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Lara-Vinca Masini, Bruno Corà, un’amica e Evelien La Sud, Pastine 1994
http://www.evelienlasud.info/

 


La città nella storia e oggi – Firenze –

(Conferenza al Museo Pecci di Prato – Aprile 2008)

 

Louis Mumford faceva risalire l’ origine della città al paleolitico: “Fu forse la grotta” scriveva “a suggerire al primitivo  la prima concezione dello spazio architettonico, la prima immagine dell’ utilità di una cinta muraria  per intensificare la ricettività spirituale e l’esaltazione dei sentimenti”. Un aggregato di funzioni, dunque.

Cosicché si può paragonare la città ad un sistema cellulare che ha rappresentato, fin dalle sue origini, la sintesi tra naturale e costruito, tra natura, storia e cultura, che si è espansa sul pianeta fino a coinvolgerlo quasi totalmente ; tanto che oggi non si parla più di città, ma di “metropoli”, “megalopoli”, “villaggio globale”; non si parla più di “cittadino” ma di “uomo metropolitano”.

Per fare una piccola divagazione, più sarcastica che ironica, pensando alla definizione “villaggio globale” mi viene in  mente che oggi i giovani non parlano più di “gruppo”, ma di “tribù”. Si sta assistendo ad una circonvoluzione, ad una sorta di Ouroboros: sarà forse un segno di quel ritorno agli inizi, al selvaggio, a quella sorta di imbarbarimento  che si sta verificando nella società ipertecnologica di oggi ? Scusatemi per questa mia piccola cattiveria…

Comunque la città, in tutto il corso della storia, è stata la struttura essenziale  della vita sociale, la forma più complessa e visibile  che l’ uomo ha realizzato, l’ immagine di riferimento della civiltà; tanto che, come ancora affermava Mumford “non c’ è una sola definizione che possa applicarsi a tutte le sue manifestazioni,  né una sola descrizione che ne comprenda tutte le trasformazioni”.

Al momento nel quale si cominciò a parlare di città non solo come di un aggregato di funzioni ma come di un organismo unitario e complesso, nacque, con l’ Illuminismo (Boullée, Ledoux), l’ urbanistica, una vera e propria scienza che culminò con l’apogeo napoleonico: si pensi ai progetti per Milano austriaca di Piermarini, seguiti da quelli di Antolini, che fu capace di cambiare la scala delle grandezze degli spazi della città; a Torino dove prevalse una volontà di ordine piuttosto che di grandezza; a Venezia, ristrutturata da Selva; al lavoro di Valadier per Roma, che faceva prevalere l’ eleganza al fasto, rispettando il rapporto tra spazi aperti (piazze, giardini…) e le forme dell’ architettura.

E si pensi all’ operazione da tecnico rigoroso, al servizio della società compiuta da Schinkel a Berlino…Il rapporto tra architettura e urbanistica fu, invece, quasi completamente distrutto nell’ Ottocento e nel Novecento.

Dalla metà dell’ ‘800, infatti, dopo un secolo di pensiero liberale, le esigenze di pianificazione si presentano a scala sempre più estesa. E questo può avvenire solo in forma di imposizione autoritaria, tanto che la volontà di chi pianifica e la capacità di imporre ad altri questa sua volontà diventano fattori importanti per la riuscita del piano.

L’ esempio più significativo è quello della trasformazione di Parigi per opera di Napoleone III e del suo prefetto Hausmann tra il 1853 e il 1869, che rimane il primo modello di un programma urbanistico  esteso a tutto il corpo di una città, portato a termine in un tempo abbastanza breve.

Il piano di Parigi sarà seguito con successo non solo in Francia ma in molte altre città europee: si veda in Italia la sistemazione di Firenze ad opera di Poggi.

Dal ‘900 in poi l’ urbanistica diventa la disciplina che si è occupata dello studio della città ed ha trovato, ad esempio, in Francia, grandi personalità come Le Corbusier che ha fatto, con la sua opera, del problema dell’ urbanistica e dell’ architettura uno dei grandi temi della cultura del Novecento.

Di seguito l’ urbanistica è stata affiancata da altre discipline, quali la sociologia, la geografia, l’ antropologia e, aggiungerei, l’ architettura e l’ arte, quando, da sola (penso ora all’ Italia, dove, all’ inizio del secondo dopoguerra ebbe un momento di grande interesse, con nomi  straordinari; basti citare quello di Astengo) non fu più sufficiente a controllare e ad organizzare i cambiamenti sostanziali e l’ espansione a macchia d’ olio del tessuto urbano.

Resta comunque il fatto che questo allargarsi incontrollabile delle dimensioni della città, la sua crescita continua, hanno creato e creano i problemi più gravi per le città europee, legate alla loro condizione di città storiche.

Proprio in Europa questa situazione è venuta aggravandosi dopo la seconda guerra mondiale, con l’ urgenza, per molte città, della ricostruzione. Città come Berlino, Londra, Parigi hanno affrontato il problema con forte determinazione. E anche in Italia città come Roma, ma anche come Milano e Torino, hanno cercato di crescere confrontandosi in maniera adeguata col contemporaneo.

Sono convinta che, oggi, il tema della revitalizzazione della città e del suo confrontarsi con la modernità debba passare, prima di tutto, dal recupero delle periferie, dove, comunque, malgrado il degrado, e spesso la violenza incontrollata, la gente vive ed esprime la sua energia e la sua potenzialità. La questione delle periferie non è più una forma di adattamento della città, non è più la buona urbanistica, ma il coordinamento funzionale di più agglomerati sociali, l’ attrezzatura di vasti territori omogenei, la determinazione e l’inserimento di nuclei di condensazione culturale e produttiva diversi, lo studio di sistemi di  comunicazione.

La questione estetica può sembrare, in questo contesto problematico, secondaria e addirittura inesistente; non è così, perché la periferia ha una sua estetica contemporanea che certamente non è quella della qualità dei singoli edifici o della prospettiva e della scenografia urbana. E’ l’ estetica che nasce dal valore d’ uso dato all’ ambiente, agli oggetti, allo spazio di vita, a un’ invenzione continua che si oppone ad un ambiente convulso, repressivo e aberrante, nato dalla speculazione immobiliare e territoriale.

Pasolini aveva intuito per primo la forza vitale delle borgate romane, escluse anche dalla periferia, perché fuori del contesto cosiddetto urbanizzato. La sua voce, attraverso la scrittura e l’ immagine cinematografica, è riuscita a portarle nella città, non tanto per urbanizzarle, ma per dare invece alla città  storicizzata e formalmente definita quella forza vitale che nasce dalla realtà affrontata e capita nella violenza delle sue contraddizioni.

Questa realtà è anche quella che l’ autore riporta nella città del suo “Vangelo secondo Matteo”: Pasolini rimane comunque, nell’ Italia della seconda metà del Novecento, il più grande interprete delle problematiche e dell’ estetica della città contemporanea.

Dipende molto dal coraggio delle sue amministrazioni affrontare con chiarezza, ma anche con grande misura, cultura e coerenza il tema del dialogo e del confronto con l’ arte e con l’Architettura contemporanea. E parlo di confronto, direi quasi di gara, cosicché il nuovo sia all’ altezza della memoria storica.

In un momento come il nostro, dove il rapporto vitale e reciproco tra  tutte le arti deve confrontarsi con l’ accelerazione continua che viene impressa su tutti i settori della vita, il  territorio dell’ artista si allarga e l’ artisticità viene ad acquistare  una dilatazione espansiva  che va dallo spazio architettonico, alla comunicazione, alla scienza.

Niente a che vedere col concetto bauhausiano di integrazione tra le arti, perché è il tipo di artisticità che oggi è cambiato. Le nuove generazioni di artisti (e con “artisti” intendo anche molti nuovi architetti) non vedono alcun confine e non  si pongono alcuna domanda a-priori tra quel che è arte e quel che è architettura, o filosofia, o scienza perché ogni loro segno è un segno dell’ esistenza che interrompe, anche per un solo attimo, lo scorrere accelerato della contemporaneità in cui reale e virtuale coincidono.  Cercano un rapporto immediato, di impatto “sensoriale”, che diventi loro e nel quale possano riconoscersi.

La città e le sue periferie sono spesso, perciò, temi o teatro del lavoro di molti giovani. Lo si è visto qui, al Museo, con la mostra di Botto e Bruno, lo si vede nel lavoro di Tuttofuoco nelle strade e nelle piazze di Milano, nello splendido lavoro fotografico-digitale sulla città esplosa di Giacomo Costa, in quello di tanti artisti stranieri.

Ci sono anche artisti che intervengono su luoghi particolari della città per evidenziarne il carattere, o per “aggiungervi” un elemento “qualificante”, attraverso mezzi diversi, come, ad esempio, fa Franco Summa usando soprattutto il colore nella sua Pescara….

Devo ammettere però che la mia breve analisi della città non può essere quella dell’urbanista, del sociologo, del politico, e nemmeno quella dell’ architetto, ma nasce dai miei studi e dal mio interesse per l’ architettura e per l’ arte: la forma, il tessuto connettivo e il disegno  della città con tutte le sue problematiche sono stati per me il luogo, il tempo e soprattutto lo spazio che mi ha permesso il confronto e la comprensione reciproca dell’arte e dell’ architettura contemporanee.

Questo vale non solo per la città moderna ma anche per la città antica.

Questa premessa mi serve per chiarire come il mio riferimento non possa essere che Firenze, la Firenze di oggi, città “senza progetto”.

E’ chiaro che la situazione di Firenze oggi non è attribuibile soltanto alle istituzioni attuali ma ha subito una excalation che ci riporta indietro. Accennerò velocemente al momento contrastato, conflittuale, della ricostruzione postbellica, il primo che avrebbe potuto costituire un precedente importante per dare una forte spinta in avanti per la città, che si è presentata, dopo la liberazione, viste le gravi distruzioni subite, anche in pieno centro, coi ponti fatti saltare, con la zona distrutta presso il Ponte Vecchio, il solo rimasto in piedi.

E mi vien da pensare, per inciso, come gli stranieri, amanti di Firenze, abbiano quasi sempre optato  per la “tradizione” e per la conservazione di questo aspetto della città, sacrificando, come hanno fatto in questo caso anche i tedeschi “distruttori”, opere ben più importanti, ma meno folkloristiche, quali, ad esempio, il Ponte a Santa Trinita. Questo atteggiamento degli stranieri verso Firenze sarà una delle cause della resistenza al “nuovo”, inteso come volgare modernismo che questa città, nel suo assetto borghese,

si è posta come riferimento che ha portato ad una conservazione di sola facciata, quella fissata nell’ immagine superficiale espressa  negli scatti fotografici della Firenze turistica “very beautiful”. Le istituzioni non hanno voluto capire che il nuovo non è possibile evitarlo se si vuol conservare vitale la struttura storica e soprattutto che il nuovo non è/non era solo volgare modernismo, ma al contrario significava sacrificare lo sfruttamento speculativo alla funzione urbana ed esser capaci di ritrovare nell’ antico la possibilità di forme assolutamente nuove, espressione della contemporaneità.

Anche il Piano Regolatore di Michelucci approvato negli anni Cinquanta, risultava ormai quasi inutile per la situazione deficitaria di un’ espansione selvaggia e non controllata, frutto, appunto, di un’ insensata e proterva speculazione edilizia, che cancellava le linee di programma. La città cominciò allora a svilupparsi verso ovest, verso la zona industriale di Novoli, verso Mantignano e Rovezzano, e si distruggeva definitivamente quell’ equilibrio tra centro antico ed espansione esterna, definito dalla sistemazione ottocentesca di Poggi, che rimane l’ ultimo grande progetto realizzato, che aveva allargato il disegno della città fuori dalle mura sostituite, come a Parigi, dai grandi viali di circonvallazione.

Firenze, invece, è rimasta chiusa nella sua idea di città murata, ormai senza mura, cosa che ha creato un guasto irreparabile, sia al centro che alla periferia. La città infatti è un’ entità storica nella sua interezza sia di centro che di periferia, perché entrambi sono prodotti della storia del tessuto urbano  che vive e si sviluppa secondo un’ articolazione continua tra passato e presente. Il conservatorismo incondizionato è spesso una copertura di comodo per non affrontare in modo creativo e critico le problematiche della contemporaneità.

Questa concezione unilaterale ha svuotato il centro di Firenze delle sue funzioni vitali, originarie e vocazionali,  che sono state sostituire da altre di volgare speculazione commerciale con interventi mirati e occasionali. Gli edifici, i palazzi, i monumenti hanno finito per essere scheletri che hanno conservato un’ immagine di sola facciata, direi virtuale, della città. La gente, immersa in questa voragine accelerata, non è riuscita ad accorgersi della situazione, tanto che crede ancora di vivere nella città di pietra, mentre ormai anche le pietre si sono logorate al limite della resistenza.

Il progetto contemporaneo non è più basato sulle regole del piano regolatore, sulla tradizione moderna, perché quel tipo di città ormai non esiste più, ma è basato su nuove varianti che sono il tempo e la scala di riferimento.

L’ accelerazione che coinvolge la contemporaneità alla quale ho accennato ha bisogno di interventi incisivi e di tempi di realizzazione adeguati  e rapidi, perché la lentezza svuota di significato il segno dell’ autore sia nell’ architettura che nell’ arte. Due soli esempi mi sembrano esemplificativi  di questo discorso: il primo nella città storicizzata riguarda il centro d’ arte contemporanea ex “meccanotessile” che doveva rappresentare il recupero di una delle fabbriche più significative, sia a livello sociale che di archeologia industriale  della Firenze dei primi del Novecento.

Gli interventi sono iniziati alla fine degli anni Sessanta; ma, nonostante varie proposte, gli investimenti sostanziali ormai spesi (circa ottanta miliardi di vecchie lire) il complesso è rimasto uno scheletro  abbandonato ormai irrecuperabile perché ha perso ogni rapporto possibile con la città, un fantasma inquietante, simbolo del significato che si dà e si è dato fino ad oggi, da parte delle Istituzioni, all’ arte contemporanea a Firenze.

L’ altro esempio a confine con la città ottocentesca è una periferia molto significativa, sia per la sua posizione che per la sua storia; riguarda gli interventi  sull’ area Fiat-Fondiaria del quartiere di Novoli: una grande occasione per la città che è stata, anche in questo caso, definitivamente perduta. Si trattava infatti di creare, attraverso nuove e vitali funzioni, un anello di apertura e di riscatto  tra centro e periferia in scala e tempi adeguati. L’intervento invece è stato pensato come un microcosmo chiuso, con falsi laghetti e sentieri, senza nessun rapporto  col contesto territoriale, nemmeno a livello di collegamenti, in sintesi fuori scala e fuori tempo.

Novoli è ormai un lager senza speranza, dove niente può ormai costituire un rimedio, né la realizzazione fuori tempo del Tribunale di Ricci, che è stato, tra l’ altro, completamente trasformato e come grossolanamente pantografato, né l’ immissione, se mai poi ci sarà, di opere di grandi architetti-donna, straniere, davvero sciupate se inserite in quel contesto.

Anche il paesaggio è stato assorbito in questa mutazione che lo ha reso una linea continua da attraversare con mezzi più veloci possibile, cosicché risulta difficile capire le reali conseguenze della situazione.

Ma per tornare alla storia, anche il nuovo Piano Regolatore “modello” di Edoardo Detti, presentato  nel ’53, approvato nel ’62, era stato così deformato da diventare irriconoscibile. Ha fatto seguito un periodo di “normale” e speculativa corrosione  della città, che rimaneva completamente bloccata e chiusa ad ogni proposta di apertura all’ oggi, in nome di un passato glorioso, mummificato, e incapace, perché male interpretato, di fornire stimoli e di innescare spinte innovative, che avrebbero potuto costituire il maggiore incentivo per mantenere viva una creatività legata allo scorrere del tempo.

Nessun nuovo progetto veniva accettato; mentre continuava a crescere la solita, squallida, incontrollata edilizia speculativa. Eppure allora  l’ architettura godeva, nei nuovi architetti, di un momento di felice e cólta creatività. Ed erano loro che pagavano le spese della situazione: da Michelucci, a Savioli, a Detti, a Ricci…

L’ alluvione del 4 novembre ’66 creava una nuova cesura violenta nella vita cittadina; ma la distruzione, il caos, che coinvolsero tutta la città, i cittadini, il patrimonio artistico, provocarono anche l’ insorgenza di una grande scossa vitale, una sorta di sferzata che, se non fu sufficiente a risolvere la vita politica e sociale, né a cambiare l’ immagine della città, stimolò uno spirito di collaborazione  raro a Firenze, sempre così individualista, sollecitando come una nuova speranza, che si rispecchiò in pochi anni di nuova vitalità anche nella vita artistica della città.

Furono allora i giovani architetti, appena usciti dall’ università, che si fecero carico  della volontà irrefrenabile di uscire dalle maglie  di una facoltà dalla quale erano usciti anche alcuni esecutori della speculazione  edilizia (e da Lettere molti insegnanti che  avrebbero trasmesso un sapere  teso a produrre consenso e non spirito critico).

Da questa molla sarebbe scaturito il “radical” italiano. I giovani architetti dei gruppi “Superstudio”, “Archizoom”,”Ufo”, “9999”,  “Zzyggurath”e alcuni isolati, tentavano una revisione radicale dell’ architettura, mettendo in crisi la disciplina stessa, nella sua professionalità tradizionale, fortemente compromessa, col porsi al di fuori e in alternativa con lo specifico architettonico.

Ma la città nel suo cieco opportunismo (e nelle sue istituzioni) era tornata sorda ad ogni possibilità di apertura: nemmeno i radicali riuscirono a smuoverla dal suo immobilismo (si fa per dire…).

E continua ad essere una città “senza progetto”.

Nel 2003, sulle pagine de “L’ Architettura”, quando già Bruno Zevi ci aveva lasciato, segnando l’ inevitabile fine di una rivista  che per 48 anni aveva cercato di far capire agli italiani l’ architettura moderna e il dialogo che esiste sempre tra architettura e politica, tra progettazione  e società, tra architettura  e governo (dialogo troppo spesso frainteso e tradito), Furio Colombo scriveva: “Nel nostro paese non si costruisce  (altra cosa è la proliferazione di favelas  più o meno povere, più o meno lussuose) e non si distrugge. Non si distrugge perché non si progetta.

Non si progetta perché manca la percezione dello stato (tragico) delle cose e una visione che diventi piano di lavoro”. E ancora: “Qui la parola progetto diventa piano, diventa visione, diventa missione, diventa idea della vita. Occorre avere un’ idea della vita per progettare”. E’ proprio questa “idea della vita” che manca oggi e che rende sterili le nostre città.

A ridestare questa idea non sono riusciti gli architetti radicali.

E non ci sono riuscita nemmeno io quando, nell’ ’80, ho organizzato la manifestazione “Umanesimo, Disumanesimo nell’ arte europea 1890 – 1980”: La mostra era un progetto per verificare attraverso interventi di artisti e architetti italiani e stranieri in vari luoghi strategici della città, se l’arte contemporanea potesse costituire la forza rivitalizzante  del tessuto storico. Era un progetto  (nella organizzazione del quale fu coinvolto il Superstudio, e nello svolgimento intervennero artisti come Cucchi, Fabro, Mauri, Chiari, Nitsch, architetti come Hollein, gli Haus Rucker…), per riappropriarsi del significato di spazio urbano come spazio nel quale non siamo condannati a vivere ma nel quale viviamo con possibilità di iniziativa, di movimento, di azione.

La città rimase sorda e arroccata al suo Rinascimento mummificato, come, appunto era rimasta sorda di fronte alle proposte dei radicali.

In un mio intervento recente ad un convegno su “Architettura e Restauro”, tenutosi a Gubbio nel 2007, parlavo della necessità di riconquistare un concetto, che ho definito la “memoria del futuro”, una memoria, cioè, non ripiegata su se stessa, ma usata come stimolo per il recupero di una creatività nutrita di una linfa nuova che ritrovi, anche nel passato, una sorta di preveggenza di un futuro non scontato.

Oggi si parla, appunto, di rinnovare la città.

Ma per rinnovare bisogna osare, inventare, riappropriarsi dell’ utopia, quella in cui storia e futuro si intrecciano e si rispettano, in cui il passato non è un freno di comodo, ma uno strumento da usare.

Invece al posto della memoria storica sono subentrati una indifferenza, quasi un disprezzo per la città storica che ora viene aggredita  anche al suo interno.

E senza la memoria del passato non possono esistere memoria o prefigurazione di futuro.

Non voglio citare qui nessuna delle aggressioni che si sono perpetrate in città in questi ultimi tempi. Ne ho già scritto abbastanza, e con tanta rabbia. E non è certo il caso di accennare al senso, completamente perduto, della bellezza della città….

Fatto stà che la città nella sua struttura costitutiva non esiste più.

Io l’ ho dichiarata un “non luogo”, nel quale galleggiano, qua e là, spaesati, pezzi storici che non riescono quasi più a trovare le ragioni della loro collocazione.

Credo sia chiaro che non sono certo io a rifiutare una crescita organica e “degna” del passato di una città come Firenze, che solo così potrebbe trovare una sua collocazione nel presente e rendersi trasmettritrice di una autentica “memoria del futuro”.

 


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