtù di Papa Medici. Per questo motivo fu lo stesso Andrea di Cosimo Feltrini che cooptò nell’impresa il giovane Jacopo che eseguì l’affresco in modo coscienzioso e scrupolosissimo – secondo il suo carattere, in questo caso gravato psicologicamente dal fatto che si trattava della sua prima committenza pubblica.
Nella chiesa di Sant’Antonio alla porta di Faenza Jacopo preparò i cartoni e, quando era deciso a buttare giù il lavoro già fatto, si accorse che, a sua insaputa, era stato scoperto l’affresco. Grande fu l’ammirazione di tutti di fronte a quest’opera che sembrò così bella e perfetta da suscitare il consenso di Michelangelo:
“Questo giovane sarà anco tale, per quanto si vede, che se vive e seguita, porterà quest’arte in cielo” (Vasari, ed. 1878, VI, p. 250).
Il Vasari sottolinea come quest’affresco suscitò la gelosia di Andrea Del Sarto che da allora non ebbe più rapporti con il giovane allievo. La fama e il successo raggiunti da Jacopo spinsero gli uomini di Pontorme a commissionare al pittore l’impresa di Leone X per decorare una delle porte del castello che segnavano l’ingresso e l’uscita del borgo attraverso la frequentatissima via Pisana con il fine di esaltare il ritorno dei Medici in una terra che era sempre stata tradizionalmente fiorentina (si pensi che Pontorme era già fiorentina prima della dedizione spontanea di Empoli a Firenze nel 1182).
Purtroppo di quest’opera che “era assai men che guasta” già ai tempi del Vasari non è rimasta traccia. Il dibattito attuale verte su quale porta fosse stata dipinta l’arme.
Sulla facciata esterna della Porta Pisana – come a noi sembra più logico – interpretandola come espressione di una fedeltà incondizionata del borgo di Pontorme a Firenze e quindi monito all’ingresso in area fiorentina per coloro che venivano da terre che avevano combattuto e vissuto in un rapporto più travagliato con la stessa Firenze.
O sulla facciata esterna della Porta Fiorentina, laddove il borgo di Pontorme aveva avuto un processo di maggior espansione e dove erano avvenuti i cambiamenti più vistosi fin dalla seconda metà del Quattrocento.
Al fine di voler suggerire come si presentava quest’opera, ormai irrimediabilmente perduta, ma importante anche come primo riconoscimento ufficiale del borgo natio a Jacopo, si intende riunire nella prima sezione della Mostra dal titolo l’Arme di Pontorme, accanto allo stemma della Santissima Annunziata un primo gruppo di opere di artisti quali Fra Bartolomeo e Andrea del Sarto, punti di riferimento importanti per Jacopo nella sua prima fase.
Si presenta quindi una Madonna col Bambino del Museo della Collegiata di Empoli, evidente ripresa della Madonna del Granduca di Raffaello, affresco staccato che si trovava un tempo all’interno della casa Santini, prima Del Frate.
Questa piccola opera ben testimonia il gusto e la cultura di Jacopo metà del secondo decennio (con un accostamento al tabernacolo di Fra Bartolomeo del quale si può considerare una filiazione), pur proponendo timidamente il nome di Franciabigio. Accanto verranno esposte le prime testimonianze autografe di Jacopo.
La deliziosa scena monocroma del Museo dell’Accademia Scene di vita ospedaliera con fatti di Santa Umiltà, commissionata a Jacopo dall’Arte del Cambio (per la quale il nostro eseguiva nello stesso periodo le decorazioni del Carro della Moneta), ben si lega ancora alla linea maestra Fra Bartolomeo-Albertinelli.
La Madonna col Bambino del Museo di San Salvi, dal piglio michelangiolesco, testimonia gli studi compiuti da Jacopo sui maestri del Quattrocento come lo stesso Masaccio, ma con nuove sfumature che fanno intuire 1e sue future originalissime scelte e la Madonna di San Ruffillo attualmente nella Cappella dei pittori alla Santissima Annunziata ancora memore dei modi di Fra Bartolomeo e Andrea Del Sarto.
Verrà quindi presentata una serie di opere che mostrano Jacopo ‘pittore dell’effimero’, con la sua attiva partecipazione alla decorazione di apparati per feste accanto ad artisti quali Andrea Del Sarto e Andrea di Cosimo Feltrini.
Sappiamo dalle analitiche descrizioni del Vasari della partecipazione intensa di Jacopo ai carri del carnevale del 1513 promosso dalle Compagnie del Diamante e del Broncone per celebrare il ritorno dei Medici, anche se fu proprio durante questa festa che venne sventata una congiura antimedicea.
Nonostante che il Pontormo avesse decorato tutti i carri che sfilavano in quei giorni tranne due, abbiamo pochissime tracce di queste opere – anche a causa della distruzione di questi apparati alla fine delle feste.
A testimoniare l’attività di Jacopo in quest’occasione non restano attualmente che due piccole tele della Kress Collection rappresentanti le Metamorfosi degli dei (Apollo e Dafne e La disputa tra Apollo e Cupido) che richiamano per la loro sensibilità e nervosità i modi di Mariotto Albertinelli e le due piccole tele di Montecitorio rappresentanti Due guerrieri e Putti con armi.
A causa delle scarse testimonianze della sua partecipazione al carnevale del 1513, si ritiene opportuno presentare alcuni pannelli del Carro della Zecca eseguito nel giugno del 1514 per la festa di San Giovanni Battista.
Nelle due scene rappresentanti la Visitazione e il Battesimo di Cristo, i temi classici derivati da Mariotto, Raffaello, Fra Bartolomeo e Andrea Sansovino mostrano la profonda cultura di Jacopo all’epoca, anche se riciclata in maniera più divulgativa per la destinazione del carro.
Alcuni angioletti, elementi decorativi dello stesso carro, sono messi a confronto con una ‘grisaille’ di Andrea del Sarto rappresentante Nudi femminili e putti dipinta probabilmente in occasione del Carnevale del 1513, mostrando gli stretti legami che intercorrevano in quegli anni fra i due artisti, soprattutto negli apparati ai quali erano chiamati a lavorare insieme.
A chiusura della prima sezione ed emblematica apertura alla nuova evoluzione di Jacopo viene presentata la Carità dello Scalzo, indubbiamente la più pontormesca delle figure del Chiostro dello Scalzo, dipinta molto probabilmente nel 1513, che costituirà base e punto di partenza per l’avvitamento della figura e la posizione delle gambe del San Michele Arcangelo di Pontorme.
La seconda sezione della mostra è dedicata alle uniche opere esistenti nel territorio empolese: i due Santi di Pontorme.
Si tratta di opere che segnano decisamente l’abbandono del classicismo da parte di Jacopo e la sua svolta manieristica, testimoniata dai colori cangianti con toni freddi, dall’avvitamento delle figure e dall’introspezione psicologica dei personaggi.
Sono già state sottolineate da parte della critica le citazioni di Michelangelo (il San Giovanni Evangelista rimanderebbe al San Matteo, mentre il San Michele allo Schiavo Ribelle del Louvre) e la conoscenza approfondita, già in questo momento, dell’opera di Durer che da ora in avanti farà avvertire sempre più spesso il suo peso.
La finalità di questa sezione della mostra è di presentare i due Santi in maniera inedita, mostrando queste opere anche dal retro dove vi sono alcuni disegni autografi del Pontormo. Se è pur vero che essi sono già conosciuti dagli specialisti, pure sono ignorati dal gran pubblico e soprattutto rimangono nascosti a tutti, una volta ricollocate le tavole sull’altare della chiesa di San Michele.
Questi disegni sono testimonianze preziose del metodo di lavoro di Jacopo. Nella lettera a Benedetto Varchi incentrata sulla disputa della superiorità della pittura o della scultura, questo è il pensiero del Pontormo:
“La cosa in sé è tanto difficile che non la si può disputare e manco risolvere, perché una cosa sola c’è che è nobile, che è il suo fondamento: e questo si è il disegno, e tutte quante l’altre ragioni sono debole rispetto a questo (vedetelo che chiunque ha questo fa l’una e l’altra bene); et se tutte l’altre arguitioni sono debole e meschine rispetto a questo solo, se non lassare stare questo da parte, non havendo simile a sé, et produrre altre ragioni più debole senza fine o conclusione?”.
La risposta data al Varchi rappresenta in sintesi il modo di lavorare di Jacopo e di conseguenza ci consente di conoscere la genesi delle sue opere. Egli, di fronte alle opere da realizzare, pazientemente schizzava ed elaborava “facendo e rifacendo”.
Ciò è dimostrato dalla gran quantità di disegni del Pontormo che possediamo, ricollegabili a molte opere. Esemplificazione emblematica del suo metodo di lavoro è la presentazione dei Santi di Pontorme accompagnati dai disegni preparatori.
Nel caso specifico abbiamo la fortuna di possedere gli studi preparatori definitivi, quando la mente dell’artista ha già raggiunto la sintesi finale e non resta che la trasposizione dei segni grafici sulla tavola accordandola ai colori per dar vita a una pittura, che seppure fondata su uno studio grafico attento e analitico, rappresenta una novità assoluta per l’uso di colori nuovi e cangianti, accostati in maniera diversa e contrastante.
Il disegno di San Giovanni (matita nera e rossa) è custodito al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Il Santo, a figura intera, è emaciato e sofferto come nella realizzazione pittorica ed ha accanto due studi per le mani del San Michele Arcangelo. Il disegno del San Michele (matita nera), ugualmente a figura intera, è custodito presso il Musée des Beaux Arts di Lille.
La sua posa, in uno strano atteggiamento da equilibrista, fa da contraltare al San Giovanni ed è ripresa puntualmente nella realizzazione pittorica, anche nella figura del puttino in basso schiacciato dal piede del Santo.
Inoltre, presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi esiste il particolare delle gambe del San Michele, stupendo disegno di una levigatezza e di un nitore formale al cui confronto può reggere solo l’effetto serico delle gambe del Santo dipinto.
Le tavole – come abbiamo già detto – presentano sul retro alcuni disegni autografi, preziose testimonianze anche per la ricostruzione della pala così come era stata concepita dal Pontormo nel 1519 circa. Un Compianto di Cristo a carboncino è schizzato sul retro del San Giovanni Evangelista, mentre il San Michele presenta un profilo e un puttino a carboncino.
Riguardo al Compianto è plausibile domandarsi se si tratta di uno schizzo eseguito per dipingere questo soggetto sulla tavola che poi è stata utilizzata per il San Giovanni o se si tratta di una prima idea di qualcosa che doveva completare la pala.
La presenza presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi di un disegno a matita rossa a forma di lunetta rappresentante una scena del Compianto di Cristo, che si lega bene stilisticamente con i dipinti di Empoli e che presenta una certa somiglianza iconografica con lo schizzo sul retro del San Giovanni, ha fatto ipotizzare da parte della critica che la pala di Empoli dovesse essere coronata da una lunetta rappresentante il Compianto, forse mai realizzata. In seguito al recente restauro (1980-87) sono state effettuate alcune osservazioni dirette sulle tavole: la presenza sul retro di quattro grosse traverse antiche fa supporre che con ogni probabilità i dipinti costituivano un’unica tavola raccordata in alto e in basso.
L’apertura centrale è originale, come è riscontrabile sia da alcune tracce di colore originale nella parte superiore della centina sia dal confronto con gli studi preparatori definitivi che presentano i Santi negli stessi atteggiamenti e con le stesse inquadrature.
Non è invece ancora stato risolto il dubbio di cosa i Santi incorniciassero: una Madonna antica e di venerazione come suggerisce il Vasari: “Fece Jacopo agli uomini di Puntormo una tavola che fu posta in Sant’Agnolo, lor chiesa principale, alla cappella della Madonna, nella quale sono un San Michelangelo ed un San Giovanni Evangelista” (Vasari, ed. 1878, VI, p. 259); oppure il miracoloso Crocifisso trecentesco della Compagnia di San Michele.
Infatti, da un appunto tratto dalle carte della chiesa e pubblicato dal Giglioli, le tavole risultavano nel 1680 sull’altare del Santissimo Crocifisso dove sono rimaste fino al ritiro dei dipinti nel 1933 in occasione della Mostra di Arte Sacra a Firenze.
Il problema non è ancora risolto, anche perché da un punto di vista iconografico torna bene sia la presenza al centro del Crocifisso sormontato da un eventuale Compianto sia quella della Madonna col Bambino, la quale spesse volte nei polittici è collocata sotto la scena del compianto.
Sia per la Vergine che per il Crocifisso si giustifica bene anche la presenza del San Giovanni, che va interpretato come San Giovanni dell’Apocalisse, che preannuncia la nascita di Cristo:
“E un portento grande fu visto nel cielo: una donna ravvolta dal sole, e la luce sotto i suoi piedi, e sulla testa una corona di dodici stelle; avendo un nascituro nel ventre, grida nelle doglie e nel travaglio del parto” (Apocalisse, 12, 1-2)
i cui dolori sono associati totalmente al sacrificio del Figlio.
Il San Michele, oltre che Santo eponimo della chiesa, è ugualmente ricordato nell’Apocalisse come difensore del Regno di Dio. Altre opere accompagneranno i Santi di Pontorme per agevolare una loro comprensione più diretta.
Il San Giovanni Evangelista del Carro della Moneta del 1514, ispirato al celeberrimo Abramo e Isacco di Donatello per il campanile di Santa Maria del Fiore, si dichiara nell’angiolino che sorregge sulle spalle il libro, punto di partenza importante per giungere a quella strana e assurda posizione dell’Evangelista che sorregge il Libro sul suo braccio e che verrà ripresa in un disegno tardo legato agli affreschi di San Lorenzo, ultima opera di Jacopo, definita “la sua Sistina”.
Al San Michele di Pontorme è sembrato utile accostare un piccolo dipinto cinquecentesco del Museo Civico di Torino attribuito al Pontormo dal Longhi che lo considerava parte di un trittico o di un dittico per la presenza del fondo giallognolo definendolo
“di un genere spiritato che nelle due animule d’infanti e nel diavolo affranto sembra volersi misurare col Rosso” (R. Longhi, in Cinquecento Classico e Cinquecento Manieristico, 1976, p. 96).
Anche se la critica più recente preferisce accostare il dipinto al Bronzino, pure la derivazione del San Michele di Empoli è di una tale evidenza che non può non essere utile un accostamento diretto fra le due opere.
Derivazione dai Santi del Pontormo è anche la Trinità, opera firmata e datata 1579 da Jacopo Chimenti detto l’Empoli, alto grande pittore legato al territorio empolese, il quale per una vicenda analoga a quella del Pontorme ha legato il nome della località di origine alla sua personalità.
Nella Trinità l’Empoli non solo riprende nell’iconografia gli stessi Santi di Pontorme, ma in questa nuova edizione fatta circa sessantanni dopo dimostra chiaramente la sua meditata riflessione su quell’artista che prima di lui si era mosso da questa terra per conquistare le vette più alte del mondo figurativo.
I due Santi sono ora rivissuti in una dimensione più domestica e più controriformata rispetto alle immagini trasmesse dal Pontormo, nelle quali inquietudini medievali e spunti nordici si mescolavano a proporzioni classiche riviste in maniera nuova e originale.
La meditazione dell’Empoli sul Pontormo non riguarda solo i Santi, ma anche altri personaggi della stessa tavola, come per esempio il puttino seduto in primo piano con aria malinconica e pensosa che richiama la tranquilla meditazione dei personaggi della lunetta di Poggio a Caiano.
Durante la sua formazione e nella sua giovinezza, la riflessione sul Pontormo è stata una costante per il Chimenti. L’ultima parte della mostra vuole appunto sottolineare la fortuna del Pontormo rivissuta e riattualizzata a distanza di sessantanni da un suo illustre concittadino.
Oltre alla presentazione della Trinità della Calza restaurata per l’occasione e che sarà accompagnata dalla piccola Madonna del Museo di Tavarnelle e dall’Ultima Cena della, chiesa dei Santi Lucia e Giuseppe al Galluzzo, l’esposizione di una decina di bellissimi disegni influenzati dalla profonda suggestione del Pontormo (tanto che in alcuni casi sono stati attribuiti allo stesso Jacopo) è sembrato il miglior omaggio che un ottimo pittore del Seicento dedicasse al grandissimo Pontormo al quale era legato anche dalla comunanza dei natali.