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Marino Marini

(1901, Pistoia – 1980, Viareggio)

 

La Biografia, da:

Scultura nell’Italia Fascista, a cura di Penelope Curtis.

Catalogo della mostra

Scultura lingua morta. Scultura nell’Italia fascista,

tenutasi al Mart di Rovereto dal 28 ottobre 2003 al 14 dicembre 2003

 

 

 

La forbice temporale indica due momenti emblematici nella biografia di Marini: nel 1922 decide di dedicarsi prevalentemente alla scultura, dopo gli studi condotti all’Accademia di Belle Arti di Firenze sotto la guida di Chini e Trentacoste: nel 1942 insegna scultura all’ Accademia di Belle Arti di Brera a Milano.

Cattedra, appena ottenuta dopo lunghi anni di docenza all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza (1929-40), dove succede ad Arturo Martini, che tuttavia presto abbandona per rifugiarsi in Svizzera durante tutto il periodo della guerra.1

In questo arco d’anni l’artista compie tutte le scelte di campo che lo porteranno a raggiungere la maturità creativa nella seconda metà dei Trenta, innanzitutto quelle dell’arcaismo e del sintetismo, rispondendo al generale richiamo dell’arte del passato e al fascino del mito attraverso il sincretismo di culture plastiche diverse; avvia le serie che caratterizzeranno maggiormente la sua scultura, prima tra tutte quella dei ‘Cavalieri’; partecipa alle mostre ufficiali del periodo, ottenendo i primi riconoscimenti, anche a livello internazionale.

Come esponente del Novecento toscano partecipa alla Seconda Mostra del Novecento Italiano di Milano (1929)2, dove propone ‘Il popolo’, una terracotta che stabilisce un colloquio con gli sposi di Cerveteri; partecipa alla V Triennale di Milano (1933) con l’altorilievo monumentale de ‘La nuova regina’, ancora d’intonazione martiniana3; riceve il primo premio alla II Quadriennale di Arte Nazionale di Roma (1935)4, dove presenta quindici opere, ritratti, nudi femminili, un ‘Pugile’, l’‘Icaro’ e il ‘Nuotatore’; invia nove opere alla XX Esposizione Biennale Internazionale d’Arte di Venezia (1936)5,  tra cui figura il primo, grande ‘Cavaliere’; vince il gran premio all’Exposition Internationale des Arts di Parigi (1937)6. In questa occasione il ‘Pugile’ in legno del 1935 entra a far parte delle raccolte pubbliche francesi.

‘Marino Marini sfugge a ogni genere di manierismo. E’ inventore nel senso della tradizione; è moderno al di sopra delle mode; è italiano senza avere bisogno di spingere il pedale dell’italianità senza imitare né i Romani né gli Etruschi’.7

Con queste parole Fierens colloca l’opera dell’artista nel panorama della scultura del tempo nella prima monografia del 1936, pubblicata in occasione della Biennale di Venezia, ricordando tuttavia il debito contratto nei confronti di Ernesto De Fiori, per quanto riguarda la ritrattistica, e di Martini, in relazione alle sue figure, considerati entrambi ‘liberatori’ della scultura italiana.

‘Era necessario allora reagire contro il verismo e l’idealismo; bisognava ritrovare l’equilibrio del sentimento e la dignità del mestiere’, prosegue il critico. ‘La rivelazione dell’arte etrusca, l’idea più giusta che ci si poteva fare della statuaria imperiale, esercitarono un’azione salutare, emancipatrice, sull’evoluzione, i destini. “la vita delle forme” ’.8

Quello stesso anno lo scultore espone alla Biennale di Venezia il primo, grande ‘Cavaliere’ in gesso, capostipite con un piccolo bozzetto di poco antecedente della serie più importante dell’intero suo repertorio9, anche se un uomo a cavallo figura già in un bassorilievo del 1932.

L’opera non suscita però il favore della critica e innesca un dibattito, qui riportato per sommi capi, che offre uno spaccato significativo della cultura di quegli anni.

Nella sua stroncatura Ojetti sottolinea anche la coesistenza nell’opera di Marini di due maniere di condursi nella trattazione della statuaria e della ritrattistica.

‘L’ultimo è qui Marino Marini col ‘Cavaliere’ in gesso, che all’aspetto è solo il sommario imballaggio d’una statua equestre (la definizione, se non erro, è di Oppo), tanto vuoto che si può riempirlo con la stoppa di qualunque idea, dal ricordo, per chi non la conosce, della scultura egizia fino all’ipotesi che, se il Verrocchio avesse veduto Marini in tempo, il suo ‘Colleoni’ l’avrebbe modellato, anzi pronunciato, cosi’, scrive il critico più autorevole del tempo.

‘Dietro al detto mammalucco equestre Marini espone però una testa di cristiano che per l’ennesima volta prova quale scultore egli potrebbe essere quando non perdesse tempo a travestirsi da profeta e a passeggiare su e giù così ammantato e serioso proprio nella patria di Donatello [. . .].

Ve lo immaginate voi Donatello avere due maniere, senza nesso tra loro, l’una per sbozzare alla bambina le statue a cavallo, e l’altra, schietta e virile, per modellare la testa di ‘Niccolò da Uzzano’ e di ‘Poggio Bracciolini’?10

Con la ripresa della scultura equestre l’artista si pone l’obbiettivo di rispondere allo spirito del tempo (giova qui ricordare il fatto che proprio il 9 maggio Mussolini proclamò l’Impero), cercando tuttavia una propria strada nello studio dell’arte del passato attraverso l’innesto della cultura nordica in quella toscana e italiana di appartenenza, interessato al cavaliere gotico della Cattedrale di Bamberga12 come al ‘Marc’Aurelio’ del Campidoglio, al ‘Balbo equestre maggiore’ del Museo Nazionale di Napoli o ai capitani di ventura di Padova e Venezia.

L’artista ribatte agli ‘acerbi commenti’ suscitati dall’opera, chiarendo la propria posizione e insistendo nella riproposta del tema, che non si misura però in questi anni con gli spazi aperti, con l’esecuzione del grande legno policromo dei Musei Vaticani (1936-37), del ‘Gentiluomo a cavallo’ (1937) e del ‘Pellegrino’ (1939), opere legate piuttosto alla simbologia dell’ “uomo di virtù” cara all’umanesimo. ‘

Per quel che mi riguarda’, scrive l’artista, ‘il ‘Cavallo e cavaliere’ è uscito dalla medesima famiglia dei tre grandi legni, e specie il ‘Pugile’, realizzati negli anni prima, voglio dire che in esso potrebbero essere palesi, in luogo di una minuziosa e cincischiata analisi veristica, la stessa ricerca di un ritmo musicale ed il medesimo tendere ad una rigorosa costruzione architettonica.

‘“Cavaliere” è concepito secondo uno spirito geometrico al quale si allea un pathos immaginativo’, spiega ancora Marini, ‘silenzioso di stupore, che può soltanto manifestarsi per forme chiuse ed ermetiche, rinnovamenti di un mito che ha tanti assi come il mondo e a cui l’uomo ritorna come a qualcosa di essenziale e di fatale’.

Marino esegue in questi anni alcuni cavalli e riprende un dettaglio dei rilievi dell’Arco di Tito a Roma nel bassorilievo della ‘Quadriga’ (1942).

L’amore della forma non nuoce alla poesia. I ‘Cavalieri’ di Marino sono scesi in una lucida alba dal Partenone per farsi più umani, per cavalcare nelle vie degli uomini.13

Nell’arco del Ventennio lo scultore pone mano a una serie di ritratti in pietra, in terracotta o in gesso policromo.

Gli ‘Autoritratti’ del 1930, 1935, 1942, i ritratti di Magnelli (1929), Borra (1933), Melotti (1937), Tosi (1942), Campigli (1942), quelli della moglie Marina, sono primi, significativi capitoli di quella imponente galleria di teste che farà di Marini uno dei maggiori ritrattisti del XX secolo.

Questi ritratti sono anche documento dei rapporti che lo scultore intrattiene con i protagonisti della cultura del suo tempo.

 

Marino Marini alla Biennale Venezia nel 1928; è l’ultimo a destra.

 

Il ritratto di Funi (1934-35) segue, per esempio, la collaborazione dell’artista con il pittore nell’allestimento della sala della Guerra Italiana della Mostra della Rivoluzione Fascista di Roma (1932)14, dove esegue il grande bassorilievo dell’ ‘Italia armata’, opera allegorica che risente degli obiettivi di propaganda della rassegna.

Lo scultore aderisce poi al ‘Manifesto’ dell’ “Ambrosiano”, (1934), firmato appunto da Funi, Martini, Campigli e Sironi. Marini ritrae il critico Vitali in occasione della pubblicazione della sua monografia del 1937.

Nella seconda metà degli anni Trenta lo scultore avvia anche la serie della ‘Pomona’, la ninfa romana che veglia sui frutti, in cui appare evidente il suo interesse per i nudi di Maillol e di Renoir.

 


Note

  1. Marino Marini. Catalogo ragionato della scultura, Milano, 1998, p.343; M. Meneguzzo, `La scultura e la fama: Messina, Marini, Manzù e Minguzzi a Brera. La didattica del successo’, in G. M. Accame, C. Cerritelli, M. Meneguzzo, a cura di, La città di Brera. Due secoli di scultura, cat., Milano, 1995, pp. 170-85.

2. Cfr Seconda Mostra del Novecento Italiano, cat., Milano, 1929, ill. p. 6.

3. V Triennale di Milano, cat., Milano, 1933, p. 355; P. Fierens, Marino Marini, Parigi-Milano, 1936, ill. Il bassorilievo in gesso, inserito nella sezione dedicata a ‘La pittura murale e la scultura decorativa’ e posto sullo scalone centrale del Palazzo dell’Arte accanto a quello di Arturo Martini, viene premiato con la medaglia d’argento. 

4. Cfr. II Quadriennale di Arte Nazionale, cat., Roma, 1935, pp. 87-88, ill. pp. 88-89. Nella autopresentazione Marini spiega le proprie convinzioni estetiche.

‘Considero profondamente artistica soltanto quell’opera che pure attingendo alle scaturigini della natura se ne astrae e la supera. Arte è anche allucinazione perfetta, tutte le verità della natura attraverso questa ne subiscono la trasformazione. Nella mia mostra personale presento varie opere, varie anche come punto di partenza, ma unite come punto di arrivo. La trasformazione e l’interpretazione sono leggi per gli artisti, in caso contrario siamo perfettamente in balia del vero, privo di ogni elemento di arte. Apprezzo la sapienza del mestiere, perché con questa è possibile trasmettere quelle impressioni, che in caso contrario, sarebbero frutto immaturo e letterario’.

5. XX Esposizione Biennale Internazionale d’Arte, cat., Venezia, 1936, p. 13o, ill. n. 16. Marini figura nella giuria della rassegna, presieduta dal segretario generale Antonio Maraini, insieme a Cipriano Efisio Oppo, Alberto Salietti, Gino Severini, Arturo Tosi e altri.

6. Cfr. Diplôme de Grand Prix, Exposition Internationale des Arts et des Techniques dans la Vie Moderne, Parigi, 1937.

7. Fierens, op. cit.

8. Ibid.

9. Il tema viene successivamente ampliato nelle straordinarie versioni dell’ ‘Angelo della città’ del 1949-50, del ‘Miracolo’ del 1951-58, del ‘Guerriero’ del 1956-60 e del ‘Grido’ del 1962, secondo i modi di una parabola, poetica e stilistica ad un tempo, che si sarebbe chiusa drammaticamente con la separazione dell’uomo dall’animale in ‘Due elementi’ del 1971.

10. Ojetti, ‘La XX Biennale di Venezia. Scultori nostri’ in Corriere della Sera, Milano, 5 luglio 1936, P. 3.

11. F. de Pisis, Marino Marini, Milano, 1941

12. Marini vede il monumento equestre di ‘Enrico II’ nella Cattedrale di Bamberga durante un viaggio compiuto in Germania nel 1934. Cfr. Marino Marini. Catalogo ragionato della scultura, Milano, 1998, p. 343.

13. Guida della Mostra della Rivoluzione Fascista, cat., Roma, 1933, p. 45; Leader, ‘Mostra della Rivoluzione Fascista’, in La Casa Bella, Milano, novembre 1932, ill. p. 30.

14. ‘Manifesto’, in L’Ambrosiano, Milano, 26 luglio 1934, p. 3.

 


 

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