Il Trittico Carnesecchi
in Santa Maria Maggiore a Firenze
di
Roberto Bellucci, Cecilia Frosinini
La ricostruzione
Dalle fonti, Francesco Albertini prima e Giorgio Vasari poi, ci è testimoniata in Santa Maria Maggiore di Firenze l’esistenza di una cappella, dedicata a Santa Caterina d’Alessandria, affrescata da Paolo Uccello e i cui arredi comprendevano una tavola d’altare opera di Masaccio e Masolino. Si può verosimilmente ritenere che non di una cappella vera e propria si trattasse, ma di un altare a nicchia, addossato alla parete della navata sinistra, sulla cui mensa d’altare sarebbe stato il trittico, rappresentante, secondo il Vasari, “una Nostra Donna, Santa Caterina, e San Giuliano, e nella predella fece alcune figure piccole della vita di Santa Caterina e San Giuliano che ammazza il padre e la madre; e nel mezzo fece la Natività di Gesù Cristo, con quella semplicità e vivezza che era sua propria nel lavorare”. Sopra di esso, come coronamento, Paolo Uccello avrebbe dipinto su muro una Annunciazione.
Questa collocazione della mensa d’altare a parete sembra confermata anche dal fatto che sul retro lo scomparto del San Giuliano ritiene un gancio originale in ferro, segno che oltre a poggiare sull’altare era assicurato tramite di esso al muro retrostante.
Dell’intero complesso sopravvissero allo smembramento seguito al rinnovamento seicentesco dell’edificio sacro soltanto la Madonna col Bambino e lo scomparto del San Giuliano, con la sua predella, rinvenuti ed identificati come appartenenti al Trittico tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.[1] Il 31 gennaio del 1923 la Madonna col Bambino, venne trafugato dalla chiesa di Santa Maria a Novoli e da allora non è stata più ritrovata.[2]
I due scomparti maggiori, al momento del loro ritrovamento, erano accomunati da una aggiunta che dimostrava come avessero avuto, in un qualche momento della loro storia, una collocazione intermedia uguale: una cortina con nappe, dipinta in rosso, sulla cuspide e che sormontava parte del fondo oro lungo i bordi delle due tavole.
Un attento esame del San Giuliano (purtroppo con la sola possibilità di istituire confronti con vecchie foto della Madonna col Bambino), induce a nuove e interessanti considerazioni circa la ricostruzione del trittico originale. Il trittico, anche se costruito con carpenteria di tradizionale impianto tardogotico, presentava l’elemento assai innovativo di un coronamento ad arco tondo, come inequivocabilmente dimostrano i segni tracciati sul nudo legno venuti alla luce dopo la rimozione della cornice tarda.
Con queste linee di disegno, in fase di approntamento degli strati preparatori si lasciavano indicazioni precise alle maestranze che dovevano stendere tela e gesso, ragion per cui essi diventano oggi, dopo le numerose modifiche e manipolazioni cui il dipinto è stato sottoposto, assai più significativi delle zone di margine, sempre assai danneggiate.
Lungo entrambi i bordi laterali del pannello si rilevano tracce di colatura del gesso originale, segno che le dimensioni sono quelle originali e che i tre scomparti principali erano evidentemente costruiti separatamente gli uni dagli altri, ottenendo poi un ricongiungimento in fase di montaggio finale del complesso. Le giunzioni tra le tre tavole dovevano poi essere mascherate con elementi di incorniciatura, quali colonnine tortili.
Questi minori elementi erano spesso incollati soltanto in corrispondenza delle terminazioni e semplicemente giustapposti al supporto per tutta la lunghezza, ragione per cui non si rilevano alla RX tracce di chiodi sul lato sinistro del pannello, quello confinante con lo scomparto centrale. Lungo il margine destro, invece, quello esterno, si notano tracce di 3 chiodi, certo destinati a collegare un più importante elemento di cornice.
Mentre in larghezza il pannello presenta tutte le evidenze di mantenere le misure originarie, in lunghezza deve esserci stata una resecazione al basso, di circa 4-5 cm. La superficie dipinta è infatti irregolarmente tagliata, ma soprattutto, assai significative sono le tracce di una spianatura sul retro, fatta per alloggiare la traversa, e i segni di due chiodi (rimossi e la cui sede è stata stuccata) che collegavano questo elemento al supporto.
Trovandosi questi alla estremità attuale del pannello, sembrerebbero indicare la perdita di un’area corrispondente alle stesse dimensioni della spianatura visibile, tenendo conto che la traversa fosse situata più o meno al centro della spianatura e, come tradizionalmente nelle carpenterie fiorentine, la traversa bassa fosse collocata alla base del trittico.
Anche la traversa superiore era alloggiata in un’area di spianatura del supporto ed in RX sono ben visibili le tracce dei chiodi, ad un’altezza che comunque, innalzandosi al di sopra della sorgente degli archi, deve far presupporre che il Trittico fosse dotato di una struttura architettonica complessa al di là di una semplice incorniciatura.
Questo non solo per nascondere agli occhi dell’osservatore la traversa che altrimenti sarebbe risultata visibile, ma anche perché, per ragioni strutturali, posizionare una traversa oltre la sorgente degli archi trova una sua ragione soltanto se deve servire da sostegno anche a strutture soprastanti di un certo peso.
I pur scarsi elementi che servono all’ambientazione spaziale delle figure, analizzati con puntualità, permettono di precisare che il campo dipinto doveva ospitare una sorta di Sacra Conversazione ambientata in un unico spazio indiviso. Le figure poggiano su un basamento marmoreo marezzato, il cui piano è incorniciato da una fascia grigio scura, forse pietra serena. Nello scomparto del San Giuliano questa fascia è visibile orizzontalmente, lungo il fondo e al proscenio, prima del gradino, e lateralmente, sul lato corto, alla destra dell’osservatore.
Il basamento costituiva quindi l’ambiente scenico dell’intero trittico, e se ne può osservare la conclusione, a destra, in corrispondenza della chiusura fisica del trittico stesso. Il fatto che non esista un’identica conclusione sul lato sinistro dello scomparto del San Giuliano prova che la figurazione dovesse proseguire senza soluzione di continuità nell’adiacente pannello centrale. Infatti in questo la fascia grigia è presente soltanto in corrispondenza dei lati lunghi, in continuità, così come omogenea e congrua è la marezzatura del marmo del pavimento in entrambi gli scomparti.
Oltre all’unificazione dello spazio interno e alla forma ad arco tondo degli scomparti, uno dei tanti segni del lento processo di elaborazione nel passaggio da trittico a pala unificata è dato dall’insolita particolarità costruttiva rivelata dalle misure identiche tra scomparto centrale e laterale. Questa notazione è emersa da un’approfondita disamina dei due dipinti e da una loro elaborazione per via informatica.
Le misure note attraverso le schede OA e le diverse pubblicazioni, infatti, se si esclude quelle indicate da Ugo Procacci, erano errate e, si ha l’impressione, copiate le une dalle altre senza alcuna verifica. La resecazione in basso del San Giuliano e l’impossibilità di verifiche sul perduto scomparto della Madonna di Novoli, sembravano precludere la possibilità di lavorare in questa direzione.
Ma un percorso di osservazione relativa alla unitarietà del basamento su cui poggiano le figure, ha reso usare questo elemento come punto di riferimento, misurandolo sulle immagini digitalizzate di entrambe le opere, e quindi riproporzionarle l’una all’altra in modo da far coincidere gli elementi di esso. Il risultato è stato estremamente interessante: una volta ricreata la continuità del basamento, anche i peducci di imposta delle centine si sono venuti a trovare allineati. Anche lo scomparto di Novoli è diventato a questo punto misurabile ed è risultato identico al suo laterale, sia in altezza che in larghezza.
L’abbandono di una gerarchia tra scomparti, insieme alla adozione dello spazio interno unificato, doveva dar luogo ad un effetto degno di attenzione per coerenza di impostazione. In esso l’aspetto di priorità devozionale era fatto salvo in parte da due accorgimenti: la figura della Madonna, in realtà, è di proporzioni maggiori del San Giuliano, tenendo conto del fatto che è seduta e comunque anche questa forma di rispetto, nascosta ad una prima occhiata, viene riproposta con garbo e understantment dall’avere l’aureola di pochi centimetri più alta rispetto a quella del santo.
Un’altra notazione interessante può essere condotta, dal punto di vista iconografico, sul complesso Carnesecchi: infatti l’insolito seggio della Vergine, un alto basamento, che spesso ha indotto la critica a considerare l’immagine sacra come una “Madonna dell’Umiltà”, riecheggia invece, con ogni verosimiglianza, un altare. Il gruppo della Vergine con il Bambino, quindi, conterrebbe un richiamo specifico al sacrificio di Cristo immolatosi sul Golgota , il cui gesto viene reiterato dal sacrificio eucaristico. Inoltre la Vergine, in questo contesto, sarebbe presentata come Maria Mater Ecclesiae, l’appellativo che presumibilmente sta dietro anche al titolo della chiesa di Santa Maria Maggiore che ospitava il Trittico Carnesecchi.
Al Trittico Carnesecchi sono riferibili, in via ipotetica, due diversi scomparti di predella raffiguranti lo stesso soggetto iconografico (Storie di San Giuliano) e quindi entrambi collegabili all’unico laterale principale sopravvissuto: attribuiti incontrovertibilmente uno a Masolino (quello del Museo Ingres di Montauban) e uno a Masaccio (Museo Horne, Firenze). Niente di certo sappiamo circa la loro provenienza, essendo stati entrambi acquistati sul mercato antiquario in epoca relativamente recente. Di per sé la diversa attribuzione non offre alcun sostegno all’ipotesi di appartenenza o meno al perduto complesso Carnesecchi per nessuna delle due tavolette, se non che per alcune fonti l’autore delle storie della predella sarebbe stato Masaccio.
Tra queste attestazioni, di rilievo è quella data dalla prima edizione delle Vite del Vasari che, come è noto, viene considerata di particolare attendibilità circa l’attività di Masaccio[3] e nella quale lo storico aretino dà a Masaccio solo la predella del Trittico Carnesecchi. Il ritrovamento dei due scomparti maggiori con la loro autografia masolinesca sembrerebbe andare in direzione di una conferma al silenzio del Vasari relativamente alla parte principale del Trittico e quindi rafforzerebbe l’idea di prendere in considerazione la tavoletta Horne, di Masaccio, appunto, come unica parte sopravvissuta della predella Carnesecchi proprio in virtù della sua autografia.
Sono però le novità tecniche emerse dalle indagini attuali che permettono di riferire la predella Horne al Trittico Carnesecchi in modo incontrovertibile. Identici sono infatti, nel San Giuliano e nella predella Horne le caratteristiche del legno, della tela e del gesso usati per gli strati preparatori. I due supporti infatti mostrano fibratura identica e caratteristiche tali da indicare la provenienza da uno stesso tronco. La tela ha un rapporto trama-ordito identico, molto diverso da quello più fitto generalmente riscontrabile in tutti gli altri dipinti di Masaccio e Masolino. Anche la preparazione sembra essere la stessa, contribuendo a dare alle lastre radiografiche dei due dipinti delle inusuali risultanze di scarsissima radio-opacità.
Le peculiarità tecniche
La serie di indagini ottiche cui sono stati sottoposti i pezzi riferiti al Trittico Carnesecchi ha dato come risultato l’individuazione di alcune caratteristiche tecniche inusitate nell’ambiente fiorentino contemporaneo.[4] Sia la veste del San Giuliano che quella della Madonna (per quanto ci è dato di osservare in fotografia) sono infatti realizzati usando un colore semitrasparente (lacca rossa nel caso del San Giuliano) su un fondo preparato a foglia metallica (argento nel San Giuliano) fittamente incisa per simulare un tessuto peloso.
Inusitato non è naturalmente l’utilizzo della foglia metallica come base del colore, del quale si hanno innumerevoli esempi lungo tutto l’arco della pittura fiorentina fino a questo momento; innovativo è invece lo speciale trattamento a incisione, ben diverso, nell’effetto che si raggiungeva, dal graffito. Infatti l’incisione non era praticata sul colore per mettere in luce l’argento sottostante, ma direttamente sulla foglia metallica, prima ancora della stesura del pigmento, per ottenere un effetto materico, di tessitura della veste, che probabilmente doveva addirittura suggerire ai contemporanei, l’individuazione di una stoffa specifica.
Tale attenzione agli effetti naturalistici della veste è particolarmente evidente nel tipo di incisione che si individua sul San Giuliano dove la distribuzione, la lunghezza dei singoli tratti, la profondità delle incisioni, suggeriscono non solo una stoffa di tipo “pesante” ma anche le luci e le ombre delle pieghe tramite l’infittirsi o il diradarsi del tratto. Sia per il tipo di effetto materico ricercato, sia per il colore, Masolino sembrerebbe aver qui riprodotto un abito di “velluto pavonazzo”.
Altri importantissimi elementi di innovazione tecnica sono verificabili sul San Giuliano e contribuiscono a rafforzare l’ipotesi di una conoscenza altera acquisita da Masolino in ambiente extra italiano. Gli incarnati non sono costruiti secondo la tradizionale tecnica del verdaccio di base, cui si conforma indistintamente quasi tutta la pittura fiorentina del Trecento e del Quattrocento, ma con pennellate sovrapposte e affiancate di bianco, rosa e arancio. Tecnica che è stata osservata e analizzata scientificamente su altri tre dipinti di Masolino, appartenenti al Polittico bifronte per i Colonna.[5]
Il dato di gran lunga più significativo è comunque quello dell’utilizzo del medium a olio, almeno per alcuni pigmenti: è infatti nella stesura calda, corposa e modulata della fodera di pelliccia del manto del Santo che si individua con facilità l’uso di un legante a olio, l’unico che può permettere le pennellate larghe e coprenti con cui è steso il pigmento. Il ritrovarne l’applicazione anche sul San Giuliano, oltre a costituire una evidente anticipazione cronologica di quanto finora conosciuto, fornisce una prova in più per attribuire la paternità di questa introduzione su larga scala a Masolino.
Da quanto detto finora circa le molte innovazioni riscontrabili nel dipinto in esame, sembra infatti sempre più plausibile l’ipotesi di una diretta conoscenza da parte dell’artista di tecniche nuove, imparate in contesti estranei non solo a Firenze, ma probabilmente anche all’Italia. Le novità che egli introduce vengono recepite con rapidità quasi incredibile da coloro che entrano in rapporto con lui.
La committenza; la collaborazione
Nell’affrontare lo studio della cappella Carnesecchi è particolarmente significativo l’intreccio di dati storici che emerge dall’esame della committenza. Il patronato del secondo altare della navata sinistra di Santa Maria Maggiore, secondo l’attestazione delle fonti, apparteneva ai Carnesecchi, famiglia magnatizia del popolo di Santa Maria Maggiore: il nostro trittico fu con ogni probabilità commissionato da Paolo di Berto di Garzino dei Carnesecchi, patrono della cappella dal 1406 al 1427, anno della sua morte. Il dato più significativo della storia della famiglia Carnesecchi è la loro origine nel Valdarno e, nello specifico, a Cascia di Reggello, il luogo da cui proviene il cosiddetto Trittico di San Giovenale, realizzato nel 1422 da Masaccio.
La famiglia Carnesecchi, inoltre, interviene in concomitanza di un’altra impresa artistica che può essere all’origine della scelta degli artisti per l’altare di famiglia in Santa Maria Maggiore: la Madonna dell’Umiltà, oggi a Brema, commissionata nel 1423 a Masolino. Infatti la tavola di Brema presenta sulla base lo stemma dei Carnesecchi insieme a quello dei Boni, loro consorti, forse in relazione ad un matrimonio tra membri delle due famiglie.[6]
Ne consegue un interessante rapporto incrociato di committenza che sfuma quasi nel mecenatismo: i Carnesecchi avrebbero avuto modo, già dai primissimi anni del terzo decennio del Quattrocento, di conoscere, artisticamente parlando, sia Masaccio che Masolino, l’uno al suo esordio (per quanto ci è dato di conoscere fin qui), l’altro al suo rientro a Firenze. Queste considerazioni circa la committenza, rendono verosimile che l’esecuzione del Trittico Carnesecchi si situi intorno al 1423.[7]
Di enorme interesse è dunque la possibilità che l’opera segni il debutto della collaborazione tra Masaccio e Masolino, collaborazione che dovette certamente essere un rapporto legalmente codificato secondo la prassi e le leggi dell’epoca, e non semplicemente nata su base spontanea, di “affinità elettive”, fatto che non può in alcun modo inserirsi nelle costumanze di un’epoca e di un mestiere rigidamente codificato..
Rileggendo i documenti è possibile azzardare una ricostruzione cronologica degli eventi che può anche in qualche modo contribuire ad un chiarimento della cronologia delle opere dei due maestri e delle reciproche influenze e degli interscambi stilistici e tecnici. Sembrerebbe dunque che il rientro di Masolino a Firenze sia coinciso con una compagnia, precedente a quella con Masaccio, stipulata con Francesco d’Antonio, artista minore, uscito dall’orbita di Lorenzo Monaco.
Il nome di Tommaso di Cristofano ricorre spesso, infatti, collegato a quello di Francesco d’Antonio, il quale gli fa da garante proprio nel primo dei documenti fiorentini, il contratto di affitto per una casa nel 1422.[8] E’ d’altronde verosimile che Masolino, assente dal panorama fiorentino fino a quella data che lo vede già trentottenne, sia stato attivo fuori dalla città e vi sia ritornato solo in vista di precise occasioni di lavoro. Un contratto di compagnia, oltre ad assicurargli l’appoggio economico e di mercato di un artista ben assestato in loco, poteva anche esonerarlo dall’onere di doversi aprire una bottega pagando la notevole tassa d’entratura connessa all’esercizio commerciale.
Il rapporto di compagnia, come ormai dovrebbe essere ben noto,[9] non presupponeva necessariamente la conduzione di attività in comune: i compagni avevano esclusivamente l’obbligo di condividere guadagni e perdite. Ma nel caso di Francesco d’Antonio e Masolino è possibile identificare una attività artistica comune, nei brani superstiti di affreschi della Cappella della Croce della chiesa di Santo Stefano degli Agostiniani ad Empoli.[10] La compagnia tra i due artisti venne sciolta, forse alla scadenza prevista, forse con anticipo, ma certo non in modo pacifico, dato che nel marzo del 1424 si ha un atto legale inerente la composizione di una lite tra Masolino e Francesco d’Antonio.[11]
Il documento non è specifico nel merito di queste “omnia eorum lithes“, ma il fatto che come arbitri vengano eletti due pittori fa chiaramente intendere che essi erano ritenuti competenti in merito all’argomento del contendere. La data del documento è evidentemente solo un terminus ante quem della data di scioglimento della compagnia, ma attesta, in modo certo, che prima del 1424 Masolino era libero da vincoli legali e quindi poteva stipulare compagnia con altro artista, Masaccio dunque.
note
[1] F. ALBERTINI, Memoriale, 1510, cita la chiesa di Santa Maria Maggiore “nella quale è una tavola di Masaccio: la predella et lo archo di sopra è di Paolo Uccelli”.
G. VASARI, Le Vite, a cura di G. Milanesi, Firenze 1906, vol. II, pp. … e p. 292; Per le vicende storiche di Santa Maria Maggiore si veda l’excursus fattone da A. PARRONCHI, “Una Nunziatina di Paolo Uccello”. Ricostruzione della cappella Carnesecchi, in Studi sulla “dolce” prospettiva, Milano 1964, pp. 182-225.
Sul ritrovamento del San Giuliano e della Madonna col Bambino cfr. Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Firenze, Archivio dell’Ufficio Catalogo, Schede Carocci, San Giuliano a Settimo. Una nota, in data 7 marzo 1889, è aggiunta in calce all’inventario Pini del 1863 e recita: “Tavola terminata a forma di cuspide nella punta mozzata, raffigurante S. Giuliano, dipinto a tempera sul fondo dell’oro, del XIV secolo. Guasta assai e ridipinta in parte. Era in canonica e dal sottoscritto fu fatta allocare per sicurezza nella chiesa”. Ivi, chiesa di Santa Maria a Novoli. La scheda, del 25 febbraio 1913, recita:”Antica tavola rappresentante Nostra Donna vestita del manto azzurro. Sta seduta in trono e tiene sul braccio sinistro il Bambino Gesù che ha il corpo cinto di rossa veste. Dipinto a tempera in fondo oro in tavola centinata, a sesto acuto nella parte superiore. Di Giotto. In buono stato di conservazione, restaurata. Appesa ad una parete di una stanza della canonica”.
Notizia a stampa in R. OFFNER, Un pannello di Masolino a San Giuliano a Settimo, in “Dedalo”, III, 1922-23, pp. 636-641; lo studioso tedesco contestualmente pubblicò anche la Madonna di Novoli. Cfr. anche P. TOESCA, Frammento di un polittico di Masolino, in “Bollettino d’Arte”, III, 1923-24, pp. 3-6
[2] Nel 1922 Carlo Gamba, allora ispettore onorario alle Belle Arti, aveva scritto una relazione circa un sopralluogo da lui effettuato insieme a Pietro Toesca alla chiesa di San Giuliano: consigliando di rimuovere al più presto il dipinto, poiché “Acton, Berenson e compagni” hanno fatto ripetute offerte per acquistarlo. Pochissimi giorni dopo l’opera venne ritirata e portata alla Galleria degli Uffizi, ufficialmente per essere restaurata.
In realtà sappiamo che il restauro avvenne solo intorno al 1935 (forse poco prima, in occasione dell’esposizione del dipinto alla Mostra di Firenze Sacra del 1933); da tutto il carteggio si ricava perciò l’impressione che il ritiro del dipinto fosse motivato da legittime preoccupazioni circa possibili alienazioni e che il restauro fosse solo una scusa addotta.
[3] R. LONGHI, Fatti di Masolino e Masaccio, 1940, p. 32; U. PROCACCI, Sulla cronologia cit.; P. JOANNIDES, The Colonna Triptych by Masolino and Masaccio: Collaboration and Chronology, in “Arte Cristiana”, LXXII, 1988, pp. 339-346p. 346, nota 5, che sottolinea come nella prima edizione delle Vite il Vasari dia a Masaccio soltanto la predella del polittico.
Così per esempio il manoscritto di Marcello Oretti : “S. Maria Maggiore dove stanno i Padri Carmelitani della Congregazione di Mantova … la predella di Masaccio, S. Cattarina, S. Giuliano, Natività di Christo è di Masaccio”. (P. CARNEVALI, Dal manoscritto B107 di Marcello Oretti: alcune carte su Firenze, in “Annali della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi”, III, 1996, pp. 99-157)
[4] Rientra invece nella più pura tradizione fiorentina l’utilizzo di battiloro di competenza professionale eccezionale: splendide sono infatti le bulinature dell’aureola del San Giuliano, certo frutto di un’abilità fuori dal comune, ma anche di una tradizione ben radicata nella Firenze del Trecento e del Quattrocento. Firenze possedeva in questo campo senz’altro i migliori maestri, quei “battiloro” che spesso, proprio per affinità di mestiere con i pittori, si immatricolavano all’Arte dei Medici e Speziali e per alcuni dei quali ci sono testimoniati dai documenti notevoli successi commerciali (cfr. U. PROCACCI, Documenti e ricerche sopra Masaccio e la sua famiglia – 2 -, in “Rivista d’Arte”, XVII, 1953, pp. 91-111; A. GUIDOTTI, Battiloro e dipintori a Firenze fra Tre e Quattrocento: Bastiano di Giovanni e la sua clientela (dal catasto del 1427), in Scritti di Storia dell’arte in onore di Roberto Salvini, Firenze 1984, pp. 239-249; C. MERZENICH, Dorature e policromie delle parti architettoniche nelle tavole d’altare toscane fra Trecento e Quattrocento, in “Kermes”, IX, n° 26, maggio-agosto, 1996, pp. 51-71).
Sempre circa le aureole dei due pannelli principali del Trittico Carnesecchi vogliamo evidenziare una particolarità interessante per approfondire le modalità di costruzione dei dipinti: i nimbi, cerchi perfetti, erano tracciati col compasso, facendo centro in mezzo alle soppracciglia, se la figura era frontale, all’angolo dell’occhio, se la figura era di tre quarti o di profilo. E le tracce della punta del compasso sono perfettamente riscontrabile sia dalla fotografia del pannello con la Vergine che dalla riflettografia del San Giuliano.
La tradizione di questo tipo di costruzione è molto antica (cfr. R. BELLUCCI e altri, Tecniche pittoriche del XIII secolo: il dossale di Meliore di Jacopo in San Leolino a Panzano, in “OPD Restauro. Rivista dell’Opificio delle Pietre Dure e Laboratori di Restauro di Firenze”, II, 1990, pp. 186-211; D. BOMFORD, J. DUNKERTON, D. GORDON, A. ROY, Art in the Making. Italian painting before 1400, catalogo della mostra, Londra 1989, pp. 21-26), ma evidentemente persiste a lungo, anche in un’epoca di cambiamenti e in un artista ricco di innovazioni tecniche come Masolino.
[5] C. B. STREHLKE, M. TUKER; The Santa Maria Maggiore Altarpiece: new observations, in “Arte Cristiana”, LXXV, 1987, pp. 113 e 123 nota 20.
[6] G. PAULI, Katalog der Gemalde und Bildhauerwerke in der Kunsthalle zu Bremen, Brema 1913, p. 23.
[7] Per l’ipotesi che la cappella Carnesecchi sia stato l’avvio della collaborazione tra Masolino e Masaccio, cfr. L. BERTI, Masaccio 1422, in “Commentarii”, II, 1961, pp. 84-107.
[8] P. LEE ROBERTS, Masolino da Panicale, Oxford 1993, pp.167-168, doc. II
[9] U. PROCCACCI, Di Jacopo d’Antonio e delle compagnie di dipintori del corso degli Adimari, in “Rivista d’Arte”, XXX, 1960
[10] J. VAN WANOIJEN, Starnina e il Gotico Internazionale a Firenze, Firenze 1983
[11] P. LEE ROBERTS, Op. cit., p. 168, doc. V. Si ritrovano ancora i nomi di Masolino e Francesco d’Antonio citati insieme, in atti successivi al 1423 del Tribunale di Mercatanzia o addirittura, tra liste di debitori e creditori del Catasto del 1427. Ma sempre si tratta di documentazione “ante quem”, che si riferisce ad un’attività in comune precedente, in cui il dato senz’altro più significativo è quello della duplice intestazione del debito, a Masolino e Francesco d’Antonio, appunto, come avveniva esclusivamente per rapporti di compagnia (e non certo in un legame di lavoro gerarchico, in cui mai il lavorante stipendiato veniva citato, non avendo rilevanza legale né figura giuridica).