Luisa Generali su Masolino a Empoli
Le opere in Santo Stefano a Empoli
La Madonna col Bambino di Masolino da Panicale
di Luisa Generali (*)
La notizia documentata da Giovanni Poggi nel 1905[1] riguardo ai lavori di Masolino (1383/1384-1436 ca.) nella cappella della Croce, confermò l’ipotesi di Bernard Berenson[2] che per primo aveva attribuito all’artista la lunetta raffigurante la Madonna col Bambino e due angeli (fig.1), datata 1424[3] e collocata nella testata del transetto destro di Santo Stefano, sopra la porta della sagrestia.
Il critico già nel 1902 aveva avvertito che non vi poteva essere alcun dubbio sulla paternità masoliniana dell’opera, come era evidente confrontando i lineamenti della Vergine con quelli dell’adolescente nell’episodio della Resurrezione di Tabita nella cappella Brancacci, e con l’altro giovane dalla testa ricciuta del Banchetto di Erode nel battistero di Castiglione Olona.
Molto ricca è la fortuna critica riservata alla Madonna di Santo Stefano che fu eletta da Berenson la “plus charmant”, ovvero la più affascinante fra le opere di Masolino, mentre Adolfo Venturi nei suoi studi la definisce “fiore di purità”.[4] Odoardo H. Giglioli nel 1906, alla luce delle nuove scoperte, ne dà un’interpretazione puntuale: “Ogni minimo passaggio di tono, perfettamente conservato, si estende in sottili gradazioni dando l’illusione della pelle vellutata sotto cui però la trama anatomica ha la sua consistenza solida e precisa.
Come le dita delle mani della Madonna si piegano, si affilano nella più fine sensibilità tattile, che lo studio magistrale della forma e l’amore fervente del vero ha saputo riprodurre con tanta evidenza ed efficacia! Già solenne è il gesto del fanciullo che benedice e tiene un rotulo spiegato; egli sembra quasi astratto dalla vita terrena, investito ad un tratto da tutta la fiamma della sua fede dominatrice.
I due angeli, che con le braccia conserte fissano il volto del Cristo in atto d’adorazione, sono come impregnati di luce e poi passiamo a grado a grado e con ineffabile godimento dal biondo aurato delle loro capigliature, al tenue roseo della carnagione, a quello più acceso delle tuniche ed alle ali policrome quasi fossero iridescenti”.[5]
Pietro Toesca descrive la Vergine come “radiosa di intima luce nella bianca veste che brilla tra l’azzurro denso del manto, nel viso di un chiarore di paradiso”,[6] mentre Mario Salmi parla della lunetta di Masolino proponendo una serie di confronti: “La bellezza dei colori della tunica rosea violacea a fiorami del Putto, memore dei modi di Gentile da Fabriano, negli sfumati camici rosa pallido degli angeli, nell’azzurro intenso del manto della Vergine-ancora drappeggiato goticamente-sovrasta di gran lunga ad ogni altro effetto.
Il bimbo in piedi con un filatterio e benedicente, disceso dai senesi attraverso Lorenzo Monaco fino all’Angelico, ma tanto simile ai bambini di Arcangelo di Cola, è più grave e più corposo di quelli che abbiamo visti.”[7]
Lazzeroni interpreta l’opera come immagine sacra cosparsa da “una soffusa aria di profondo misticismo che promana in particolar modo dall’ieratico, devoto atteggiamento di quei due angeli così delicati, così eterei”, e continua leggendovi “un invito alla pace espresso dalla serenità del pur maestoso volto della Vergine Madre, e un invito alla fede che il piccolo Gesù esprime col suo gesto benedicente.”[8]
Emma Micheletti ne fa una descrizione incentrata sugli effetti luminosi e coloristici dell’intero brano: “Sul fondo, forse un tempo giallo dorato, ora, a tratti, rosa, si stacca l’agile figura purissima della Vergine fanciulla, che irradia dal volto dolcissimo e dalla tunica bianca, una luce che si diffonde a tutta la composizione, dal manto di un azzurro intenso, goticamente panneggiato, al Bambino, invece un po’ tozzo, che la madre stringe affettuosamente al cuore, avvolto in una tunica rosa e viola a fiorami dorati. […] Emana da tutta la composizione un senso di gioia della vita e di pura, serenante contemplazione.”[9]
Rosanna Proto Pisani ravvede nella Madonna col Bambino di Empoli i caratteri tipici della pittura masoliniana “dall’intensa luminosità, al dispiegarsi raffinato di colori di fiaba, che trasmettono una profonda gioia e godimento a chi guarda.”[10] Anche Luciano Berti dà una propria interpretazione critica dell’affresco empolese, in cui sottolinea l’impiego di una “luce proveniente da sinistra, la quale produce sensibili cangiantismi nelle tuniche angeliche e nel manto della Madonna, mentre i carnati in contrasto diventano abbronzati.”[11]
In seguito prosegue ravvisando nel Bambino Gesù, qualche influenza masaccesca: “Il putto benedice con una certa serietà, come farebbe un masaccesco, ed ha gli occhi bucanti e una smorfina nella bocca (simile a quella della Vergine nel Trittico di San Giovenale) sebbene resti la tunichetta (ad Empoli scandalizzerebbe il nudo pur puerile) e con i piedi sempre resi di punta.”[12]
Passando alla descrizione dell’opera, la lunetta presenta al centro una giovane Maria mentre sorregge il Bambino in piedi, nell’atto di benedire: madre e figlio sono affiancati da due eleganti angeli dalle affilate ali striate, colti leggermente di tre quarti, con le braccia conserte in segno di adorazione. La Madonna risplende nella veste bianca e nel velo azzurro,[13] che le incornicia il viso fino ad avvolgerla: sulla destra del manto risalta una stella a otto punte, metafora di Maria, Stella Maris, simbolo di salvezza celeste e di perfezione divina.
Gesù dai tratti fisionomici già maturi, ricorda ancora le tavole toscane della metà del 1200 in cui il Bambino veniva raffigurato con la fisicità di un anziano, stempiato e talvolta calvo[14]. Il Puer di Masolino tiene con la mano sinistra un cartiglio su cui appariva una scritta, forse il motto “Ego sum lux vitae”,[15] oggi non più leggibile, mentre alza solennemente la destra nel tipico gesto della benedizione: questo segno diventa fulcro centrale della scena e spartisce simmetricamente lo spazio della lunetta.
Salmi fu il primo a notare la somiglianza fra il Bambino della lunetta in Santo Stefano, ed i bambini di Arcangelo di Cola (documentato fra il 1416 e il 1429, fig.2), mentre come sottolinea Joannides,[16] sono chiari i riferimenti alla Madonna in trono con il Bambino e quattro angeli di Antonio Veneziano (attivo tra il 1369 e il 1388, fig.3)[17].
Il pargoletto indossa un’elegante tunica violacea a piccoli motivi floreali stilizzati, un tempo rifiniti in oro, mentre di tonalità più chiare appaiono le vesti dei due angeli “eseguiti con tocco raffinato per i sottili trapassi di colore che passa gradatamente dal biondo dei capelli al rosa della carnagione.”[18]
L’angelo a sinistra allunga leggermente il collo, un motivo iconografico caro a Masolino, solito rappresentare così alcune figure, diventando questo un segno distintivo della sua ricercata arte. Lo sfondo che oggi appare color ocra, un tempo era interamente dorato e conferiva all’affresco la preziosità di un mosaico o di un dipinto su tavola:[19] come scrive Rosanna Proto Pisani “ciò che colpisce di più nell’intera composizione è il continuo e lento degradare dei colori, dal fondo giallo a tratti dorato alla tunica bianca e al manto azzurro della Vergine, alla veste rosa e viola del Bambino a fiorami dorati, che provocano nel loro raffinato accostamento una luminosità tale da invitare ad una serena contemplazione.”[20]
In seguito la stessa autrice instaura un confronto con la Madonna di Brema e quella di Monaco, entrambe opere su tavola di Masolino, che definisce non lontane dalla lunetta empolese, sebbene qui sia ravvisabile “uno sviluppo in senso morale della figura della Vergine e del Bambino che lascia presupporre un primo meditato contatto con Masaccio”.[21] Una pallida luce da sinistra irradia i quattro personaggi, nonostante tutta l’intera composizione brilli di una “luminosità diffusa e radiata che emana quasi direttamente dai protagonisti.”[22]
Una particolarità è riservata alle aureole dei quattro personaggi realizzate in gesso dorato con incisioni lineari[23] in modo da apparire in rilievo rispetto allo sfondo. La decorazione pittorica andava oltre la lunetta, inserita in una ricca incorniciatura dipinta a imitazione di un tabernacolo in marmo bianco, corredato di pinnacoli e cuspidi, e di cui oggi si conserva un frammento d’affresco.
Qui Joannides coglie delle similitudini con la parte alta del trono nell’affresco di Montemarciano (fig.4-5), concordemente attribuito a Francesco d’Antonio, e ipotizza che proprio nelle parti decorative della lunetta, Masolino sia stato affiancato dal collega.[24] Questa cornice gotica serviva a dare un senso d’illusione ottica, e come scrive Walfredo Siemoni “è da considerarla un precocissimo esempio di trompe-l’oeil dal gusto acerbamente rinascimentale.”[25]
Osservando la composizione nel suo insieme, si può notare come “l’intero apparato risulti perfettamente frontale rispetto al portone di chiesa (a quest’epoca il solo accesso dall’esterno) per comprendere quale raffinato gioco illusivo Masolino abbia concepito: una pittura ad affresco che finge di essere una tavola a fondo oro compresa in un elaborato tabernacolo marmoreo, non poi così dissimile da quelli in marmo che si andavano realizzando a Orsanmichele.”[26]
Questo effetto illusionistico, se pur indebolito dal passare dei secoli, è ancora osservabile nella collocazione originaria della lunetta, che si trova a coronamento della porta di sagrestia di fronte all’ingresso principale della chiesa.
Sulla parte bassa sottostante l’opera, appaiono affrescati una coppia di stemmi (fig.6), identificati con quelli della famiglia dei Federighi[27]: ciò trova riscontro in un blasone lapideo identico a quello affrescato (fig.7), oggi posto nel soprarco della cappella di San Nicola da Tolentino, precedentemente dedicata a San Francesco, appartenuta a Matteo di Benozzo, membro della famiglia dei Federighi, che risultava già esserne patrono nel 1401.
Gli stemmi dipinti sui plinti dove poggia la lunetta, indicano questa importante casata empolese quale committente dell’affresco: tramite documentazione d’archivio ricordata recentemente da Siemoni, sappiamo che “nel giugno del 1401 Matteo di Benozzo aveva fondato nel transetto destro un altare dedicato al suo santo eponimo, San Matteo, obbligando gli agostiniani ad officiarne la festività annuale in cambio di un congruo lascito”.[28]
E’ possibile dunque che nel 1424, qualche componente a noi ignoto della famiglia dei Federighi, avesse approfittato della presenza a Empoli di Masolino e gli avesse commissionato la decorazione della lunetta raffigurante la Madonna col Bambino e due angeli per l’altarino di famiglia in Santo Stefano.[29] Nei secoli a seguire non abbiamo notizie riguardo i fatti dell’opera, che probabilmente rimase inalterata fino al 1660, anno in cui l’affresco e il suo contesto quattrocentesco furono protagonisti di alcune trasformazioni. Come riportato dal Poggi,[30]
sappiamo che prima del 1660 l’affresco era collocato sopra la porta della sagrestia e sotto il monumentale organo:[31] in questa parte del transetto destro fu proposta la costruzione di un grande altare in pietra serena, ad opera del priore fra Francesco di Biagio Franci da Empoli, che nel 1661 realizzò questo nuovo spazio dedicato alla “Madonna della Sagrestia”.
In tale occasione l’organo fu spostato nell’attuale collocazione, nella parete di fondo della chiesa, la porta della sagrestia fu rimossa e costruita nuovamente alla destra dell’altare, mentre la lunetta di Masolino venne alzata di circa un metro rispetto alla primitiva collocazione. Come si legge in una delibera del luglio 1658:
“Il padre baccelliere Fulgenzio Piattini da Empoli chiese di togliere l’organo sopra la Santissima Vergine della Sagrestia e metterlo in fondo della Chiesa per maggior decoro e grandezza di detta Chiesa perché il priore Francesco Franci ha detto di haver un benefattore che avrebbe fatto a detta Madonna un altare in pietra serena.”[32]
Il Poggi su “Rivista d’Arte” nel gennaio 1905, pubblica una serie di documenti riguardanti proprio l’edificazione di questo altare seicentesco, fra cui emergono anche le vicende relative ai vecchi patronati dei Federighi, e di un certo Iacinto Cecchi (o Cocchi)[33]:
“A dì 8 Gennaio 1660. Desiderando il padre fra Francesco Franci da Empoli figliolo di questo nostro convento di fare nella nostra chiesa di Santo Stefano di detto luogo una cappella et altare concedente alla Madonna della sagrestia per abbellimento della chiesa e per sua devotione et havendone la licenza dal signore Federighi che pretendevano haver parte in detto luogo, e che il signore dottor Iacinto Cecchi al quale più anni sono fu concesso da’ padri del convento il medesimo luogo non ha volontà di proseguire la sua richiesta essendosi licenziato di tale obbligo, che però fu da me fra Vincentio Venturi da Pietrasanta, al presente priore di detto convento, proposto in pubblico refettorio a tutti PP. se si compiacessero di conceder il detto luogo al detto padre fra Francesco Franci per fare la detta cappella in pietre serene e condecente come sopra, e fu da detti padri approbata la detta propositione.” [34]
Una volta spostato l’organo e conclusi i lavori per la creazione dell’altare[35] entro l’anno 1661, si pensò alla pittura che poteva decorarlo e che doveva inquadrare la Madonna col Bambino di Masolino, adorata come immagine sacra.
La tela in questione fu commissionata a Giacinto (o Diacinto) Botteghi,[36] un pittore del seicento fiorentino di cui rimane incerta l’identificazione. L’opera, conservata oggi nella parte presbiteriale della chiesa, raffigura i Santi Biagio, Stefano, Antonino, Gabriele e Chiara da Montefalco in adorazione e racchiude al centro una finestrella, in cui attualmente si trova inquadrata un’Adorazione dei pastori, di autore e provenienza sconosciuti (fig.8).
Il dipinto, con al centro un vano rettangolare provvisto di una cornice autentica e un’altra dipinta illusionisticamente, in origine era stato concepito per omaggiare l’opera masoliniana e glorificarne il culto: l’inclusione di un’opera antica in un contesto moderno era un’usanza seicentesca molto frequente, utilizzata per esaltare la sacralità di alcune rappresentazioni particolarmente venerate e col passare dei secoli considerate miracolose.
Coperta di icona[37] è il nome specifico per definire queste particolari pale d’altare create per nobilitare le immagine votive che spesso venivano appositamente celate sotto veli e mantelli per accrescere la sacralità del loro culto, e mostrati solo in particolari occasioni. I soggetti rappresentati nell’opera[38] di Botteghi, furono di proposito creati in atteggiamento d’adorazione, rivolti benevolmente verso la Madonna col Bambino di Masolino: in ultima fila fra i personaggi, l’arcangelo Gabriele mostra un cartiglio con un’iscrizione mariana dedicata all’immagine sacra.
Della lunetta quattrocentesca rimaneva visibile solo il gruppo centrale della Vergine col Bambino, mentre i due angeli e il resto dell’affresco, compresa la parte decorativa del tabernacolo e i sottostanti stemmi della famiglia Federighi, restarono coperti dalla tela. A proposito di questo grande altare e dei barocchismi seicenteschi che ancora nei primi anni del Novecento vi gravitavano intorno, il Giglioli lancia una critica pungente:
“Nulla dovrebbe turbare l’armonia di questo affresco meraviglioso e la semplicità intorno dovrebbe regnare sovrana, senza che il gusto sfacciato venga di tanto in tanto a sfogarsi sull’altare con paramenti e imagini dozzinali, che per un dato periodo dell’anno nascondono e offendono l’arte di Masolino.”[39]
A seguito dei restauri iniziati nel 1943, il monumentale altare fu demolito e si riportò alla luce l’antico impianto quattrocentesco, con il ripristino della porta di sagrestia sotto la lunetta, e il recupero dei frammenti d’affresco del finto ciborio e dei due stemmi araldici: oggi questo antico capolavoro si può ammirare in Santo Stefano, nella sua collocazione autentica e nel rispetto della originale ideazione quattrocentesca.[40]
Per concludere il quadro sulle vicende artistiche e storiche della lunetta di Masolino, ricordiamo le parole del Giglioli, che al termine della descrizione dell’affresco, guardando oltre i tecnicismi propri del maestro, vi percepisce le tracce di un sensibile animo umano:
“Al cospetto della pittura sua non solo abbiamo ammirato la potenzialità estetica dell’artista, ma imparato a conoscere l’anima e le aspirazioni di lui, che sono le stesse dell’ambiente entro a cui lavorava. Così per il popolo adunato nella chiesa in mistico raccoglimento, egli ha lasciato la rappresentazione più ideale della fede e l’ha fatto vivere eternamente davanti agli occhi estatici dei devoti e dentro la loro coscienza. […] Ci distacchiamo a malincuore da tanta suggestiva visione, pensando a qual grado di bellezza doveva assurgere, appena uscita dal magico pennello dell’artista.”[41]
NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
(*) Questo testo è una rielaborazione di un capitolo della mia tesi di laurea triennale dal titolo “Masolino da Panicale e il suo intervento in Santo Stefano degli Agostiniani a Empoli”, discussa presso l’Università degli studi di Firenze il 3 luglio 2014.
[1] Giovanni Poggi (1880-1961) fu un importante storico dell’arte fiorentino redattore e poi direttore del periodico “Rivista d’arte”. Nel 1905 pubblicò sulla medesima rivista i documenti della Confraternita della Croce, compagnia laicale fra le più antiche del territorio empolese e titolare di alcuni spazi in Santo Stefano.
Nella documentazione pubblicata, Poggi riportò l’inventario che la Compagnia della Croce aveva trascritto nei suoi registri nell’anno 1469 e in cui veniva ricordata la storia più antica degli arredi e dei paramenti sacri di loro proprietà. Fra le annotazioni del “lonventario”, sorprese una postilla che riportava un pagamento a “Maso di Cristofano dipintore da Firenze” in data 2 novembre 1424 per la decorazione pittorica della cappella posseduta dalla Confraternita.
Grazie alle ricerche d’archivio di Poggi, non solo venne attestato il soggiorno empolese di Masolino, confermando l’ipotesi che la Madonna col Bambino e il Vir dolorum, fossero opere di sua paternità, ma si dette anche nuova memoria ad un intero ciclo di affreschi scomparso che documentava l’impresa pittorica su muro più antica di questo artista appena prima della grande impresa della Brancacci insieme a Masaccio.
Dopo l’individuazione della cappella, rintracciata nell’ultimo vano destro in fondo alla chiesa di Santo Stefano, nel 1943 iniziarono i lavori di restauro sotto la direzione di Ugo Procacci (1905-1991), che riportarono alla luce alcuni frammenti di affresco e le sinopie, preziose tracce rimanenti di un intero ciclo che narrava le Storie della Vera Croce. Durante i medesimi lavori di restauro venne recuperato anche il frammento di affresco raffigurante Sant’Ivo fra i pupilli. POGGI 1905, pp.46-51.
[2] BERENSON 1902, pp.49-50.
[3] La critica è concorde nell’accettare la data di esecuzione dell’opera nel 1424, anno in cui è attesta la presenza di Masolino a Empoli. Solo Schmarsow propose una datazione più tarda, spostando l’esecuzione della lunetta al 1432, per delle affinità con l’affresco nella chiesa di San Fortunato a Todi: tuttavia questa ipotesi rimane isolata.
Si ipotizza infatti, che la permanenza di Masolino nel castello di Empoli sia iniziata nei primi mesi del 1424: contattato in origine per la commissione in Santo Stefano, realizzò gli affreschi del transetto destro, per poi continuare con la decorazione della cappella della Croce, come testimonia il pagamento in data 2 Novembre 1424 (considerando l’ipotesi che il pagamento fosse stato effettuato a lavori compiuti); infine il soggiorno empolese si concluse agli inizi del 1425 quando per il Battistero della Collegiata Masolino terminò il Vir Dolorum, opera di potente impatto visivo, più vicina allo stile di Masaccio. Si veda PROTO PISANI 1987, pp.107, 116; BERTI 1990, pp.146-147; JOANNIDES 1993 pp.301-302; SIEMONI 2013, p.39.
[4] VENTURI 1911, p.98.
[5] GIGLIOLI 1906, pp.136-137.
[6] TOESCA 1908.
[7] SALMI 1948, p.86.
[8] LAZZERONI 1957, p.143.
[9] MICHELETTI 1959, pp.22-23.
[10] PROTO PISANI 1987, p.107.
[11] BERTI 1988, p.29.
[12] Ibidem.
[13] Le primissime informazioni sullo stato di conservazione dell’opera sono state date dal Giglioli nel 1906, quando lui stesso osservò e descrisse alcuni interventi eseguiti successivamente: “Per esaminare più da vicino la pittura e anche per rendermi meglio conto dello stato suo di conservazione montai sopra l’altare e de visu potei convincermi dei vandalismi commessi coi chiodi piantati qua e là, mentre palesemente distinguevo i restauri e qualche lieve screpolatura.
Il manto della Vergine ridipinto ha perso la bellezza dell’antico oltremarino ricoprendo le dita del piede del bambino ed anche gli aurei ricami dei lembi. Intatto tutto il resto dove si ammira il procedimento tecnico dei colori leggeri, luminosi, trasparenti. Restano ancora le tracce d’oro sul fondo e sull’aureola del Cristo mentre sono scomparse su quelle in rilievo e raggiate degli angioli.”
L’ azzurro denso con cui era dipinto il manto al momento del restauro di Procacci, era dovuto ad un tardo ritocco, che in seguito fu asportato per ritrovare l’azzurro tenue originale, come si può osservare tutt’oggi. GIGLIOLI 1906, p.138; LAZZERONI 1957, p.143; PROTO PISANI 1987, p.107.
[14]Questa rappresentazione del Bambino Gesù è tipica di un simbolismo di origine bizantina che esalta l’aspetto metaforico a scapito del naturalismo: predomina l’idea che Gesù sia fin da piccolo un saggio, perchè incarnazione del Verbo esistente fin dai tempi della creazione.
[15] RAGIONIERI 2012, p.56.
[16] JOANNIDES 1993, p.311.
[17] Le innovazioni portate da Antonio Veneziano e Gherardo di Jacopo Starnini, detto lo Starnina, si fondarono principalmente nella ricerca coloristica e luminosa, coniugata all’eleganza grafica ed un’attenta resa delle tensioni emotive. Masolino fu senz’altro condizionato dai due maestri, considerando il discepolato che legò Antonio Veneziano allo Starnina, da cui a sua volta Masolino, secondo Vasari, “apprese il colorire”.
Il fatto che anche Gherardo Starnina abbia lavorato in Santo Stefano a Empoli nel 1409 non sembra una coincidenza e fa supporre che il giovane Masolino, forse nella veste di un semplice garzone, possa avere affiancato il maestro, e successivamente ereditato la committenza. Rigurado agli affreschi dello Starnina, nel 1943 venne effettuata dall’equipe fiorentina di Procacci, una campagna di ricerca in cui emersero degli esigui frammenti d’affresco nella prima cappella a destra dell’altar maggiore, oggi staccati e conservati al Museo della Collegiata di Empoli.
La Confraternita della Santissima Annunziata era probabilmente il committente di un intero ciclo di affreschi qui dedicato alle Storie di Maria. Tra le influenze artistiche che più condizionarono il linguaggio figurativo di Masolino si ricordano Taddeo Gaddi (1300 ca.-1366) e Agnolo Gaddi (1350 ca.-1396), padre e figlio, rispettivamente frescanti nella Cappella Baroncelli e nella Cappella Maggiore in Santa Croce. 1905 VASARI 1568, pp.249, 313; GIGLIOLI 1906, pp.19-21; PROTO PISANI 1987, pp.17-18, 35; PAOLUCCI 1990, pp.26-27; RINALDI 2001, p. 8; SIEMONI 2013, pp. 41-45.
[18] PROTO PISANI 1987, p.107.
[19] I restauri del dopoguerra hanno confermato che lo sfondo della lunetta era dorato, un fatto insolito che non è comune trovare nella pittura ad affresco. SIEMONI 2013, p.35.
[20] PROTO PISANI 1987, pp.107-108.
[21] PROTO PISANI 1987, p.108.
[22] Ibidem.
[23] SIEMONI 1986, p.208; JOANNIDES 1993, p.311.
[24] Prima di stringere la compagnia con Masaccio fra gli anni 1424-1425, Masolino aveva già stabilito un’unione artistica precedente con il pittore Francesco d’Antonio (1393/1394-1433 ca.), lo stesso che gli fece da garante per un affitto nel quartiere di Santa Felicita nell’anno 1422.
La collaborazione artistica regolata da contratto denominato “compagnia”, era un vero e proprio sodalizio economico, una sorta di piccola società per azioni di tipo temporaneo (solitamente di tre anni e rinnovabile alla scadenza), che consisteva nella messa in comune di un patrimonio iniziale per la condivisione di entrate e uscite provenienti dalle attività di ciascun membro.
Questo permetteva una maggiore sicurezza economica e salvaguardava da eventuali tracolli finanziari: inoltre il contratto di compagnia non prevedeva la condivisione della bottega, ma consentiva una possibilità che restava a discrezione degli interessati.
E’ possibile che nel 1424 fosse presente sul cantiere di Santo Stefano anche Francesco d’Antonio, come sostiene Waadenojen (1984) che individua in alcuni brani pittorici nella Cappella della Croce, la mano di quest’ultimo: anche nell’illusionistica architettura gotica che inquadra la Madonna col Bambino si individua un confronto con la parte superiore del trono nell’affresco raffigurante la Vergine col Bambino e Santi nel Santuario di Santa Maria delle Grazie a Montemarciano (Arezzo), e generalmente attribuito proprio a Francesco d’Antonio.
Allo stesso artista è da riferirsi l’affresco del tabernacolo viario posto nel canto tra la piazza nuova e via della Scala a Firenze, oggi sostituito da una copia e conservato smembrato nella cappella della scuola dell’Arma dei Carabinieri. Qui l’artista aggiorna in senso rinascimenatale il suo linguaggio figurativo inserendo come quinta scenica un trono formato da tre elementi all’antica. La nicchia centrale su cui siede la Vergine, è terminata da una colotta baccellata, che prende a modello il tabernacolo della parte guelfa di Donatello a Orsanmichele.
La collaborazione dei due in Santo Stefano sarebbe stata però breve se si considera che nel mese di marzo del 1424 si attesta una lite rimessa all’arbitrio di Lippo d’Andrea e di Pietro Chellino, e che stabilisce lo scioglimento della compagnia. Alla luce di questo documento è possibile che, se l’arrivo di Masolino a Empoli risalisse a prima di tale data, anche Francesco d’Antonio avrebbe potuto effettivamente collaborare agli affreschi in Santo Stefano.
Fra gli aiutanti di Masolino a Empoli, Mario Salmi rintraccia la mano di Paolo Schiavo (1397-1478), pittore fiorentino, ricordato da Vasari come allievo del maestro: “E Paulo Schiavo […] si ingegnò molto di seguir la maniera di Masolino”.
Nello specifico Salmi individua come interventi di Paolo Schiavo, alcune figure di Santi presenti nell’intradosso della capella della Croce.
VASARI 1568, p.313; SALMI 1948, pp.84-85; WAADENOJEEN 1984, p.53; JOANNIDES 1993, p.312; PROTO PISANI 1987, p.40; BELLUCCI 2004, pp.149-153, 181; BORTOLOTTI 2008, pp. 647-655; GIURA 2016, pp.114-115.
[25] SIEMONI 2013, p.35.
[26] La sinopia del Santo Guerriero nel pilastro esterno della cappella della Croce in Santo Stefano (1424) così come il San Giuliano (1423-1425), parte del trittico Carnesecchi, conservato al museo diocesano di Santo Stefano al Ponte, sono entrambe opere di Masolino che confermano la partecipazione dell’artista alle novità spaziali ed etiche portate da Donatello nel San Giorgio di Orsanmichele e più tardi, da Andrea del Castagno nel ciclo degli Uomini illustri.
La nicchia, sia scolpita che dipinta, diventa spazio abitabile in cui i personaggi assumono autonomia ed esprimono a pieno le proprie virtù e caratteristiche. SERAFINI 2013, p.96; SIEMONI 2013, p.36.
[27] La potente famiglia dei Federighi, molto conosciuta anche a Firenze, era probabilmente originaria di Sovigliana, zona confinante a Empoli: questa importante casata annoverava fra i suoi componenti personalità di spicco quali banchieri, gonfalonieri e cavalieri.
Lo stemma affrescato sotto la lunetta è stato spesso confuso con quello della famiglia dei Medici, per la somiglianza del blasone a sei tondini che accomunava le due casate. RAGIONIERI 2012, p.91.
[28] Il 26 giugno 1401 Matteo di Benozzo Federighi, alla presenza dello zio, Francesco di Lapo e dei nipoti Giovanni e Bartolomeo, dispone un lascito testamentario affinché gli agostiniani celebrassero la festa dell’evangelista al proprio altare, presso la sagrestia, utilizzando i propri ricavati dalla “nave di Sovigliana”, imbarcazione che collegava le due sponde dell’Arno. Si veda PROTO PISANI 1987, p.87; SIEMONI 2013, pp.34-35.
[29] Anche la lunetta lapidea datata nei primi anni del Quattrocento, oggi presente sopra il lavabo della sagrestia, potrebbe essere in rapporto con i Federighi e il loro patronato su questa parte dell’edificio: la figura rappresentata a stiacciato sarebbe, non un semplice angelo benedicente, come a lungo ritenuto, ma l’evangelista Matteo in relazione con il sopracitato Matteo di Benozzo Federighi, fondatore dell’originario altare. SIEMONI 2013, p.35.
[30] Delle vicende seicentesche che riguardarono la lunetta di Masolino, oltre al Poggi ne parlano anche il Giglioli (1906) e il Bucchi (1916), antiche guide di Empoli. Si veda POGGI 1905, pp.49-50; GIGLIOLI 1906, p.136; BUCCHI 1916, p.105.
[31] Al 1557 risalgono le prime notizie dell’organo di Santo Stefano, posto sopra la porta della sagrestia e realizzato da Domenico Benvenuti, costruttore e riparatore d’organi, nato a Colle Val d’Elsa: dopo il trasferimento nella parete di fondo della chiesa, il monumentale strumento fu abbellito di dorature risalenti al 1756. Tutt’oggi l’organo si trova nella medesima collocazione seicentesca. RAGIONIERI 2012, pp.67-69.
[32] ASFi, Conventi soppressi, Santo Stefano d’Empoli, 72, filza 31, c.1. Si veda SIEMONI 2013, p.130.
[33] Si veda POGGI 1905, pp.49-50; SIEMONI 2013, p.130.
[34] Il patronato della famiglia Federighi doveva essere cessato da almeno due secoli, quando nel 1644 il Signor Dottor Jacinto Cocchi da Empoli, si interessò a questo spazio “per farvi edificare una cappella in ornamento e devotione di quella Immagine Santissima e a devotione di detto Signore.”
Successivamente per motivi non chiari il lavoro non venne portato a termine e l’altare fu edificato nel 1661 da Fra Francesco Franci. Archivio dell’opera di Sant’Andrea d’Empoli, Campione Beneficiale; ASFi, Conventi soppressi dal governo francese, Santo Stefano degli Agostiniani, 72, filza 30, c.6. Pubblicato in POGGI 1905, pp.49-50.
[35] Grazie ad una foto d’epoca risalente agli interventi di restauro di Procacci, sappiamo che l’altare era uno fra i più monumentali del complesso di Santo Stefano: a coronamento si trovava un timpano incorniciato da un arco spezzato, riccamente decorato con motivi a rilievo così come la trabeazione, mentre la sovrastante balaustra era probabilmente ciò che rimaneva della cantoria dell’organo che venne spostato nella parete di fondo della chiesa. La costruzione di altarini lapidei in stile vasariano fu realizzata per aggiornare la chiesa di Santo Stefano alle regole e al gusto controriformato. SIEMONI 2013, pp.95, 130-131.
[36] E’ ancora incerta l’identificazione di questo pittore seicentesco, riconosciuto talvolta con Giacinto o (Diacinto) Botteghi (1603-1679), indicato anche col cognome Botti, e ricordato da Filippo Baldinucci come allievo di Francesco Furini (1603-1646): altri studi propongono di identificare l’artista con Giacinto Botteghi detto anche Jacopo Bottegi, immatricolato all’Accademia nel 1640 e morto il 14 dicembre del 1695, pittore di una tela ex voto per il convento della Santissima Annunziata raffigurante Fra Mansueto fiorentino servita, stando in pericolo di annegare nel fiume Secchia, è liberato da Maria Annunziata (1690), e identificabile come frescante nel Chiostro dei Morti in Santo Spirito per la lunetta col Martirio di Sant’Antonino di Apamea ad opera dei pagani, oggi gravemente deteriorata.
Ritornando alla tela empolese, come riporta Siemoni, una fonte coeva ci informa che “la pittura è di mano di Diacinto Botteghi fiorentino, Homo stimato assai; ha speso il sopraddetto padre Franchi scudi 145 nella pittura; ha la cornice inorata e il telaio scudi 34, in tutto scudi 379.”
L’autografia dell’artista è visibile nel manico di un pettine in ferro, (strumento dei cardatori di lana attributo di San Biagio), tenuto da un angelo in primo piano, in cui è visibile il nome e la data “Giacinto Botteghi 1664”. BENASSAI 2010, pp.67-87; SIEMONI 2013, pp.131-132; CECCHI 2014, pp. 229-258.
[37] Dopo il Concilio di Trento (1545-1563), le chiese dovettero adattarsi alle nuove regole imposte per aggiornare il linguaggio figurativo in base alla controriforma e così rimuovere gran parte delle opere medievali, spesso ricorrendo a metodi estremi. Diversamente alcune raffigurazioni sacre furono risparmiate, perché oggetto di devozione da parte dei fedeli che le credevano miracolose: per questo al fine di proteggerle e adattarle alle nuove regole rituali, furono introdotte le coperte di icona.
[38] L’opera riflette il gusto fiorentino seicentesco, a metà strada fra le novità del barocco portate da Pietro da Cortona e la tradizione controriformata ancora presente soprattutto nella contenuta e devozionale gestualità dei Santi. Particolare è l’uso acceso dei colori che va a imprezziosire le vesti lussuose di alcuni personaggi con cangiantismi e giochi luce. L’opera dialogava con la coeva Assunzione della Vergine (1659) di Mario Balassi, posta nell’altare di fronte, patronato della famiglia Neri. SIEMONI 2013, p. 133.
[39] GIGLIOLI 1906, pp.137-138.
[40] Durante gli anni della seconda guerra mondiale la lunetta di Masolino fu portata in blocco a Firenze, tramite uno stacco a massello (operazione molto delicata, che comporta la rimozione dell’affresco dal muro).
Nei locali dell’Accademia l’opera fu esposta alla mostra inaugurata nel maggio 1947 e dedicata alle Opere d’arte trasportate a Firenze durante la guerra e opere d’arte restaurate, in cui si dimostravano le straordinarie capacità di recupero del patrimonio artistico nel dopoguerra; inoltre si esponevano anche opere non danneggiate da eventi bellici, ma protette e trasportate dalle chiese del circondario in appositi magazzini.
L’affresco venne poi ricollocato sopra la porta della sagrestia in Santo Stefano, mentre la fotografia dello stacco a massello dell’opera, fu presentata in varie mostre come testimonianza di salvaguardia del patrimonio culturale. PROTO PISANI 1987, p.106; FANTOZZI MICALI 2002, pp. 22-23.
[41] GIGLIOLI 1906, pp.137-138.
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FONTI ARCHIVISTICHE
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