RACCONTO Dl ME STESSO AL LAVORO
Da Vedute di interno, volume realizzato da Gli Ori, Prato,
in occasione della mostra di Roberto Barni a Prato,
presso Armanda Gori casa d’arte, tenutasi dal 16 dicembre 2007 al 10 marzo 2008)
Ringrazio l’amico Roberto Barni per avermi permesso la pubblicazione di questa storia,
che vale da sola mille libri di storia dell’arte e ritrae dal vivo un sogno.
(paolo pianigiani)
Sono nato a Pistoia il 30 settembre 1939.
Ho ricordi precocissimi. A poco più di tre anni vedo la luna, i Bengala e le fiamme sulla città bombardata di notte.
Vicino alla mia casa scorre ancora un fiume largo, un tempo era pascolo anche per gli animali, pecore e capre, tra sassi muschiosi e pozzanghere che specchiavano il cielo. Fin da piccolo disegnavo ovunque, per terra, sui muri e soprattutto sui libri di scuola.
Realizzai un presepe intero fatto di terra e di urina, colorato col verde rame, la calce e la polvere di mattone.
Nel 1952 i miei genitori Andrea e Stella mi regalarono i colori a olio.
La pittura mi sembrò una grande fortuna per passare le sere d’inverno. Cominciai a supporre che di questo non avrei più potuto fare a meno. Dipingevo nella mia stanza tutto a memoria, le case i paesaggi e la vita intorno, con l’argilla feci il ritratto di mio padre. A Pistoia c’erano molti pittori, si potevano vedere al lavoro appostati in campagna e in città.
Un giorno ci trovammo a dipingere lo stesso soggetto davanti a una fornace tra le cave giallastre con Adolfo Natalini e Gianni Ruffi.
Fu l’inizio di un’amicizia e frequentazione piena di conforto reciproco. Ci siamo sentiti quasi salvi ci fu la convinzione che quello che ci era capitato era una cosa straordinaria con un significato oltre e aldilà dell’amicizia.
Al trio si aggiunse più tardi anche Umberto Buscioni.
Avevo conosciuto anche Fernando Melani; portava una bella tuta blu da operaio che impensieriva i Pistoiesi. Era colto intelligente lo spirito dell’avanguardia sempre vivente. Mi invitò allo studio che lasciava aperto con una pietra appoggiata alla porta. Nacquero le prime mostre d’arte astratta a Pistoia, alle quali partecipammo un po’ tutti.
Dipingevo grandi tele rosse. Fiamma Vigo mi invitò a esporre nella sua galleria a Firenze, insieme a Gianni Ruffi.
Oltre alla pittura facevo anche molte altre cose, mi ero fotografato come un eroe domestico con una specie di pentola in capo e l’ombrello come scudo, tutti i materiali erano buoni, la carta, lo stucco con il quale feci l’impronta interna della mia mano e che in seguito apparirà in tutte le mie sculture fino ad oggi.
Col filo di ferro costruivo delle sculture da portare sul viso. L’undici maggio 1962 esposi il mio necrologio alla Galleria Numero di Firenze.
Prendevo pari pari disegni tecnici. Commissionavo a estranei di disegnare per me e disegnai una macchina ingenua e farneticante per costruire lo spirito liquido solido e gassoso.
Sulla carta di giornale disegnavo le curve di livello di paesaggi, lavoravo a grandi topografie che esposi alla Galleria La Salita di Roma, topografie di Roma di Venezia, la laguna viceversa ‘Anugal’. Dipinsi la battaglia di San Romano di Paolo Uccello tutta in rosso a smalto e paesaggi con il traffico stradale.
Com’era Pistoia in quegli anni? Come ci siamo cresciuti. Era bella, bella pietra. Eravamo un piccolo gruppo, sempre pochi, gli altri molti intorno a guardare e a criticare. C’era anche molta cattiveria! Comunque quasi tutti a piedi o in bicicletta. Col treno si partiva per Firenze o per Roma.
C’era una trattoria ‘Gli autotreni’ dove si passava belle serate e dove gli anarchici cantavano le loro canzoni; rimpiango di non ricordarmi che poche parole. “Stacci al bero sulla balestrosa”. Nella trattoria erano rappresentati i cittadini di tutti i ceti e anche il poeta barbone Remo Cerini, non c’era discriminazione, eppure gli artisti venivano guardati con un certo imbarazzo.
Noi ci tenevamo a dargliene qualche occasione. Inoltre non eravamo i tipi da esibire un impegno sociale evidente e neppure diligenti assertori della modernità come altri artisti perbene, futuri devoti e beghini della modernità stessa.
Forse eravamo sessantottini ante litteram ma che si prendevano parecchie libertà.
A Roma conobbi il poeta Cesare Vivaldi, la sua amicizia piena d’affetto quasi paterno nei confronti miei e degli amici ancora mi commuove. Con grande sicurezza aveva individuato tutti i migliori artisti di allora da Schifano a Festa a Pascali, Angeli. Ci venne un po’ di rossore quando fummo battezzati la ‘Scuola di Pistoia’.
Nel 1965 apparve su “Collage” un grosso servizio su di noi e io fui invitato a Revort 1, mostra d’arte oggettiva in Europa organizzata nell’ambito del Gruppo 63 alla Galleria d’Arte Moderna di Palermo. Insieme a me c’erano anche Pascali, Ceroli, Richter. In quell’occasione conobbi Alberto Boatto e Ileana Sonnabend. Esposi grandi paesaggi dipinti a smalto con grandi campiture piatte come xilografie.
Isola, Sul lago, Alberi. Lawrence Alloway al quale si deve il termine ‘Pop Art’ scrisse sul catalogo molto bene dei miei paesaggi e anche della loro novità di immagini non legate al mondo della città. Ma nel 1964 l’America aveva fatto veramente POP e tutte le nostre autentiche ricerche, il nostro bisogno di oggettività fu scambiato per qualcos’altro.
Su tutte le realtà artistiche di quel periodo cadde un cono d’ombra, non solo sulla piccola Pistoia ma anche su Londra, Roma, Milano, Colonia e Nizza. Ci vorrà ancora molto tempo perchè questo periodo venga letto nelle giuste dimensioni e per ora non e successo e c’è da dubitare che succeda. Non restò altro per tutti che sperare di poter spingere ancora le proprie ricerche.
Sin da tempo avevo scoperto anche la musica, dopo i tentativi di mio padre di avvicinarmi all’opera, il mio repertorio spaziava da Cage a Bach. Intanto avevamo conosciuto il nostro primo gallerista, Serafino Flori che nel 1967 aprì una galleria a Firenze diretta da Cesare Vivaldi. Oltre alle nostre mostre ci furono quelle di Fontana, Accardi, Ontani, Zorio e molti altri.
Avevo cominciato a usare polveri di ferro, a dipingere con il rosso minio dei quadri con oggetti di sapore industriale, prospettive elementari, superfici di ambigua lettura concavo-convessa nello spazio vuoto non realistico.
Questo periodo ebbe una conclusione e un apice nel 1970 quando costruii due tele: una verticale con le colature e una orizzontale con le gocce, nonchè progetti di interi ambienti e oggetti di ferro che coinvolgevano lo spazio unendo con elementi mobili parete e pavimento. Renato Barilli li scelse per la mostra dell’arte italiana alla di Torino nel 1977.
Le problematiche artistiche stavano diventando sempre più complesse e si era interrotta la loro progressione lineare, fu con grande piacere che un giorno mi trovai assieme a Mario Merz davanti al Pontormo che eravamo andati a vedere a Santa Felicita. Muniti di fiasco, a parlarne non come di un artista confinato nel suo tempo ma come di un’altra voce che veniva a introdursi direttamente nel dibattito artistico del momento.
Da poco c’era stata anche la grande occasione della mia vita: avevo conosciuto Sara. Lasciammo passare poco tempo: ci siamo sposati nel 1970. Un anno dopo nacque Tommaso e dopo qualche anno nacque Selva.
Il padre di Sara, Mario, ci trovò una bellissima casa sull’Appennino, a Palazzolo sul Senio, ‘Il Fornello’, un po’ malridotta ma che restaurammo lavorando giorno e notte mentre Lidia la mamma di Sara ci aspettava per la cena.
Ci abbiamo passato diciotto anni tutte le estati con i figli e gli amici artisti. Lavoravo moltissimo e insieme ai bambini creavo grandi giochi come cavalli a dondolo, o un grande aeroplano: sette metri in legno e tela.
Con quattro bambini dentro lo trascinavamo lungo i prati in declivio. Era un enorme teatro all’aperto, un paradiso con tanto di fiume e prati intorno con gli animali a pascolare e gli alberi a fare il fresco. Un solo inconveniente, l’acqua si doveva pompare, la luce con la lampada a gas.
Nonostante questo le notti erano molto vive, letture e disegnare.
A Tommeso e Selva leggevo il Don Chisciotte e l’Orlando Furioso, quello vivaldiano veniva anche cantato. Gli esperimenti artistici nel frattempo non si erano mai fermati, avevo il chiodo fisso di fare delle opere che implicassero il tempo, quindi disegnavo a carbone e pastello grandi calendari di carta con gli artisti più amati.
Dipingevo con il verde della clorofilla alberi disegnati a matita. Riprendevo i miei vecchi paesaggi e li profumavo con gli spray aromatici.
Incidevo su tela mediante l’esposizione al sole le immagini delle divinità della luce. Ritagliavo immagini di Kronos fatto a pezzi (la fine del tempo) e le ricoprivo con la polvere di ferro che lasciavo ossidare. Queste opere furono esposte quasi tutte in una personale alla Galleria Van de Loo di Monaco di Baviera nel 1973.
La riflessione sul tempo si faceva per me sempre più pressante e necessaria e mi si rivelava come una fonte di libertà, della libertà di scorrazzare nell’arte di tutti i tempi riconducendola al mio tempo, escogitando per il mio lavoro di quegli anni una dimensione acronica e anarchica, non a caso nel 1972 usando Piero della Francesca avevo dipinto la mia resurrezione.
L’arte mi si andava così configurando come un immenso teatro di cui mi interessava sia la struttura architettonica sia i personaggi che vi si muovevano dentro.
Erano colonne, cariatidi, sculture, classiche amazzoni, diadumeni, che riaffioravano come esili profili alla memoria e che intendevo catturare proprio su quel limite tra oblio e ricordo. Per questo usavo queste superfici scure ferrose e omogenee sulle quali evocavo, con leggero tratto e cera bianca, le sagome delle figure e ne suggerivo la tridimensionalità, facendole entrare nello spazio con il piede: spesso un calco in gesso, posato a terra su una tela ad angolo con quella della parete.
‘Riluttanza’, il titolo della mostra alla Galleria La Salita nel gennaio 1976 10.11 intendeva esprimere questa timida esitazione, mista a desiderio delle figure a riemergere dal tempo e riprendere corpo nello spazio.
Le stesse tecniche venivano applicate all’immagine pittorica mediante l’uso di tele sovrapposte e di calchi, come nelle opere esposte nel 1977 alla Galleria Schema di Firenze, alla Galleria Trisorio di Napoli e nel 1978 alla Galleria Borgogna di Milano.
Contemporaneamente con i calchi delle mani dei piedi e dei visi avevo realizzato vere e proprie sculture che furono l’inizio di un interesse che andrà sempre crescendo e che già pochi anni dopo si ribadisce in opere come Gemelli motivo poi ripreso in Vincitori e vinti e in Falce con gli uomini che vi sostano sopra.
Sempre in quegli anni cominciai a fare grandi disegni in carta da spolvero mentre continuavo a perseguire una sorta di atemporalità creandomi, alla maniera di Borges, un doppio, un pittore con tanto di biografia ma senza luoghi e senza date, come autore dell’opera che esposi alla Galleria La Salita di Roma. Il bisogno di affermare una espressività più urgente mi allontanò dalle basi concettuali dei lavori precedenti.
Un giorno di gennaio 1980 mi sono trovato nel mezzo di una piazza (Le Cure) a Firenze, con mia figlia piccola in collo, era esploso una specie di inferno del traffico, treni elicotteri auto rumore infernale, mi vidi perduto mentre proteggevo mia figlia.
Da questo parapiglia autostradale nacque un ciclo di quadri Paternità) il risultato fu una sorta di sconquasso di terremoto. Era anche un’espressione tragica e allo stesso tempo un modo di fare dell’ironia sulla aggressiva simultaneità futurista. La serie di opere dedicate a questo tema fu esposta da Liverani da Pio Monti e da Cleto Polcina, e al Festival dei Due Mondi di Spoleto, su invito di Giovanni Carandente che avevo conosciuto a Roma nella galleria di Liverani.
La stessa tematica riproposta su carte intelate, tecniche miste e olii di ancora piu grandi dimensioni fu l’oggetto di una serie di mostre dei primi anni Ottanta, a partire da quella nella Casa Masaccio del 1983 a San Giovanni Valdarno, poi alla Sala d’Armi di Palazzo Vecchio a Firenze e nella sala che ebbi alla Biennale di Venezia del 1984 su invito di Maurizio Calvesi.
Quel principio di libertà e di piacere ribelle a qualsiasi tentativo di inibizione che corre in questi anni per il mio lavoro, con cento occhi che guardano da cento punti differenti sempre e solo il punto focale del presente, fu letto nel suo significato più profondamente esistenziale da critici quali Jhon Yau, Howard Fox e Sam Hunter conosciuti in occasione di varie mostre fra le quali quelle tenute al Sharpe Gallery e Queens Museurn, di New York, all’Hirschorn Museum di Washington e al Country Museum di Los Angeles.
Il mio soggiorno americano dal 1986 al 1987 aveva introdotto anche nuovi temi e immagini che rimangono tuttora al centro della mia elaborazione, come l’immagine del trono, dei servi muti e dell’uomo bendato. Altri li avevo portati con me dall’Italia come ad esempio gli uomini che fanno un fiume, una sorta di medaglione di Sisifo appeso al collo dell’artista, tema corale che avevo dipinto per Giuliano Gori a Celle appena prima di partire.
E appena rientrato in Italia sempre per Celle ho realizzato la scultura Servi muti che fu esposta alla Biennale di Venezia nel 1988, su invito di Giovanni Carandente, e che rappresenta un punto di snodo fondamentale della mia vicenda artistica.
Insieme a Gérard-Georges Lemaire sono le mostre alla Galleria Maeght di Parigi. Adriano Sofri scriverà il testo per la Galleria del Milione a Milano. Intanto nel 1988 era finita l’era ‘Fornello’ e nasce l’era Monterinaldi: l’accampamento sarà fornito di acqua e di luce e il Chianti è più vicino da raggiungere del Mugello.
Ci seguono amici nuovi come Gérard e Patrizia Lemaire, Jim e Darma Beck, antichi come Adolfo Natalini e amici ritrovati in una nuova intensità come Alberto Boatto. Con lui e con Gemma abbiamo passato molti ferragosto chiantigiani ricchi di attività, conversazioni e cene. Nel frattempo preparavo la mostra di disegni e sculture al Museo Marini di Firenze.
La scultura, che in qualche modo era sempre stata presente e, che negli anni Ottanta si era avvalsa di modalità quali il gesso e la carta pesta nonché del ferro e della tela dipinta a olio per le Cariatidi, adesso si pone in rapporto sempre più competitivo con la pittura. In un certo senso assisto a una specie di confronto e di scambio, la pittura prende volume attraverso le asperità create con la tecnica del cartonage, spessori di carta di giornale incollata, una ripresa di esperimenti anni Sessanta.
La scultura per contro ruba alla pittura il suo cromatismo, grazie all’uso delle patine colorate sul bronzo. Anche nelle tematiche mi sono trovato di fronte allo stesso scambio e pur nelle diverse modalità del mezzo espressivo nella pittura appaiono uomini e animali perduti in enormi gibbose ‘Tebaide’ senza alto nè basso.
Nella scultura gli uomini sono presi dalla vertigine salendo uno sopra l’altro in altissime colonne. Mi si impone sempre più l’uomo che cammina e che comunque viene a trovarsi in uno strano rapporto con gli oggetti, precario e instabile.
Lo inseguo nella pittura con silhouette bianche o nere su fondi di materia colorata di colori primari e nella scultura nel movimento circolare e ininterrotto di figure che camminano sul sottile bordo tra due vuoti (Vacina). Assieme ai Servi muti è protagonista della mostra di Palazzo Fabroni a Pistoia nel 1997, curata da Alberto Boatto e successivamente al Museo di Belle Arti di Budapest e a quello di Reims.
L’invito di Daniel Spoerri a creare una scultura per il suo ‘Giardino’ mi suggerisce una versione ulteriore del tema dell’istabilità e della sospensione.
Con la mostra del 2001 a Siena alla galleria di Alessandro Bagnai e nella città, il mio legame con la scultura si rafforza ulteriormente, anche attraverso la sperimentazione di nuove patine colorate: con la patina rosso vivo mi sembra di liberare il bronzo da una condizione di infelicità. Ho la fortuna di avere le fonderie nelle vicinanze che mi permettono di seguire il lavoro quotidianamente in tutte le fasi prima e dopo la fusione, fino alla patina.
Nella pittura la tendenza al volume la risolvo addirittura applicando dei bassorilievi in legno dell’uomo che cammina, mentre dall’altra parte sfrutto l’ambiguità allusiva della piattezza bidimensionale.
Lavori di questo tipo saranno esposti alla Galleria Poggiali e Forconi di Firenze. La mostra antologica al Kunstverein di Ludwigsburg curata da Agnes Kolmeyer è l’occasione per riannodare tutti i fili della mia ultima ricerca.
Anche i fili della nostra famiglia, quasi di colpo e felicemente, si moltiplicano e si annodano, nel 2003 Tommaso sposa Anna e nell’agosto del 2004 nasce Gaetano e sempre nel 2004, a settembre, Selva sposa Massimo.
E io continuo a fare pittura e scultura e a farla vedere nelle mostre, al Teatro India di Roma e da Luis Serpa a Lisbona per esempio, sempre più attento a individuare gli stretti legami fra l’opera e la sua collocazione.
Una prospettiva che mi fa scattare ancora nuove immagini e nuove possibilità per la scultura di disporsi nello spazio.
Instabile si è guadagnato la stessa libertà che si riscontra nella pittura. Sono ben contento di avere un amico come Aurelio Amendola a testimoniarmi con le sue foto.
Non è un caso che una parte importante del mio lavori di questi anni riguardi il rapporto scultura-architettura: con Adolfo Natalini progettò una serie di interventi all’interno delle sue architetture in varie città olandesi, Den Haag, Doesburg, Helmond fra le altre.
E’ un nostro antico vizio, nel 1977 avevamo addirittura ideato per l’Arboreto di Pistoia un paesaggio con tanto di collina, boschi, viale sul lungo fiume e in cima perfino un piccolo Parnaso.
Non se ne fece di nulla. Anche la grafica è un campo di di tentazioni: incisioni e addirittura un manifesto per il maggio Musicale Fiorentino. Neppure trascuro libri che ho sempre fatto, da quello per Loriano Bertini con Bigongiari, a quello per Maurizio Otello con Alberto Boatto, all’ultimo con Cesare Mazzonis.
Nel 2007 dopo una mostra alla Galleria Marlborough di Monaco ho riversato me stesso con tutti i miei prodotti nelle piazze, nel giardino di Boboli e nell’Archeologico, la città di Firenze ha resistito benissimo e ha sopportato tutto con la sua storica stoica indifferenza.
Per quanto mi riguarda ho fatto tutto il possibile perché la mostra avesse una ragione di esistere non esornativa e non decorativa. Ho collocato un grande vaso sotto gli Uffizi, un omaggio doveroso alle figure nelle nicchie e all’arte che ci hanno lasciato. In piazza della Repubblica ho letteralmente scaraventato Sadovasomaso per terra come altri scaraventano una lattina di coca-cola.
In piazza Pitti ho voluto evitare qualsiasi competizione in magniloquenza e ho sdraiato per terra Adagio che i turisti hanno trasformato in panchina.
All’Archeologico ho giocato a nascondino con i vasi antichi.
A Boboli mi è parso di dover cercare la via contraria: ho voluto mettere quella popolazione di diversi che sono le mie sculture a fitto colloquio fra loro, in modo da creare un piccolo mondo capace di familiarizzare e dialogare con le ariose simmetrie del giardino e le masse architettoniche, senza rinunciare a parlare nella propria lingua, come Progenie, tanto per fare un esempio.
Alle Pagliere, ultimo atto, la sfida sotto il segno della pittura con uno spazio indeterminato e di grande suggestione. Ne ho cercato l’articolazione e il coinvolgimento attraverso le bicromie rosse e nere di pittura e scultura e attraverso distese dipinte come fitomorfosi o sovvertimenti spaziali come la foresta sdraiata e l’uomo che cammina sulla parete.
Con queste pagine mi sono ritrovato a guardare all’indietro nella mia vita. Che cosa posso dire? Posso dire che non sono stato quello che non mi piaceva di essere e che forse solo ora posso cominciare a sperare di essere quello che mi piacerebbe di essere. Gli artisti sono degli esseri temerari, non sanno quello che sono e tantomeno quello che saranno.
Che cosa è stato il mio lavoro? Avevo bisogno di riconoscermi nei segni che stanno aldilà e aldifuori di quelli più consueti dell’uso artistico, vedere un oggetto, un colore e riconoscersi in questo. Era il bisogno di aprire lo stile e sfuggire alla stilizzazione e al mestiere, fare dello stile un modo per conoscere e non per farsi riconoscere.
L’artista comincia con l’essere fedele ai propri segni, ai segni che gli si sono offerti. Annunzia all’inizio quello che avrà alla fine, nel frattempo gli stessi segni saranno diventati segni riconosciuti anche al di fuori di lui, nel mondo.
Che cosa ne sapevo a vent’anni, quando mi sono fotografato come un Don Chisciotte, o quando ho fatto l’impronta della mia mano con lo stucco, o quando col filo di ferro facevo delle sculture da indossare sul volto, perché usavo il rosso con tanta voluttà nella pittura?
Eppure tutta questa libertà senza preclusioni che in quegli anni era veramente così difficile da affermare mi ha portato in seguito a amare ancora più la pittura e la scultura proprio nel momento più imbarazzante in cui veniva decretata la loro fine, insieme alla distinzione dei generi.
Le grandi aperture del linguaggio hanno senz’altro ampliato la visione dell’arte, ma hanno mostrato anche la loro fragilità estetizzante. Per questo ho sentito il bisogno di riprendere la sfida dove era stata abbandonata.
Salvare la forma nel momento in cui può scadere nella convenzione e nello scontato. Salvarla quando è in bilico, un attimo prima che decada, prima che tutto riappaia senza significato.
Anche per questo le mie figure sembrano pensate nelle posizioni più inconsuete, come apparizioni effimere ma che in realtà intendono essere punti di riferimento di una sensibilità nuova che ci avverte delle mutate condizioni del nostro paesaggio esistenziale e anche di un modo più appropriato di sentirsi nell’universo, senza più né alto né basso.
Il mio mandorlo era seccato ma dal piede è rispuntato pieno di vita pronto per qualsiasi tipo di nuovo innesto. Penso che quando ci veniamo a trovare sull’ultimo ramo non dobbiamo scordarci da dove arriva la linfa.
Ultimo minuto! Dopo Firenze finalmente Prato nella casa d’arte di Armanda Gori con sculture disegni e pitture, in una veduta di interno, come queste mie pagine.