Luigi Boni
di Lara-Vinca Masini
Si parla tanto, di questi tempi, anche in Italia, di globalizzazione e, allo stesso tempo, si ricercano e si esaltano, forse per un malcelato timore di perdita di identità, gli apporti artistici e culturali, anche per quanto riguarda il contemporaneo, delle regioni, anche se, ovviamente, mistificati da stratificazioni di condizionamenti resi stabili da fittizie e provinciali prevaricazioni che si istituzionalizzano.
Come hanno dimostrato alcune recenti operazioni che avrebbero, invece, dovuto far luce su tante situazioni diverse che si sono verificate (parlo, in questo caso, della Toscana) e che, per ragioni diverse, non hanno avuto la possibilità di crescere e di poter emergere, come avrebbero potuto….
Va notato, comunque, che la provincia (parlo di tutta la provincia italiana) è ben più aperta e disponibile ad accogliere i cambiamenti di quanto non siano, in generale, le città più importanti. Una recente indagine sugli avvenimenti artistici in Toscana degli ultimi vent’anni, nel volume “Toscana contemporanea, 1980 – 2001”, a cura di Sergio Risaliti – previo il perdurare di quelle istituzionalizzazioni e prevaricazioni cui accennavo – dimostra quanti degli eventi citati nel volume, verificatisi in questi anni, si siano svolti in provincia.
Così anche molti personaggi che poi si sono distinti altrove, sono emersi dalla provincia, una provincia ricca di stimoli, come, nel nostro caso, quella empolese, nota, del resto, nel mondo, da secoli, per le qualità del suo artigianato vetrario (il famoso e bellissimo vetro verde, col quale si realizzano, da secoli, fiaschi e bottiglie, e potrebbe invece diventare lo strumento di un affascinante e nuovo design, in concorrenza con le straordinarie realizzazioni veneziane, evitando alla nostra regione di perdere una delle sue prerogative più interessanti…).
Ma questo è un altro discorso….
Per tornare, come si suol dire, a bomba, uno di questi personaggi cui accennavo è stato, senza dubbio, Luigi Boni.
Artista dotato e intelligente, aperto agli eventi artistici contemporanei internazionali, di cui ha saputo cogliere le emergenze più significative, che ha indagato e sperimentato con grande vitalità, e con apporti personalissimi, rappresenta ancora, per il suo paese, a parecchi anni dalla sua morte, una punta di diamante.
Aperto, con generosità e spregiudicatezza, verso gli altri, facile alle amicizie (ne fa fede il ricordo e l’affetto che ancora dimostrano i suoi molti amici, a Empoli, che vogliono, ad ogni costo, che la sua memoria e il suo valore siano riconosciuti, e lo fanno con una passione che credo sia la stessa che dimostravano quando era ancora in vita – e devo aggiungere che questo non è tanto consueto in una Toscana troppo spesso avara e restia a concedersi -), ricco di spirito, di comunicativa, profondo conoscitore degli uomini, Luigi Boni, che non ho mai incontrato di persona, sembra incarnare l’immagine di un perfetto gentiluomo, dai “modi un po’ distaccati, signorili e mai banali” (come ricorda Pianigiani, uno dei suoi giovani amici), un po’ bohémien, un po’ dandy, alla Maurice Chevalier (passava la sua gioventù durante quella che si definiva la “belle époque”), e che, nei suoi ultimi anni, si divideva tra Parigi, Milano, e, appunto, Empoli, dove era nato.
Se ne era allontanato a diciannove anni, pieno di speranze e di progetti, primo quello di rendersi indipendente, anche finanziariamente, per potersi dedicare a quanto già lo appassionava, la pittura, molto probabilmente, anche se iniziava col tratto sottile del suo ironico disegno, che gli permetteva, con le sue caricature, di ottenere quella indipendenza che sognava.
Era un momento particolare, quello, dicevo, della “belle époque”, quando egli raggiungeva Alessandria d’Egitto, dove aveva dei parenti che si occupavano di moda e dove egli apriva subito, purtroppo illudendosi sulle proprie capacità pratiche e imprenditoriali, un bar, nel quale faceva bella mostra di sé la prima macchina da caffè espresso della città. Si sposava poco dopo, con una bella ragazza di origine ungherese, da cui aveva il primo figlio.
E riusciva a mantenersi, con la famiglia, pubblicando le sue caricature su giornali egiziani.
E’ di questo periodo una delle prime note critiche relative alle sue caricature, su un giornale egiziano, che traduco: “Caricaturista di talento. La caricatura è un’arte, e un’arte difficile. Non è concesso a tutti di poter fissare in pochi tratti di matita la fisionomia di questo o quell’individuo.
Ci vuole un mestiere sicuro, un’abilità, una conoscenza innata della psicologia. In Egitto, dove l’arte della caricatura non è mai stata troppo sostenuta, ecco che un giovane si espone in maniera particolare all’attenzione del pubblico. Si chiama Boni, viene da Firenze, e si fa distinguere per la conoscenza profonda non solo del disegno, ma di tutto quanto riguarda la fisiognomica. Ubbidiente a combinazioni atomiche” (?) “particolari, Boni è sempre stato indipendente, vagabondo, per così dire.
Avendo imparato a conoscere gli uomini, si diverte oggi a riprodurli su un cartoncino riuscendo a cogliere le caratteristiche di ciascuno. Straordinaria particolarità: Boni sa cogliere a meraviglia tutto un carattere nel semplice contorno di una espressione. Guardate Hindenbourg, guardate Hitler, guardate soprattutto Bernard Show, di cui Boni, in pochi tratti di matita, ha saputo rendere in maniera così perfetta i lineamenti. Boni, quest’inverno, soggiornerà al Cairo. Attenzione, pochi potranno sfuggire alla matita mordace di questo talentuoso disegnatore….”.
Ho riportato questo breve testo, non datato, ma certo riportabile agli anni Trenta, e non firmato, del piccolo documento che mi è stato presentato (che fa parte della raccolta dei dati, purtroppo non vasti, che Paolo Pianigiani è riuscito a mettermi insieme, con tanta fatica e, soprattutto con tanta passione ed entusiasmo), intanto per una certa ingenuità di cui dà prova, per quel suo curioso attribuire a “combinazioni atomiche” il bisogno di libertà e la passione di Boni di farsi cittadino del mondo, ma anche per la sua intuitiva capacità di cogliere questa straordinaria abilità di Boni. Abilità che gli è sempre stata riconosciuta dovunque, e che lo ha aiutato a vivere e a viaggiare, a conoscere personaggi tra i più interessanti, in tutto il mondo, che hanno arricchito e ampliato l’internazionalità della sua cultura.
Era infatti per mantenersi a mezzo delle sue caricature che, nel ’33, egli partiva per Chicago, per lavorare durante l’Esposizione Universale. Nel ’34 si trasferiva a Parigi, dividendo il soggiorno parigino con quello milanese.
Non si sa bene, peraltro, quando abbia cominciato a dipingere, ma certamente l’ambiente culturale parigino deve averlo sollecitato, e spinto a partecipare del clima delle avanguardie parigine, dal momento che la data dei quadri più vecchi di cui si ha documentazione risale al ’49, e questi quadri partecipano già in pieno di quelle premesse dell’Informale europeo rappresentate, proprio a partire da quegli anni, ancora nel clima del dopoguerra, dal Naturalismo astratto, che, col determinarsi dell’egemonia culturale americana, costituì il tentativo di trovare una soluzione della crisi dei valori sui quali si erano fondati lo storicismo umanistico e la stessa storia europea, tentando, in arte, sia il recupero critico dei grandi temi della cultura artistica europea della prima metà del secolo, sia una continuità “legittima” e la spinta verso un rinnovamento autonomo.
Di questa temperie risentono infatti questi lavori di Boni, nei quali l’astrazione è ancora legata a riferimenti che si riportano alla natura, nella sensibilità del colore, nella definizione delle concrezioni formali, nell’addensarsi materico, che resterà una delle sue costanti, sia nel periodo informale, sia in quello delle “scaglie”, sia in quello delle “palle”, sia in quello più minimale dei suoi ultimi anni.
Organizzati secondo forme e percorsi, e nei colori che si riportano alla natura, questi quadri, realizzati dalla fine degli anni Quaranta fino ed oltre al suo ritorno a Empoli (’54) si trasformano progressivamente in stesure materiche, creano concrezioni ed emergenze forti e dinamiche, si organizzano, nel corso del decennio, in sbalzi ritmati, avanzando verso lo spettatore, mirando, in certo senso, alla tridimensionalità.
Col suo definitivo ritorno a Empoli (va da sé che non abbandonò né Milano né la passione per i grandi viaggi – Canada, Messico, Giappone -) ha inizio la sua partecipazione più diretta e continua a manifestazioni artistiche, dal Salon parigino des Réalités Nouvelles (durante questa manifestazione, ma non si sa di quale anno – nella documentazione risulta la sua presenza solo in quella del ’59 -, sembra abbia venduto il suo primo quadro), a quelle organizzate dalla Galleria Numero di Fiamma Vigo (Mostra Mercato d’Arte Contemporanea, Palazzo Strozzi, Firenze, ’63, ’64), sia con altre gallerie, a Firenze, Milano, Bergamo, Brescia, Termoli, Basilea, fino alla grande personale presso la fondazione Viani a Viareggio, del ’77, l’anno stesso della sua morte….
Dal ’49 ha dunque inizio l’analisi del suo lavoro.
Curioso, attento a cogliere quanto di più vitale si manifestava nel mondo artistico internazionale, pronto ad assorbirlo e a tradurlo nel suo linguaggio, che lo portava a sperimentare materie e tecniche diverse, con passione, lucidità, pertinacia, non abbandonava una ricerca finché non era arrivato a coglierne tutte le possibilità. Amava la materia, come ho accennato, ed era sempre in cerca di nuovi modi di usarla, di nuove tecniche di aggregazione, a partire proprio dalle più elementari.
Tra l’altro, già in quegli anni, a Empoli, attento anche agli esiti delle attività del suo paese, in quel momento aperto alle nuove tecnologie industriali e commerciali nel campo dell’abbigliamento, scopriva un materiale che lo affascinava, la fiselina, una tela sintetica, compatta, che serviva alle sartorie per rendere performati i risvolti degli abiti, e da quel momento cominciò ad usarla come base di molti suoi quadri, tesa sopra la tela, perché, diceva, “imbevuta dal colore, e una volta asciutta, non sai quali effetti può produrre”. Un segno di quanto la sua necessità di sperimentare, in questo caso gli effetti del contingente, anche in uno come lui, così attento alla definizione del particolare, sia stata forte e importante .
Un altro tra i suoi amici, Osvaldo Masetti, che con Mario Vannetti è il principale promotore di un meritato risveglio di interesse verso il lavoro di Boni (e non solo per quanto riguarda Empoli), e che lo accoglieva spesso a lavorare presso il grande e specializzato laboratorio di falegnameria familiare (ancora una tra le più stimate della regione), mi ha raccontato che a lui chiedeva di creargli delle colle particolari, capaci di fissare le concrezioni e le emergenze che intendeva realizzare nei suoi quadri, che voleva uscissero fuori dal piano, e per i quali usava le materie più diverse, gesso, sabbia, sassi, legno….
Sperimentava ogni materiale che gli permettesse di realizzare al meglio i suoi progetti. E intanto, in un paese il cui ambiente, come ancora nota Pianigiani “non era dei più favorevoli a recepire le idee che si portava dietro da Parigi e da Milano” e dove “la polemica e la testardaggine erano le armi indispensabili per affermare nuovi concetti in una realtà ferma ad esperienze più tradizionali”, riusciva a sollecitare dibattiti, polemiche, a stimolare, comunque, le coscienze.
Lo dimostra proprio la passione che è riuscito a risvegliare in giovani, appunto, che forse, anche col suo incoraggiamento, hanno iniziato a dedicarsi al lavoro artistico. So che anche Bagnoli e Salvadori, che vivevano, giovanissimi, in zona, lo ricordano con affetto.
“Ricordo” scrive ancora Pianigiani “interminabili discussioni sui più svariati argomenti; di solito ascoltava e interveniva ogni tanto, con battute lampeggianti e chiarificatrici, che lasciavano gli interlocutori perplessi e stupiti: la verità è sempre semplicissima”….
Ascoltava tutti, chiedeva consigli agli amici, che poi, ovviamente, non seguiva…Seguiva soltanto la sua necessità di approfondire, con una continua ricerca portata avanti con calma e ponderazione, e abbandonata solo quando, ogni volta, la considerava esaurita.
Il lavoro di Boni, impostato su continui approfondimenti del suo concetto di matericità culminava con la serie che definiva “delle scaglie”. Si tratta di opere sulla cui superficie si dispongono, in successione ritmica, una serie di “scaglie”, appunto, lamelle irregolari, cartacee o lignee, in successione, a provocare una sorta di emergenza a scala, fitta e densa, unificata dal colore, quasi sempre monocromo, ma che, peraltro, nel loro accavallarsi, creano effetti di ombre giocando con la luce. E’ forse, questo, uno dei momenti più interessanti e densi di significato del suo lavoro, che si presenta con aspetti inconfondibili e assolutamente personali.
E vedremo, in alcuni esiti, come questo suo fare uscire dal quadro effetti di luce e ombra verrà a costituire una caratteristica peculiare della sua ricerca, pur sempre variata, nella densità di questi ritmi, nel rapporto continuo con la luce radente.
Dopo il periodo più espressamente informale materico Boni passava, negli anni Sessanta, ai quadri spesso monocromi che definiva “delle palle”.
Usava, infatti, grandi quantità di quelle concrezioni sferiche di vegetali secchi, di dimensioni diverse, che si vedono spesso rotolare sulle nostre spiagge (il “lavarone”), che gettava, e fissava, talvolta alla rinfusa, in una sorta di “random”, talvolta invece in aggregazioni guidate, sulla tela di juta, ricoprendo poi tutta la superficie (spesso predisposta con avvallamenti semisferici, a creare quasi una dilatazione in negativo delle emergenze, pure semisferiche), di un colore intenso (spesso il “blu Klein”, quello di cui Klein, appunto, ricopriva le sue “spugne”), lasciando, invece, in altri casi, la base di un colore diverso, in un gioco di rapporti sempre studiatissimi, calibrati, nella ricerca di un equilibrio formale e cromatico di grande forza, che si propone, anche, come impostazione ètica, come misura estrema delle proprie capacità, in gara con i risultati straordinari di un artista come Klein, col quale egli si metteva dichiaratamente in gioco.
Credo che Burri, per il periodo informale e per il rapporto con la materia, Klein, per questo secondo momento, Fontana, per il suo ultimo periodo, dei monocromi bianchi e neri, del periodo che definiva “degli stecchini” siano sempre stati i suoi punti di riferimento. Comunque è sempre all’Europa che ha guardato, al suo retaggio culturale, alle sue conquiste per quanto concerne l’arte contemporanea, che avrebbero portato, in seguito, l’Europa (e l’Italia) a riconquistare una posizione di rilievo.
E basterà citare, a questo proposito, per quanto riguarda l’Italia, il peso che l’“arte povera” assumerà nella cultura artistica internazionale dopo gli anni Ottanta e quello che rappresenta, in questo momento, la scoperta, soprattutto francese, della nostra (e dico nostra perché è nata proprio a Firenze alla metà degli anni Sessanta, durante la contestazione universitaria), “Radical Architecture”.
Quanto al lavoro di Luigi Boni, ricorderò che, sempre, nel corso degli anni Sessanta, durante la sua frequentazione di Milano, divenuto amico di artisti come Castellani, Bonalumi, Vermi, per ricordarne alcuni, egli, spinto dalla sua instancabile curiosità, si proponeva di sperimentare quelle nuove linee di ricerca che erano esplose in quegli anni, quelle cioè dell’arte programmata, cinetica, visuale. Realizzava allora la serie dei suoi rilievi plastici dinamici che otteneva disponendo, dietro una superficie monocroma, elementi che la tendevano, proiettandosi in avanti, con movimenti alterni prodotti da piccoli motorini retrostanti, a creare, a mezzo di una luce radente prodotta da tubi al neon collocati sui lati orizzontali del quadro, effetti di forme e ombre in movimento, di notevole effetto.
Le premesse si possono trovare nei primi rilievi bianchi, dinamici, di Gianni Colombo, uno degli esponenti del Gruppo T milanese. Ma si tratta anche del tentativo di misurare, in termini di nuovi strumenti e di nuove tecnologie, la sua volontà costante di uscire dal quadro, facendolo dialogare con lo spazio e con la luce, questa volta “portata”. Sono di questo periodo anche le sue sculture in metallo verniciato, strutturate secondo ritmi dinamici radiali, alcune delle quali ancora visibili, come, ad esempio, il gruppo delle tre sculture della villa Natali, riscoperte da Mario Vannetti, altre ormai irrecuperabili, disperse chissà dove…
Sono tutti lavori interessanti, perché Boni portava a fondo, con impegno e con intensità, ogni ricerca che affrontava, commisurandola, sempre, col proprio mondo espressivo. Ma, a mio avviso, non lo rappresentano pienamente. Per dirla con la curiosa espressione del suo primo recensore francese, le sue “combinazioni atomiche”, oltre che spingerlo verso il nomadismo attraverso il mondo, lo hanno sempre portato, appassionatamente, verso la pittura, intesa nella sua accezione più autentica. E’ stato, per così dire, un “pittore nato” ( e mi si perdoni questa espressione così poco scientifica…).
E mi piace parafrasare, a questo proposito, qualche brano da un testo del ‘65 del critico francese di “Combat”, François Pluchard (uso il termine “parafrasare” perché questo testo mi è giunto solo tradotto, e in una traduzione improponibile) che mi sembra aver còlto con chiarezza questa sua qualità: “…. Con grande pudore, la sua sensibilità si rende visibile dietro una sorta di geometria organica. I segni e la successione dei ritmi suggeriscono le pulsazioni della vita, il movimento interno della materia.
La pittura, oggi, non appartiene più ad un solo genere, ad un solo ordine percettivo. L’artista diffida delle apparenze ma non può esimersi dalla contemplazione dell’universo. Ogni manifestazione della sensibilità è contemplazione. Ogni meditazione è un atto di partecipazione, L’arte esalta ed incarna le ambiguità delle esperienze umane…L’oggetto artistico insegna a vedere, rivela la bellezza, instaura posizioni innovative dello spirito, prende partito per una possibile evoluzione. Boni si introduce in questa esperienza mentale che, mettendo in gara la riorganizzazione del mondo, tende a raggiungere una nuova concezione dell’essere….
Fa uso di tecniche semplici, perché sono proprio i mezzi più semplici che hanno maggiore efficacia: avaro di forme, avaro di colori, che dispone in rapporti elementari, riesce così a ritrovare e ad affermare le regole di una sua organizzazione corpuscolare. La sua avventura, allo stesso tempo barocca, ma anche aperta verso nuove tecnologie, stabilisce delle corrispondenze sensoriali tra quanto è segreto e quanto è chiaramente sensibile”.
Spero, almeno, di non aver tradito il significato di questa breve nota che, anche pensando al momento in cui è stata formulata, mi è apparsa molto intuitiva e profonda.
E’ abbastanza strano il fatto che il suo approccio al monocromo di Fontana, al “taglio”, si sia manifestato in lui attraverso l’uso, del tutto casuale, degli stecchini, appunto. Egli, infatti, nel suo sogno di rendersi sempre finanziariamente autonomo, per potersi dedicare al suo lavoro di pittore (tra l’altro non amava vendere i suoi lavori), anche ad Empoli aveva cercato di farsi imprenditore e anfitrione (dagli amici, infatti, non si faceva quasi mai pagare), aprendo, con l’eredità della madre, un night, che naturalmente fu un’impresa deficitaria, anche quando tentò di trasformarlo in discoteca….
Ma proprio durante questa esperienza si era lasciato convincere ad acquistare un lotto assurdo, improponibile, di stecchini, che non sapeva come poter smaltire.
Probabilmente maturava in lui la volontà di nuove esperienze e il lavoro di Fontana rappresentava una rinnovata sfida…. Una appuntatura lineare, di stecchini, fatta quasi per caso lungo un tratto di tovaglia bianca, gli suggerì, appunto, agli inizi degli anni Settanta, tutta una nuova stagione di ricerca.
Si trattava, in certo modo, di “ricucire” il taglio di Fontana, quasi a voler negare quello “spazio oltre” che Fontana aveva rivelato, per ricomporre il quadro, che egli voleva, e aveva sempre voluto, proiettato verso lo spettatore, nella sua frontalità, quasi temesse l’immersione dello spettatore nel quadro stesso e, oltre quello, nella profondità del cosmo.
Il suo mondo espressivo doveva e voleva rivolgersi ad una realtà concreta, alla consistenza della materia, ed egli non intendeva forzarlo verso contenuti astratti. Il suo riferimento era ed è rimasto sempre, comunque, l’informale, che pur implicando la distruzione dell’uomo come materia, ne esalta al contempo l’essere e l’appartenenza al mondo, cercando in esso la coscienza stessa dell’essere e la forza per riuscire a trascenderlo.
Organizzava, almeno agli inizi, la disposizione dei suoi “stecchini”, che sceglieva con estrema cura, uno per uno, in strutture lineari precise, secondo una geometria perfetta, ritrovandone quelle leggi che, della materia, costituiscono la componente astratta e assoluta, quelle stesse leggi che aveva perseguito agli inizi del suo lavoro.
In seguito li disporrà anche in stesure sparse, ritrovando quel senso di una libertà compositiva che è stata una delle componenti della sua ricerca e che non lo ha mai abbandonato. Ma contemporaneamente ritrovava anche quel suo modo di disporre, in rapporti chiusi, forme regolari, cui dava un colore unico, in composizioni che si costituiscono, talvolta, in blocchi pressoché monocromi, dal colore chiaro, morbido, quasi tonale.
Un percorso complesso, quello del lavoro di Luigi Boni, che attraversa e ripercorre quasi tutto lo svolgimento dell’arte europea di mezzo secolo, come testimonianza e come interpretazione personale, da parte di un artista curioso, appassionato, sensibile, che esprime la sua volontà di partecipazione al proprio momento storico e culturale, sia pure rimanendo fedele, malgrado la sua apertura verso il mondo, alle sue radici più autentiche.
Lara-Vinca Masini
Firenze, Settembre 2002