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Scatti di Donatello

 

di John Pope-Hennessy

 

Recensione a:

Donatello: Profeta della visione moderna

fotografie di David Finn, testo di Frederick Hartt

Abrams, 486, 430 illustrazioni pp., $ 85,00

 

traduzione di Andreina Mancini

di:

Shots of Donatello

By John Pope-Hennessy

Reviewed:

Donatello: Prophet of Modern Vision

photographs by David Finn, text by Frederick Hartt

Abrams, 486, 430 illustrations pp., $85.00

 

da: New York Review del 24 Gennaio del 1974

 

 

Sir John Pope-Hennessy

 

Devo dichiarare il mio interesse per questo libro. Tre o quattro anni fa – credo fosse il 1969 – mi sono state mostrate alcune fotografie delle sculture di Donatello. Il fotografo, il signor David Finn, era un appassionato e, mentre le appoggiava su una parete del mio ufficio, non ebbi il coraggio di dire quanto le ritenessi insensibili e false. All’inizio del 1970 fui informato, con mia grande sorpresa, che sarebbero state pubblicate e Abrams mi chiese di scrivere il testo introduttivo.

Dalla corrispondenza divenne chiaro che ciò che era stato progettato era una enormità di libro; quindici per diciotto pollici, sedici per venti, nessun formato era troppo grande. Rifiutai il folle progetto e le fotografie sono state pubblicate in questo volume (in un formato leggermente più piccolo: misurano solo tredici pollici per sedici) con la stampa tipografica del professor Frederick Hartt.

Nessuno che sfogli dei libri sulla scultura italiana ha bisogno di ricordare il disastro  che la macchina fotografica mal gestita può fare di Donatello. Non è che esista un modo giusto o sbagliato di fotografare le sculture di Donatello. Come tutte le grandi opere d’arte, possono essere osservate da diversi punti di vista.

Il problema è che Donatello è un artista emotivo e la tentazione di trattare le sue sculture come qualcosa da dare in pasto  alla macchina fotografica è quindi molto forte. Se non si resiste a questa tentazione, le fotografie che ne derivano offriranno un’impressione fuorviante non solo delle singole sculture, ma della stessa identità creativa dell’artista.

Da quanto emerge da questo libro, Finn è un fotografo emotivo e piuttosto autoindulgente, la cui preoccupazione è non tanto la verità quanto la fotografia come registrazione di una reazione emotiva.

Sembra che soffra di daltonismo. In questo libro ci sono intere opere – la Cantoria, i Pulpiti di San Lorenzo e l’Altare maggiore di Padova sono tre di queste – in cui la tonalità di tutte le tavole è, oggettivamente, completamente sbagliata, e altre in cui cambia bruscamente a metà come in un film di Warhol. È anche insensibile alla consistenza.

Le superfici dei bronzi sono spesso interrotte da macchie di luce riflessa che possono sembrare suggestive ma sono artificiali e non veritiere, e un buon numero di fotografie dei rilievi sono illuminate dal lato sbagliato. Molte sculture sono fotografate da sotto, in un modo che ne falsifica lo stile e talvolta le rende illeggibili.

Sarebbe ingiusto insistere che in un libro sulla scultura italiana si debba evitare l’ingrandimento, ma in questo libro i dettagli dei rilievi sono ingranditi a tal punto da renderli quasi insignificanti, come testimonia una tavola della gamba destra della Madonna delle Nuvole di Boston che è molto più grande dell’intero rilievo, e cinque orribili ingrandimenti del Compianto sul Cristo morto di Londra.

A questo si aggiunge la caratteristica di un alto grado di eccentricità. Quell’ombelico dalla forma strana che ammicca come un occhio osceno dal centro di tre foto può davvero appartenere al David di bronzo? E che dire delle tre lastre sbiadite che mostrano il dorso del naso e l’occhio destro, l’orecchio destro e la narice destra della Madonna Pazzi di Berlino?

Il signor Finn risponderebbe senza dubbio che è così che vede le sculture, che gli sembrano dei Manzù, dei Rude e dei Carpeaux color formaggio, ma il fatto è che la frontiera tra interpretazione e fraintendimento è violata con tale insistenza da privare il suo libro di ogni validità. Donatello, Profeta della Visione Moderna è chiamato in virtù di queste tavole particolari, e mai il povero vecchio profeta è stato travisato in questo modo.

A prescindere dai loro demeriti, le tavole vengono elogiate con entusiasmo dal professor Hartt “non solo per la loro sorprendente qualità, ma anche perché mostravano così chiaramente ciò che avevo cercato di dire nelle conferenze e nei seminari”. Specialista in retorica, li inonda di prosa appassionata. Il San Luigi di Tolosa in bronzo “è così affascinante che si può solo paragonare alle descrizioni verbali dei colossi perduti in oro e avorio di Fidia”.

Il Cristo Crocifisso di Santa Croce può sembrare morto a voi e a me, ma per il professore, mentre “osserva il leggero movimento delle gambe e l’apparente ansimare del petto e la costrizione dei muscoli addominali, è difficile sfuggire all’impressione che la figura sulla croce sia ancora debolmente viva”.

Il San Giorgio, “palpitante di vita e di emozione”, guarda “verso l’esterno e verso l’alto come se ascoltasse la voce di Dio, che non può vedere, ma che è visibile a noi in un rilievo scolpito da Donatello nel timpano sopra la sua testa”, e questo insieme al rilievo sottostante “segnano uno dei punti di svolta della storia umana”. Per quanto riguarda il Crocifisso nella Basilica del Santo a Padova, “la figura sembra quasi vibrare davanti a noi, le linee risuonano come corde di violino”.

Continuamente ci troviamo di fronte a un contrasto clamoroso tra la genialità dei passaggi che il professor Hartt ritiene di Donatello e l’inettitudine di quelli che attribuisce alla bottega dello scultore. Egli si attiene al quadro fattuale del catalogo di Janson del 1957, con la motivazione che esso è “di per sé un evento storico, in virtù del quale sia la ripetizione che la competizione sono impensabili”. Dalla prima all’ultima pagina non c’è traccia di una riflessione seria e indipendente su Donatello.

Evento storico o no, quello di Janson è un libro magistrale, lucido, approfondito, equilibrato. Ma non è, e non si può pretendere che lo sia, l’ultima parola su Donatello. Uno dei risultati raggiunti è stato quello di eliminare il sottobosco.

Nei palazzi fiorentini dell’Ottocento, Donatello era un nome generico per qualsiasi scultura quattrocentesca decente, e quando le sculture venivano acquistate per Londra, Parigi e Berlino, di solito venivano acquistate come dei Donatello. Nella tradizione museale tedesca le denominazioni erano immutabili.

Così nel 1842 il museo di Berlino acquistò un rilievo donatelliano, la Madonna Orlandini, come opera di Donatello. Più di quarant’anni dopo il rilievo fu affiancato da un vero rilievo donatelliano dello stesso tipo, la Madonna Pazzi. Ma il secondo rilievo non cancellò il primo. Al contrario, venivano messi insieme, e il processo si ripeteva fino a quando qualsiasi cosa, assolutamente qualsiasi, poteva essere di Donatello.

Questo era un campo in cui l’esperto, così come emergeva dalle menti scettiche di Morelli e del giovane Berenson, non aveva alcun ruolo, e solo negli anni Trenta uno studioso ungherese, Jeno Lanyi, fece i primi passi per stabilire ciò che fino ad allora era mancato, una metodologia per lo studio di Donatello.

L’obiettivo di Lanyi era una monografia, e si rese conto che la prima fase del suo lavoro doveva essere la costruzione di un archivio sistematico di fotografie serie e otticamente veritiere. Quando morì durante la guerra, il progetto era poco più che iniziato, ma, a perenne beneficio degli studenti di scultura italiana, fu ripreso e portato a termine dal professor H.W. Janson.

Il punto forte di Lanyi era l’analisi visiva; egli credeva che le opere d’arte rivelassero i loro segreti solo se venivano esaminate con una concentrazione costante. Il punto forte di Janson era la ragione; per lui la verità doveva essere ricercata attraverso una dialettica continua in cui la mente era più importante dell’occhio.

Entrambi erano fallibili, Lanyi perché l’autoipnosi che coltivava davanti alle opere d’arte conteneva un forte elemento soggettivo, Janson perché gli artisti obbediscono a una logica interiore che non è necessariamente legata ai processi logici che noi comprendiamo. Entrambi erano contrazionisti che miravano a stabilire una base di certezze, una certa quantità di opere che potessero essere accettate con sicurezza come opere di Donatello.

La conoscenza della scultura italiana è molto più impegnativa rispetto alla conoscenza della pittura italiana, e non sorprende che questo utile esercizio,  sia da parte di Janson che da parte di Lanyi, sia stato una questione dall’esito piuttosto incerto. Inclusione e omissione sono entrambe presenti. Il catalogo Janson comprende tre o quattro opere che non possono essere attribuite a Donatello.

Una di queste è il David Martelli di Washington, opera incompiuta di Antonio Rossellino; un’altra è il Battista Martelli, opera caratteristica di Desiderio da Settignano, sebbene ancora guardata da Hartt come “una delle opere più toccanti del tardo Donatello”; e una terza è il Busto di giovane in bronzo del Bargello, la cui paternità fu negata, a mio avviso correttamente, da Lanyi e riaffermata da Janson.

Cancellare opere dalla produzione di un artista è, a mio avviso, un peccato molto più grave che attribuirgli opere che non ha eseguito. Una delle sculture oggi comunemente omesse è il rilievo d’argento e d’oro noto come la Crocifissione Medici del Bargello.

Dopo averlo esaminato nuovamente la scorsa estate per alcune settimane, sono convinto che si tratti di un’opera superlativamente bella e perfettamente autentica, uno dei grandi capolavori della vecchiaia di Donatello, che però Lanyi e Janson hanno rifiutato, l’uno perché gli sembrava non corrispondere a qualche nebuloso criterio di qualità, l’altro perché si trattava di un’anomalia, di cui non riusciva a ricostruire la genesi e che apparentemente era incompatibile con la concezione accademica dello stile di Donatello che egli deduceva da altre opere.

Il passaggio su questo rilievo nel catalogo di Janson è un’illustrazione di ciò che accade quando gli storici dell’arte si permettono di pensare che gli artisti pensino come gli storici dell’arte.

La prima difficoltà che si incontra scrivendo di Donatello è che il suo pensiero (in misura molto maggiore rispetto a quello di qualsiasi altro artista italiano del Quattrocento) era empirico, e che era dotato di un’inventiva eccezionale.

Sembra che lavorasse rapidamente e che il suo interesse non fosse la rifinitura (per quanto alcune sculture siano ben rifinite), ma l’atto creativo. Impaziente, forse impetuoso, ritoccava le sue sculture, a volte in modo radicale, dopo averle terminate (ne è un esempio il San Luigi di Tolosa). Nei suoi rilievi si preoccupava della creazione di un’illusione spaziale piuttosto che del metodo con cui questa veniva realizzata.

Nel caso del pulpito di Prato, realizzò dei modelli che vennero riportati in marmo dalla sua bottega, e solo su due dei rilievi che lo compongono lavorò molto in prima persona. A Padova modellò tutti i rilievi degli angeli per l’altare e, dopo la loro fusione, lasciò l’esecuzione ad altre mani.

I due pulpiti di San Lorenzo a Firenze furono prodotti essenzialmente nello stesso modo (Hartt, il perfetto giansenista, pensa ancora che i rilievi siano stati progettati fin dall’inizio per i pulpiti, anche se Volker Herzner ha dimostrato che non è così).

Ne consegue che nell’attribuire o negare opere a Donatello il fattore determinante deve essere il contenuto creativo della scultura, non il suo carattere superficiale. Nessuno potrebbe seriamente ritenere che un artista della sua vivacità e urgenza immaginativa abbia prodotto solo le opere documentate: che i suoi dieci anni a Padova, ad esempio, siano stati dedicati esclusivamente alle sculture in bronzo dell’Altare Maggiore, del Crocifisso e del Gattamelata.

E in effetti possediamo un buon numero di opere secondarie, per lo più sculture modellate, che oggi sono generalmente ignorate, anche se bisogna tenerne conto se si vuole dare corpo allo scheletrico Donatello dei contrazionisti.

La seconda difficoltà è che abbiamo solo una conoscenza imperfetta dell’evoluzione dello stile di Donatello. Non esiste, ad esempio, una data per l’Annunciazione Cavalcanti di Santa Croce (ritenuta dal Vasari un’opera giovanile e considerata tale nell’Ottocento da alcuni studiosi tedeschi il cui rispetto per l’autorità trionfava sul buon senso); non esiste una data per il David in bronzo (che è stato collocato tra il 1430 e il 1455); non esiste una data per le sculture della Sagrestia Vecchia.

Generalmente si ritiene che l’Annunciazione sia stata scolpita verso la metà degli anni Trenta del Quattrocento (anche se Janson propone una datazione precedente); che il David sia stato scolpito probabilmente verso il 1440 (anche in questo caso la datazione di Janson è anteriore); e che i rilievi e le porte della Sagrestia Vecchia siano stati completati probabilmente entro il 1443.

Ma ipotesi di questo genere non possono sostituire la conoscenza esatta. Se una di esse si rivelasse errata, l’intero quadro dello sviluppo di Donatello dovrebbe essere rivisto.

Inoltre, vi è un certo numero di opere per le quali la datazione convenzionale è palesemente errata. Una di queste è la Madonna Pazzi di Berlino, alla quale Hartt, come sempre seguendo Janson, attribuisce come datazione il 1422. È inconcepibile che questo rilievo sia stato scolpito quattro anni prima della Madonna pisana di Masaccio, e lo stile fa presumere che risalga a una decina di anni più tardi rispetto a quanto si ritiene.

La scheda di Hartt relativa a quest’opera è sconcertante. “Questo piccolo rilievo”, lo chiama, e sarebbe effettivamente un piccolo rilievo se, come ci dice, misurasse diciassette pollici per quindici. Le sue dimensioni reali sono settantacinque centimetri per settanta.

Un’altra è la Festa di Erode di Lille, che Janson,  seguito da Hartt, data al 1435 circa. Ancora una volta questo non è sufficiente. Il rilievo è basato su un sistema modulare come quello della Flagellazione di Piero della Francesca a Urbino, e appartiene a una tipologia di composizione che compare in pittura solo verso il 1450.

La struttura e lo stile delle figure seguono, e non precedono, quelli dei rilievi narrativi in bronzo di Padova, e la tecnica differisce da quella dell’Ascensione in marmo di Londra. “Concepita con passione e scolpita con furore”, dice Hartt (che ne ha frainteso la condizione), ma nell’originale è un’opera stanca, piuttosto deludente, che manca dell’incisività dei precedenti bassorilievi in marmo e sembra rappresentare un ritorno di Donatello, all’inizio della vecchiaia, a una forma d’arte che aveva praticato in modo così brillante venti o venticinque anni prima.

La terza difficoltà è che Donatello deve essere visto come un artista e non semplicemente come uno scultore. Oggi accettiamo l’idea che ciò che differenzia la scultura dalla pittura sia la presenza della terza dimensione. Le opere sono dipinti se sono piatte e sculture se sono in rilievo. Ma questa distinzione non sarebbe stata accettata nel XV secolo.

Leonardo, ad esempio, classifica i bassorilievi che hanno la natura della pittura come dipinti, non come sculture, e il fatto è che, a partire dal 1420 circa, Donatello lavora abitualmente in una sorta di terra di nessuno dove si incontrano pittura e scultura. La prova di ciò è molto evidente. Abbiamo un disegno bidimensionale colorato, la grande finestra dell’Incoronazione della Vergine in Duomo (che viene ignorata da Janson, da Hartt e da ogni altro studioso di Donatello dai tempi di Kauffman), e due statue dipinte a tutto tondo, il Battista a Venezia e la Maddalena a Firenze.

Dopo essere stata spogliata e prima di essere abbellita da restauri superflui, la Maddalena si è dimostrata, con i suoi denti bianchi erosi e la pelle segnata dal sole, appartenente alla stessa classe di immagini del San Girolamo di Andrea del Castagno nella SS.Annunziata e di fatto la più potente rappresentazione rimasta di questo tipo.

Hartt osserva che “l’oro dei capelli della Maddalena conferisce uno strano lirismo all’orrore delle forme, e fa emergere innumerevoli ricchezze di stile che il grande maestro può trovare nei suoi capelli sporchi”, ma non dice nulla sul modo in cui i capelli sono resi, con piccoli pezzi di legno giuntati come grumi di argilla sul tronco principale.

Abbiamo rilievi in bronzo che sono investiti, attraverso l’uso dell’argentatura e della doratura, di proprietà coloristiche, e uno, la Crocifissione Medici, in cui la damascatura è impiegata per dare alla scena un nuovo carattere luministico.

Abbiamo un rilievo in pietra, l‘Annunciazione Cavalcanti, decorato con dorature illusionistiche, e bassorilievi in marmo, l’Assunzione di Napoli e l’Ascensione di Londra, dove il metodo di intaglio è diretto a creare un’illusione di luce e atmosfera.

Se è così, è illogico studiare Donatello da solo, senza fare riferimento alla pittura contemporanea. È generalmente accettato che il tema dell’Ascensione di Londra dipenda da quello del Tributo di Masaccio. Ma che dire dell’equazione tra la struttura del San Giovanni a Patmos della Sagrestia Vecchia e quella dell’Adorazione dei Magi di Domenico Veneziano a Berlino?

Che rapporto c’è tra gli elaborati schemi prospettici delle Scene della vita di Sant’Antonio a Padova e quelli dei taccuini di Jacopo Bellini? Che rapporto c’è tra il Martirio di San Lorenzo di Donatello, con il suo tetto sporgente dal piano del rilievo e il suo profondo spazio interno, e l’Ultima Cena di Andrea del Castagno?

Le indicazioni sono ambigue e possono essere lette in vari modi, ma c’è almeno un motivo prima facie per supporre che Donatello, grande scultore com’era, fosse più influenzabile di quanto i libri su di lui ammettano.

Nessun altro scultore del Quattrocento manifesta inclinazioni pittoriche forti la metà di quelle di Donatello, e sono alla base del fenomeno che in questo libro sconsiderato viene definita “visione moderna”, e che è meglio accettare per quello che è, un linguaggio ispirato e altamente personale che non ha alcuna attinenza con l’arte moderna e nessun equivalente nella scultura rinascimentale.

 


 

David Finn

 

La replica di David Finn:

Candid Camera

di David Finn

4 Aprile 1974

 

In risposta a:

Scatti di Donatello dal numero del 24 gennaio 1974

 

Alla Redazione:

Sono rimasto stupito nel leggere la recensione al vetriolo di John Pope-Hennessy su Donatello, Prophet of Modern Vision [NYR, gennaio], visto che in due occasioni (ne cita solo una) si è dato un gran da fare per dirmi quanto gli piacessero le mie fotografie.

Scrive che non ha avuto il coraggio di dirmi quanto riteneva che fossero “insensibili e false”. È stato gentile da parte sua, ma perché mi ha detto che erano le migliori fotografie di Donatello che avesse mai visto?

Afferma anche di essere rimasto “sorpreso” nel ricevere in seguito una lettera di Milton Fox che descriveva la sua “folle” idea di pubblicare le fotografie in un grande formato, sebbene io avessi chiarito che lo scopo della mia visita era di invitarlo a scrivere il testo per tale pubblicazione  (cosa che lui rifiutò a causa di “altri impegni”).

Mi chiedo anche – con stupore -, cosa l’abbia spinto a invitarmi di nuovo nel suo ufficio l’anno scorso quando ha accolto con altrettanto entusiasmo le prime bozze del libro.

Per fortuna c’era con me una persona che può testimoniare i suoi apprezzamenti lusinghieri. Quella che non gli è piaciuta è stata la mia dichiarazione che l’autore, il professor Hartt, e io abbiamo contestato alcune delle sue posizioni più radicali su Donatello.

Forse anche questo lo ha mal disposto nei confronti delle fotografie. In ogni caso, o non è sincero ora, o era disonesto allora; l’una o l’altra cosa è imperdonabile per un uomo della statura di Sir John. Quando le opinioni sono richieste onestamente, dovrebbero essere fornite onestamente. Comportandosi diversamente si  fa un torto a chi chiede un parere e si disonora un’autorità altrimenti rispettata.

Ammesso che ora intenda ciò che scrive, ha ragione a descrivermi come un “appassionato” dell’opera di Donatello. Però continua a definirmi un “fotografo eccitabile e piuttosto autoindulgente, la cui preoccupazione non è tanto la verità [sic] quanto la fotografia come registrazione di una risposta emotiva”!

Questo è più un insulto all’arte della fotografia che una critica al mio lavoro.

Mette in discussione l’idea stessa di fare studi fotografici sulla scultura come mezzo per scoprire e registrare l’impatto dell’opera. Nessuno che rispetti la fotografia come forma d’arte sarebbe d’accordo con lui sul fatto che questo trasforma la scultura in “foraggio per la macchina fotografica”.

Per quanto riguarda la sua obiezione ai dettagli ingranditi, potrebbe fare riferimento alla spiegazione di Alfred Stieglitz (citata in The Daybooks di Edward Weston) sul motivo per cui metteva il suo “obiettivo a un piede dal volto del modello perché… quando si parla intimamente non si sta a dieci piedi di distanza”.

Non si sta a dieci piedi di distanza neppure per vedere il magnifico rilievo della Madonna Pazzi, e io ho messo il mio obiettivo a un piede di distanza dalla scultura  per mostrare la bellezza dei dettagli finemente scolpiti.

Howard Conant, nella sua recensione di Donatello sulla rivista Arts Magazine, ha scelto queste particolari fotografie in segno di speciale apprezzamento perché rivelavano “forme scultoree avvincenti, simili a quelle di Arp” e costituivano “un’affascinante estensione della teoria di Malraux del ‘museo senza pareti’, sulla natura esplicativa, al di là dell’originale, fuori dal contesto e tuttavia peculiarmente contestualizzata, degli ingrandimenti fotografici delle opere d’arte”.

Sir John, che ritiene che queste “lastre macchiate” violino “la frontiera tra l’interpretazione e l’errata interpretazione”, sembra pronto a negare ai fotografi la missione dell’artista di “entrare in profondità nella natura più intima” delle cose (Stieglitz).

Vorrei aggiungere che si sbaglia sull’illuminazione di queste fotografie. Nel tentativo di riprodurre una visione non distorta di Donatello, la maggior parte delle sculture è stata fotografata senza alcuna illuminazione artificiale.

In alcuni casi ciò ha richiesto esposizioni lunghe anche otto minuti. Quando sono state utilizzate delle luci, queste sono sempre state posizionate sul lato della fonte di luce naturale, evitando così le ombre ingannevoli che hanno rovinato molte fotografie precedenti.

Le sue osservazioni sul colore tradiscono purtroppo un’ignoranza dei processi fotografici e di stampa. Ciò non sorprende, dato che i suoi volumi sulla scultura italiana del Rinascimento e sul Ritratto nel Rinascimento non contengono una sola tavola a colori (a parte una vistosa mostruosità multicolore sulla copertina di quest’ultimo, per la quale non possiamo biasimarlo).

Tutte le pellicole a colori vengono distorte dalle lunghe esposizioni, e gli stampatori giapponesi di questo libro hanno fatto ben tre serie di prove per correggere questa distorsione. Nella maggior parte delle 193 tavole a colori hanno fatto un lavoro meraviglioso, suscitando grandi elogi pubblici da parte di Kenneth Clark, Henry Moore, Thomas Hoving, James Johnson Sweeney e di molti altri.  Sir John ha preferito soffermarsi su quelle poche tavole che hanno avuto meno successo.

Con la sua dichiarata mancanza di franchezza nei commenti iniziali, la sua attuale percezione del ruolo della fotografia come forma non artistica e le sue dichiarazioni fuorvianti su illuminazione e colore, Sir John ha scritto una recensione assolutamente sconcertante e ha reso un pessimo servizio al settore dell’editoria d’arte.

 

David Finn

New York, 4 aprile 1974

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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