Michelangelo, Tiberio Calcagni, e la Pietà fiorentina
Michelangelo, Tiberio Calcagni, and the Florentine “Pietà”
William E. Wallace, Artibus et Historiae
Vol. 21, No. 42 (2000), pp. 81-99
Trad. Andreina Mancini
Ringrazio il Professor Wallace per avermi gentilmente permesso di tradurre il suo articolo e di pubblicarlo sui miei siti
https://www.ilraccontodellarte.it e www.adottaunoperadarte.it
Paolo Pianigiani
In uno dei suoi sonetti più conosciuti Michelangelo fece questa riflessione: “Non ha l’ottimo artista alcun concetto/c’un marmo solo in sé non circonscriva/ col suo superchio, e solo a quella arriva/ la mano che ubbidisce all’intelletto …”1 A partire dal commento di Benedetto Varchi nel XVI secolo, questa poesia è stata la pietra miliare per interpretare la teoria artistica di Michelangelo. Inoltre, è in parte responsabile di un’immagine onnipresente dell’artista al lavoro: scolpendo il marmo Michelangelo ha semplicemente liberato una figura completamente imprigionata all’interno di un blocco appena sbozzato.2 Allo stesso modo, Giorgio Vasari ha descritto vividamente ma in modo impreciso la scultura di Michelangelo come un graduale uscire fuori dal blocco, come una figura che emerge mentre viene sollevata a poco a poco da una vasca d’acqua.3 Queste sono immagini avvincenti della creazione ma hanno poco a che fare con le realtà dello scolpire il marmo. La maggior parte delle sculture di Michelangelo, e in particolare la Pietà fiorentina [Fig. 1], racconta una storia più tortuosa e talvolta frustrata di dare vita a un materiale resistente e privo di spirito.
In questo articolo intendo concentrarmi su alcune questioni interconnesse che riguardano la Pietà incompiuta di Michelangelo e il suo “completamento” da parte del suo assistente Tiberio Calcagni. Prenderò in considerazione innanzitutto l’ambizione e la difficoltà tecnica di scolpire un gruppo marmoreo di quattro figure, un’ambizione che potrebbe essere una delle cause dell’abbandono del lavoro da parte di Michelangelo. Discuterò poi i rapporti di Michelangelo con Tiberio Calcagni e riconsidererò il contributo di quest’ultimo alla Pietà e, soprattutto, il suo salvataggio della scultura danneggiata. In particolare, parlerò del ruolo che Maria Maddalena svolge nella composizione e nell’iconografia, poiché è la figura che viene spesso negata a Michelangelo e ipoteticamente “attribuita” a Calcagni.4
Di proposito o per caso, la Pietà fiorentina è stata uno sforzo collaborativo, come attestano ampiamente la documentazione storica e la scultura stessa. Mentre Calcagni è spesso accusato di difetti presenti nella scultura, ha anche il merito di averne assicurato la sopravvivenza. In un momento difficile, Michelangelo si fidò del suo intervento e Calcagni capì sia cosa poteva, sia cosa non doveva essere fatto per finire la grande opera d’arte.
* * *
Una delle sfide per gli scultori del Rinascimento era quella di scolpire più di una figura da un singolo blocco di marmo. Pochi artisti del XV secolo si misurarono con sculture così complesse; la difficoltà di scolpire figure singole era già abbastanza impegnativa. Il problema riguarda la visualizzazione e un’attenta pianificazione: è eccezionalmente difficile “vedere” una composizione di più di una figura all’interno di un blocco irregolare.
Con ogni figura aggiunta anche il blocco deve crescere, aumentando in tal modo le difficoltà di cava e trasporto, nonché la probabilità di incontrare problemi una volta iniziata la scultura.5 Ogni figura moltiplica per quattro il numero di arti sporgenti; una composizione soddisfacente diventa più difficile da ottenere e le probabilità di rottura aumentano in modo esponenziale.
Donatello creò composizioni con due figure in bronzo, in particolare la sua Giuditta e Oloferne, e il Gattamelata. Il suo gruppo dell’Annunciazione in Santa Croce, tuttavia, è realizzato da blocchi separati di pietra serena, una pratica standard per la creazione di sculture in pietra o marmo di grandi dimensioni. Solo una volta Donatello tentò due figure in marmo: Abramo e Isacco per la Cattedrale fiorentina.6 È scolpito da un unico blocco, ma le due figure sono così strettamente intrecciate da formare un’unica massa compatta. Ci sono pochi altri esempi di sculture a due figure nel Quattrocento – per lo più Madonne con il Cristo bambino – ma quasi nulla delle dimensioni e della complessità dei primi esperimenti di Michelangelo nel genere: il Bacco, la Pietà di Roma e la Madonna di Bruges. Queste sono sculture ambiziose, ma ognuna è anche una composizione compatta che ricorda il blocco originale.
Nel 1506, Michelangelo fu presente al dissotterramento del Laocoonte, di gran lunga la scultura più complicata mai vista dall’artista. Ci fu immediatamente una nuova e più grande sfida: scolpire tre figure “ex uno lapide” da un singolo blocco di pietra, come Plinio lodava in modo impreciso l’antico gruppo.7 Michelangelo era pienamente consapevole che il Laocoonte non era scolpito da un singolo blocco, ma ciò non fece che intensificare la sfida posta dalla celebrata scultura antica : poteva un artista moderno fare ciò che nell’antichità non si era riusciti a realizzare? Pochi anni dopo, Andrea Sansovino creò la sua Madonna col Bambino e Sant’Anna (1512) nella chiesa di Sant’Agostino, a Roma [Fig. 2]. È molto più piccolo del Laocoonte, e tuttavia si tratta di un gruppo di tre figure leggermente più piccole rispetto alle dimensioni reali, ricavate da un unico blocco di marmo. Nel frattempo Michelangelo era occupato con altri progetti e pochi suoi contemporanei erano interessati o in grado di scolpire una scultura in marmo a più figure.
Nel 1522, mentre Michelangelo lavorava nella Cappella dei Medici, il suo collega e assistente più giovane, Francesco da Sangallo, ebbe la commessa di scolpire la statua di culto per l’altare dedicato a Sant’Anna in Orsanmichele (Fig. 3).8 Fu una delle pochissime sculture rinascimentali a far fronte alla sfida posta dal Laocoonte: creare un gruppo a tre figure più grande delle dimensioni reali in un singolo blocco di marmo. Ed è stato scolpito, abbastanza appropriatamente, da una delle persone presenti al recupero del celebre monumento antico.9 Michelangelo apprezzò la sfida e aiutò il Sangallo ad affrontarla.
I commissari autorizzarono il Sangallo a spendere trenta fiorini d’oro per acquistare il marmo a Carrara (“marmo carrarese e bello”) – una somma principesca che ci fa capire l’importanza della commessa e delle spese per ottenere un tale pezzo insolitamente grande di marmo statuario.10 Sangallo spedì il blocco a Firenze approfittando delle disposizioni di trasporto concordate da Michelangelo per i suoi progetti di San Lorenzo.11 Dopo aver lavorato alla scultura per diversi mesi, il Sangallo incontrò dei problemi e dovette abbandonare il blocco – probabilmente a causa di un difetto precedentemente non rilevato. Circa sei mesi di lavoro furono sprecati, ma lo fu anche un marmo grande e costoso. Piuttosto che tornare alle cave, Sangallo acquistò un nuovo blocco da Michelangelo che lo aveva estratto per la commissione della Cappella Medici.12 L’incidente ci ricorda la spesa, la difficoltà e l’incertezza che un’impresa così ambiziosa deve affrontare.
Il gruppo della Sant’Anna del Sangallo fu finalmente completato e collocato al suo posto circa quattro anni dopo che era stato commissionato. La scultura una volta era ammirata, ma oggi raramente riceve molta attenzione. Sebbene poco amata, la scultura è un forte promemoria di quanti pochi gruppi di marmo a più figure ci siano e di quanto raramente abbiano successo come opere d’arte. In definitiva, la realizzazione del Sangallo è stata più un’impresa tecnica che un trionfo estetico. Anche nella sua condizione malandata e incompiuta, la Pietà fiorentina di Michelangelo è sicuramente il capolavoro più grande.
I problemi di scolpire un gruppo di tre figure sono enormi; quelli che comportano lo scolpire quattro figure da un singolo blocco sono inimmaginabilmente complessi. Di conseguenza, è stata un’impresa tentata poche volte, anche da Bernini e dai grandi tecnici del marmo dei secoli XVII e XVIII.13
Giorgio Vasari riconobbe implicitamente l’eccezionalità di tale impresa quando descrisse la Pietà fiorentina di Michelangelo come “opera faticosa, rara in un sasso”.14 Quando Vasari vide per la prima volta il gruppo in corso di lavorazione, lo descrisse così :
“… la quale opera può pensarsi che, se da lui finita al mondo restasse, ogni altra opera sua da quella superata sarebbe per la difficultà di cavar di quel sasso tante cose perfette”.15
Vasari rimase così colpito che arrivò ad esagerare, ricordando in seguito il gruppo come composto da cinque figure, un errore – o un’esagerazione intenzionale intesa a lodare – che ripeté due volte.16 E inoltre, nella introduzione alle sue Vite degli Artisti, Vasari citò Michelangelo quando descrisse le difficoltà affrontate dallo scultore che deve percepire ciò che è contenuto in un blocco di marmo e scolpirlo con poca assistenza di modelli e, a differenza della pittura, senza nessuna possibilità di sbagliare.
“ …allo scultore è necessario non solamente la perfezione del giudizio ordinaria, come al pittore, ma assoluta e sùbita, di maniera che ella conosca sin dentro a’ marmi l’intero apunto di quella figura ch’essi intendono di cavarne e possa senza altro modello prima far molte parti perfette che e’ le accompagni et unisca insieme, come ha fatto divinamente Michelagnolo; avvenga che, mancando di questa felicità di giudizio, fanno agevolmente e spesso di quelli inconvenienti che non hanno rimedio e che, fatti, son sempre testimonii degli errori dello scarpello o del poco giudizio dello scultore. La qual cosa non avviene a’ pittori…”
Non c’è spazio per l’errore. La Pietà fiorentina è la più ambiziosa e complessa delle molte sculture di Michelangelo, e qui possono nascondersi i semi della sua frustrazione e alla fine della insoddisfazione per il lavoro. Come è stato possibile realizzare da un singolo blocco quattro figure in corretta relazione e proporzione fra loro e disposte in una composizione che sarebbe stata significativa oltre che artisticamente soddisfacente? Prima doveva cavare un blocco di marmo eccezionalmente grande, o forse dopo aver ottenuto un blocco di grandi dimensioni, Michelangelo ebbe l’ispirazione di tentare l’impresa quasi impossibile. Ad eccezione del David, la Pietà fiorentina è il marmo più grande che Michelangelo abbia mai scolpito, più grande della Pietà di Roma, del Mosè, della Vittoria e di ciascuno degli Schiavi dell’Accademia.18 Allo stesso modo, il blocco era il marmo più pesante e massiccio che Michelangelo abbia mai estratto e trasportato, dato che il marmo per il David lo ebbe in eredità dall’Opera del Duomo.19
Michelangelo probabilmente aveva una capacità leggendaria di “vedere” una figura nel blocco che poi liberava. Vasari, tuttavia, riconobbe che la realtà della scultura in marmo era più complessa. Quando descrisse il San Matteo di Michelangelo, Vasari lo definì come “un’opera d’arte perfetta che serve a insegnare ad altri scultori come scolpire una statua di marmo senza fare errori, perfezionando gradualmente la figura, rimuovendo la pietra con giudizio e potendo modificare ciò che è stato fatto come e quando necessario”(mia enfasi).20 La libertà di alterare ciò che è stato fatto richiede ulteriore marmo. Quando Michelangelo scolpì i due schiavi oggi nel Museo del Louvre (1514 circa), utilizzò l’intera estensione del materiale disponibile, scolpendo figure grandi quanto i blocchi di cava. Poiché non vi era marmo in più, a volte Michelangelo si trovava con poco o nessun margine di manovra, specialmente se incontrava impurità, come nel caso dello Schiavo Ribelle [Fig. 4]. Attraverso il volto e il collo della figura passa una crepa deturpante. Michelangelo potrebbe aver apportato un adattamento compositivo imprevisto alla testa, forse nel tentativo di evitare questo difetto; tuttavia, il blocco sottile non gli permise di sfuggire alla imperfezione del marmo. Allo stesso modo, non c’era abbastanza pietra per completare il braccio destro della figura, motivo per cui quel lato appare così piatto [Fig. 5], e spiega anche perché la maggior parte dei fotografi preferisce scattare le foto dall’angolo opposto. Naturalmente, la collocazione della figura nella nicchia della tomba di Giulio Il potrebbe aver ovviato a queste difficoltà; tuttavia rimane il fatto che a causa del blocco estremamente sottile a Michelangelo fu difficile evitare del tutto le impurità. Nonostante la capacità proverbiale di Michelangelo di giudicare la qualità del marmo, l’artista non poteva mai essere del tutto sicuro che un blocco non contenesse difetti nascosti.21 Poco dopo la sua esperienza con gli schiavi del Louvre, Michelangelo incontrò un problema simile con il Cristo risorto che doveva essere riscolpito a causa di una vena nera che lo sfigurava.22
Probabilmente a seguito di queste esperienze, Michelangelo iniziò a ordinare blocchi sostanzialmente più spessi. Quindi, avrebbe avuto abbastanza pietra se avesse incontrato un difetto. Inoltre, poiché tendeva a cambiare idea mentre scolpiva, la pietra in più garantiva che potesse alterare la forma e la disposizione delle figure mentre emergevano dal blocco. A differenza della pittura, ovviamente, il processo riduttivo della scultura del marmo rimuove i “pentimenti” delle decisioni precedenti; pertanto, l’evidenza del cambiamento è molto meno comune e più difficile da rilevare. Il braccio troncato della Pietà Rondanini [Fig. 6], tuttavia, è un residuo spettrale di una composizione precedente e la prova più vivida dei cambiamenti che Michelangelo faceva mentre scolpiva. Piuttosto che una anomalia peculiare, forse questa dovrebbe essere vista come prova evidente della normale procedura di lavoro di Michelangelo.
Ma dov’è l’eccesso di pietra della Pietà fiorentina? Piuttosto che scolpire un gruppo di due o tre figure dal blocco, penso che Michelangelo sia stato ispirato a tentare qualcosa di più ambizioso, ma una volta che ha bloccato una composizione di quattro figure ha avuto poca possibilità di modificare lo spazio. La Vergine è già piccola rispetto a Cristo e alla figura eretta di Nicodemo. Non è rimasta abbastanza pietra per finire la sua faccia senza compromettere la realizzazione completa della testa di suo figlio morto [Fig. 7]. Allo stesso modo, sembra che non ci sia abbastanza pietra per finire di scolpire la mano sinistra della Vergine che aiuta a sostenere Cristo. Il completamento avrebbe comportato il deturpamento del torso già più definito sul quale poggiano le dita. E poi Michelangelo incontrò un problema ancora più arduo nella scultura della gamba sinistra di Cristo. Qualsiasi modifica apportata avrebbe influito sulle altre figure e avrebbe richiesto una riconsiderazione dell’intero gruppo. Questi sono i tipi di problemi il cui effetto cumulativo potrebbe aver causato il suo abbandono della scultura. Forse siamo riluttanti a immaginare che il maestro maturo commetta errori o incontri problemi potenzialmente inconciliabili. Ma sicuramente è successo. Non fu in grado di evitare la crepa che sfigura il volto dello Schiavo Ribelle e dovette scolpire di nuovo il Cristo Risorto per una ragione simile. Una prima figura che scolpì a Roma per il suo “piacere personale” dovette essere abbandonata perché il marmo si rivelò cattivo.23 Rimase senza pietra scolpendo il braccio sinistro della Notte nelle Cappelle Medicee, 24 e la Pietà Rondanini è eloquente testimonianza dell’implacabile e non sempre riuscito attacco dell’artista al blocco di marmo.25
Approfondendo questi argomenti, Vasari scrisse “che non si accontentò mai di nulla di ciò che fece“e inoltre”che “com’egli aveva scoperto una figura e conosciutovi un minimo che d’errore, la lasciava stare e correva a manimettere un altro marmo, pensando non avere a venire a quel medesimo”.26 Permettiamo a tutti gli artisti tranne a Michelangelo di commettere errori. Ma oltre ai problemi tecnici, c’erano anche altri fattori. La Pietà fu presumibilmente scolpita come monumento funebre di Michelangelo.27 Scolpire la propria tomba significa confrontarsi con la morte. Lo scopo della scultura era quello di portare il marmo alla vita ma anche di rassegnarsi alla morte. Come una volta rifletté, probabilmente poco prima di rinunciare all’opera, esser qui “con falsi concetti e grande periglio dell’alma, a sculpir cose divine”.28
Per qualsiasi motivo, Michelangelo abbandonò l’opera, ma non la scartò, come talvolta è stato detto. La diede al suo banchiere e amico intimo, Francesco Bandini, che a sua volta chiese che la scultura fosse riparata e finita dal giovane assistente di Michelangelo Tiberio Calcagni.29
Francesco Bandini (1496-1562 ca.) apparteneva a un’antica famiglia fiorentina, i Bandini-Baroncelli, che erano parenti, amici e vicini dei Buonarroti.30 Nel 1528 Francesco fece parte della delegazione fiorentina al matrimonio di Ercole d’Este, e forse era ancora in città quando Michelangelo durante l’ultima Repubblica (1527-1530) si recò a Ferrara a chiedere per Firenze l’aiuto di Alfonso d’Este contro il papa e contro il Sacro Romano Impero.31 Nel 1538, Francesco si trasferì a Roma dove creò una redditizia attività bancaria e divenne un membro di spicco della comunità fiorentina espatriata. Fu tra i più cari amici di Michelangelo a Roma (“amicissimo”32) e prestò servizio come banchiere / consigliere dell’artista a partire dalla metà degli anni ‘50 fino alla morte di Bandini nel 1562.33 Soprattutto, fu un deputato della fabbrica che sovrintendeva al progetto e alla costruzione della chiesa fiorentina a Roma, San Giovanni dei Fiorentini. Fu in tale veste che Bandini ebbe frequenti contatti con un giovane scultore / architetto fiorentino, Tiberio Calcagni. Riunendo informazioni sparse su Calcagni e integrando ciò che sappiamo con alcuni
nuovi documenti, siamo ora in grado di offrire un quadro più completo di Calcagni, della sua famiglia e del suo rapporto con Michelangelo.
Nato a Firenze33a nel 1532, Tiberio era uno dei dodici fratelli (quattro fratelli e otto sorelle) di Lucrezia Buonaccorsi e Roberto Calcagni. Nonostante il cognome infelice, Tiberio proveniva da una famiglia benestante e in ascesa sociale. Sua madre apparteneva a un’aristocratica famiglia fiorentina con la quale Michelangelo aveva avuto in precedenza ampi contatti.34 In una data sconosciuta, probabilmente alla fine degli anni ‘30 o all’inizio degli anni ‘40, la famiglia si trasferì a Roma dove Roberto Calcagni possedeva una casa con due negozi vicino alla chiesa di San Celso nel quartiere fiorentino vicino a Ponte Sant’Angelo.35 Calcagni, creatore di successo e venditore di abiti raffinati, mantenne la sua grande famiglia e assicurò un’equa distribuzione del suo patrimonio.36
Due suoi figli, Tiberio e Orazio, ricevettero nomi classici; gli altri due figli, Raffaele e Nicolò, erano commercianti di successo nella comunità mercantile fiorentina, 37 e nel 1566 tre dei figli (Tiberio era già morto) ottennero la cittadinanza romana.38 Conosciamo poco dell’istruzione e della formazione professionale di Tiberio, ma sappiamo che è cresciuto in una casa ben arredata e decorata con libri e alcuni dipinti, tra cui un ritratto di suo padre (‘‘Uno ritratto di messer Ruberto”) di un pittore ignoto39 Tiberio vantava uno stemma di famiglia di rilievo, prese gli ordini minori e grazie a potenti mecenati ebbe un beneficio ecclesiastico già nel 1560.40
Evidentemente colto e ben educato, Tiberio aveva appena vent’anni quando nei primi anni ‘50 fu presentato a Michelangelo da Francesco Bandini e da un altro amico fiorentino, lo scrittore e ardente repubblicano, Donato Giannotti.
Sebbene non siamo sicuri della data e delle circostanze precise dell’incontro, esso avvenne attraverso la cerchia dei coltissimi amici umanisti di Michelangelo. Calcagni divenne rapidamente uno dei più stretti assistenti / commensali di Michelangelo, contribuendo in qualche modo a colmare il vuoto lasciato dalla morte del fedele Pietro Urbino nel 1556. Fu un importante collaboratore nella vecchiaia di Michelangelo, e in particolare nella commissione per San Giovanni dei Fiorentini. Calcagni elaborò i disegni finali di presentazione dai disegni del maestro perché, come Vasari ci informa, Michelangelo era vecchio e non era più in grado di disegnare linee rette.42 Ma molto più che a un factotum, Michelangelo affidò a Calcagni l’incarico di recarsi a Firenze nel marzo del 1560 a presentare i disegni al committente duca Cosimo de ‘Medici.43 Calcagni portò a termine l’incarico con competenza, poiché il duca era ben contento del “disegno più bello” e della “viva voce” di Calcagni, cioè della presentazione di persona del progetto.44 A Calcagni fu successivamente affidato il compito di realizzare un modello della chiesa prima in creta e poi in legno; di quest’ultimo in seguito venne realizzata una stampa [Fig. 8], che offre preziosi riferimenti sulle intenzioni di Michelangelo e sulla stretta collaborazione fra i due artisti. Vasari riferisce a lungo i fatti di questa commissione e con una specificità insolita, cosa che è particolarmente degna di nota dal momento che non è mai stata realizzata. È evidente che era estremamente ben informato, soprattutto per quanto riguarda l’importante ruolo di Calcagni nella collaborazione. Calcagni si rivelò una figura centrale non solo a San Giovanni dei Fiorentini ma anche nelle successive commissioni di Michelangelo per Porta Pia (1561-64) e per la Cappella Sforza a Santa Maria Maggiore (1560 ca.) [Fig. 9] .46
Il patrono di quest’ultima commissione fu Guido Ascanio Sforza, cardinale di Santafiora, che probabilmente fece ottenere a Calcagni
il beneficio ecclesiastico e lo impiegò o lo raccomandò anche per fare disegni per la Villa Sforzesca vicino a Proceno nel Lazio settentrionale.47 Di buona famiglia fiorentina, Calcagni era a suo agio nel mondo dei principi e dei patrizi.
Date le diverse responsabilità di Calcagni nella supervisione delle ultime commissioni di architettura di Michelangelo, sarebbe un errore annoverare Calcagni, abile e bene inserito, tra gli “allievi” incolori di Michelangelo. Anzi, più tardi Michelangelo scoprì in Calcagni un giovane assistente di talento e istruito e un amico cordiale e attento. Inoltre, Caroline Elam ha recentemente scoperto che Calcagni è stato l’autore delle postille marginali in una copia annotata della Vita di Michelangelo del Condivi. Nota che “la calligrafia indica una persona istruita, lo stile è semplice ed eloquente, l’ortografia è in gran parte corretta.”48 Le nuove informazioni supportano il quadro di buona educazione del Calcagni e confermano ampiamente la sua intimità con il maestro. Inoltre, insieme a Tommaso de’ Cavalieri e Daniele da Volterra, Calcagni era tra quei pochi amici più vicini a Michelangelo negli ultimi anni del maestro. Non sorprende, quindi, che Calcagni menzioni spesso queste persone nelle sue lettere e che, per esempio, una volta abbia definito Cavalieri e Francesco Bandini come “miei patroni”.49 Vasari, a cui non piacevano tutti gli amici di Michelangelo, conosceva Calcagni molto bene e lo considerava “molto cortese e discreto”. 50 Il giudizio deriva dalla considerazione del carattere dell’uomo, come scaturisce dalla sua corrispondenza con Michelangelo.
Calcagni scriveva spesso al nipote di Michelangelo, Leonardo Buonarroti, al quale riferiva degli affari di Roma e in particolare della salute sempre più delicata del maestro. Si riferiva affettuosamente a Michelangelo come “il Vechio” o “Vechio nostro”, mentre una volta esclamava contento, “Dio sia lodato, sta molto bene per la sua età”. 51 Una volta riferì di aver parlato con Michelangelo mentre cavalcava verso San Pietro, per cui apprendiamo che a ottantasei anni Michelangelo aveva l’abitudine di cavalcare da casa sua vicino al foro di Traiano fino al cantiere della nuova chiesa.52 Inoltre, Michelangelo faceva passeggiate e cavalcava ogni sera quando il tempo era buono.53 L’abitudine si rivelò fonte di preoccupazione quando un giorno Calcagni si imbatté nel maestro ottantottenne che camminava sotto la pioggia. A Leonardo scrisse:
Volevo informarti che mentre stavo andando in giro per Roma oggi, ho sentito dire da molte persone che Michelangelo era malato. Sono andato immediatamente a trovarlo e nonostante piovesse era fuori a camminare. Quando l’ho visto ho detto che non pensavo fosse una buona idea uscire con un tempo simile. “Cosa vuoi che faccia? Non sto bene e non riesco a trovare pace e tranquillità da nessuna parte.” Non ho mai temuto prima per la sua vita ma con il suo parlare incerto e il suo aspetto ebbi improvvisamente paura che gli rimanesse poco tempo da vivere. Tuttavia non bisogna disperare, perché Dio nella sua grazia potrebbe ancora concedergli un po’ di tempo … Almeno questa lettera non è ambasciatrice di cattive notizie.54
Eppure, solo quattro giorni dopo, l’uomo che Calcagni chiamava rispettosamente “questo santo huomo”, era morto. Solo un anno più tardi, all’età di trentatré anni, morì Calcagni stesso e fu sepolto a San Giovanni Decollato, la stessa confraternita romana a cui apparteneva Michelangelo.
* * *
Il rapporto di Calcagni con Michelangelo era ampio e intimo, sia professionale che personale. Era profondamente inserito negli affetti del maestro e strettamente coinvolto nei suoi ultimi progetti artistici. Questi includevano non solo commissioni architettoniche ma anche sculture, essendo abile in entrambe le arti, come la sua iscrizione sepolcrale attesta: “Tiberio Calcagni, fiorentino … si impegnò con il massimo zelo verso l’eccellenza assoluta nella scultura e nell’architettura …”56 [Fig. 10]. Vasari racconta che “amandolo Michelagnolo, gli aveva dato a finire la Pietà di marmo ch’e roppe, e inoltre una testa di marmo di Bruto, col petto, maggiore assai del naturale, perché la finisse.”57 Seguendo l’autorità del Vasari, molti attribuiscono alcuni passaggi del Bruto di Michelangelo [Fig. 11] all’intervento di Calcagni, e ancora più importante per i nostri scopi, è anche accreditato – o screditato – per il suo intervento sulla Pietà fiorentina [Fig. 1]. Detto questo, il Calcagni è spesso stato un comodo capro espiatorio al quale attribuire i difetti di quest’ultima scultura, la Maddalena in particolare. Le critiche tipiche sono che è stranamente proporzionata con un busto troppo corto, troppo piccolo rispetto alle altre figure e non ben integrato nella composizione generale. In particolare, gli studiosi hanno evidenziato le superfici lisce e la “mancanza di espressione” della scultura.58 Non sono disposto a intraprendere una difesa globale di questa figura, ma allo stesso modo, ritengo che meriti molto più di un giudizio negativo affrettato.
Se Calcagni può essere ritenuto responsabile dell’aspetto della superficie della Maddalena, Michelangelo rimane responsabile della concezione e composizione generale della figura, nonché delle sue dimensioni apparentemente piccole. La figura della Maddalena era già ben avanzata quando Calcagni cominciò a lavorare alla scultura. Ponti di pietra che collegano la testa della Maddalena al braccio destro di Cristo rivelano che la relazione tra le due figure e le loro rispettive altezze non è stata significativamente modificata da Calcagni.59 La posa della Maddalena, le dimensioni ridotte e soprattutto il rapporto con il resto del gruppo appartiene a Michelangelo. Piuttosto che errori, è possibile che si tratti di decisioni consapevoli, e quindi meritano qualche considerazione.
L’inclusione di Maria Maddalena nella composizione è stata essa stessa una decisione significativa. Appare in un momento in cui Michelangelo scriveva influenzando profondamente la poesia penitenziale e, come la Maddalena, era profondamente consapevole dei suoi peccati anche mentre bramava l’unione con Cristo. Mentre la Maddalena
è comunemente rappresentata nelle scene della Deposizione, essa meno frequentemente fa parte di una Pietà, in particolare nella scultura, e in nessuno dei due casi è essenziale per l’iconografia dei due soggetti. 60 Tranne il primo dipinto della Deposizione ora alla National Gallery a Londra e il Noli me Tangere [Fig. 12] progettato da Michelangelo e dipinto da Pontormo, la Maddalena difficilmente figura nell’opera del maestro.61 Condivi evidentemente era a conoscenza di alcune novità quando introdusse la sua descrizione elogiativa dell’opera scrivendo che Michelangelo è “un uomo pieno di idee e deve quindi dare alla luce qualcosa ogni giorno.”62 Come elemento inaspettato e originale nella profonda meditazione di Michelangelo sul tema della Pietà/Deposizione, è opportuno chiedersi come e perché abbia incluso la Maddalena, in particolare data la destinazione funeraria e la natura personale della scultura
La Maddalena si inginocchia sul lato sinistro del gruppo che si trova sul lato privilegiato, alla destra del suo signore e salvatore [Fig. 1].
Lei aiuta a sostenere il corpo morto; il braccio destro e la mano di lui le ricadono sulla spalla e le dita le sfiorano la schiena. Le linee curve delle loro braccia formano un mandorla di arti che incorniciano il busto di Cristo. La Maddalena aiuta a modellare la santa
raffigurazione ed è inclusa all’interno del suo spazio sacro. Inoltre, un semicerchio è descritto dalla curva del braccio destro di Cristo e dalle dita stese, la cui direzione è continuata dalla piega del drappeggio che attraversa la manica e il corpetto della Maddalena. La testa della Maddalena, incorniciata dai capelli disposti simmetricamente e dal diadema serafico, si erge sopra la forma implicita del tondo, in un modo che ricorda la Madonna Pitti [Fig. 13]. Lo sguardo vago e distante della Maddalena ha affinità con quegli sguardi premonitori di rassegnato dolore che spesso caratterizzano le Madonne di Michelangelo, in particolare le Madonne Pitti e dei Medici.
Quello della Maddalena è l’unico volto girato verso di noi; si rivolge allo spettatore e presenta il corpo di Cristo. Condivi è ancora più specifico riguardo al suo ruolo: “E sebbene sia profondamente addolorata, tuttavia questa Maria non manca di svolgere quell’ufficio di Cristo morto che la madre non può fare a causa del suo estremo dolore”. 63 Come la figura didattica di una istoria albertiana, o gli addetti che eseguono l’ufficio dei morti nella sepoltura del conte Orgaz di El Greco, la Maddalena ci ricorda i riti propriamente associati alla sepoltura.64 Regge il lenzuolo e aiuta ad abbassare il corpo, il suo copricapo serafico suggerisce abiti sacerdotali e fa luce metaforicamente, si rivolge allo spettatore … Ma se la Maddalena non “esegue” letteralmente queste funzioni, essa suggerisce una dimensione narrativa che ha spinto Condivi, almeno, ad assegnarle l’ufficio dei morti. Il suo muto appello richiama alla mente le parole pronunciate dal sacerdote mentre il corpo viene calato nella tomba: “Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà e chi vive e crede in me non morirà mai” (Giovanni 11: 21-27) .65 E queste a loro volta fanno eco alle parole che Cristo pronunciò rivolgendosi a Nicodemo, “che chiunque crede in lui possa avere vita eterna” (Giovanni 3:15). In effetti, la Maddalena è centrale per la vita di Cristo dopo la morte, come prima testimonianza della sua risurrezione. Il suo ruolo di testimone oculare e araldo è sottolineato dal modo in cui si rivolge allo spettatore.
Contrariamente alla maggior parte delle immagini della Maddalena, come quelle del suo contemporaneo Tiziano, Michelangelo l’ha concepita come un giovinetta nubile. I suoi piccoli seni sono vicini alla carne nuda di Cristo, ma il contatto è ovviato da una spessa piega di panneggi e dall’inclinazione casta della parte superiore del busto. Come nell’ anteriore Noli me Tangere, Michelangelo accentua la tensione imposta dalla vicinanza fisica, scoprendo nel corpo della Maddalena un mezzo per suggerire sia la sua precedente vita di peccatrice che la sua nuova vita dedicata a Cristo.66 La sua invisibile mano sinistra abbraccia Nicodemo di cui è controparte, come è suggerito anche nella inclinazione contrapposta delle loro teste. Come lo stesso Michelangelo, la Maddalena e Nicodemo sono figure penitenti che bramano la salvezza per mezzo di Cristo.67 Pertanto, le figure collegate della Maddalena e di Nicodemo conferiscono un carattere speciale a una scultura con la quale Michelangelo intendeva contrassegnare la propria tomba.
Le dimensioni ridotte della Maddalena sono più apparenti che reali, perché cresce e diminuisce in statura e importanza a seconda dell’angolo da cui la scultura è vista (confronta Figg. 1, 14] .68 Le sue dimensioni e la posizione separata sono appropriate alla sua età e al suo ruolo secondario.69 È fisicamente e iconograficamente una figura marginale, in una relazione con il gruppo principale comparabile a quella delle allegorie del tempo con i duchi medicei o a quella di Rachele e Lea con Mosè.
Le dimensioni di queste ultime figure, soprattutto in relazione al Mosè, ispirano commenti frequenti, spesso negativi [Fig. 15] .70 Michelangelo potrebbe aver creato Rachele e Lea in qualsiasi scala; aveva certamente la disponibilità di blocchi di marmo abbastanza grandi. La modestia della loro dimensione ed espressione e la minore levigatura della superficie erano decisioni intenzionali; Michelangelo osservò quello che si può definire un trattamento di dimensioni e rifiniture adeguati al ruolo dei personaggi. Pertanto, Rachele e Lea non competono con Mosè; piuttosto, come un coro, sono contrasto e contrappunto. Inquadrano, estendono e sostengono la nostra attenzione mentre ci guidano alla preghiera e alla contemplazione, un sussurro unito alla voce dominante del profeta.
Per stile, gestione delle proporzioni e visione generale in un insieme a più figure la Maddalena della Pietà fiorentina trova una stretta controparte nelle figure quasi contemporanee di Rachele e Lea. La sfida più grande della Maddalena era quella di integrarla in un gruppo di quattro figure e creare comunque una composizione soddisfacente. Queste decisioni furono di Michelangelo e non di Calcagni. È probabile che Calcagni percepisse la bellezza della Maddalena e volesse mantenerne le aspettative completandola. Allo stesso tempo si astenne modestamente da interventi radicali sulle figure evidentemente incomplete di Cristo e di Maria, e su quella ancora sommariamente definita di Nicodemo. Piuttosto, riparò il gruppo nel miglior modo possibile e potrebbe aver fatto ancora meno di quanto si suppone. Nonostante l’evidenza del lavoro a scalpello di Calcagni, direi che il suo fu principalmente un lavoro di superficie piuttosto che sostanziale e fu realizzato con lo scopo di rendere la statua più presentabile possibile dato il suo stato incompleto e danneggiato.71
Nella seconda edizione delle sue Vite, Vasari scrisse che il gruppo fu “messo insieme da Tiberio da non so quanti pezzi”.72 Sarebbe sbagliato interpretare questa frase come un commento dispregiativo, infatti Vasari attribuisce a Calcagni solo i lavori di riparazione, per di più eseguiti con l’aiuto dei modelli di Michelangelo: “Ciò significherebbe che le fatiche di Michelangelo non sarebbero state vane. Michelangelo fu soddisfatto di questo accordo e lo diede loro [Bandini e Calcagni] in dono.”73 Così Calcagni procedette con la benedizione di Michelangelo e potrebbe anche aver beneficiato delle indicazioni e dei consigli del maestro. Non possiamo essere certi che Michelangelo non abbia avuto più nulla a che fare con il gruppo una volta abbandonato , soprattutto perché probabilmente rimase per qualche tempo a casa sua prima che fosse trasferito dal Bandini.74 Era, dopo il David, il più grande di tutti i marmi di Michelangelo e non era facilmente spostabile. Inoltre, quando Bandini prese possesso della scultura Michelangelo stava affidando il gruppo al suo amico e banchiere, una persona adatta a prendersi carico degli affari dell’artista, persino della sua sepoltura, dopo la morte.75 La scultura era ora nelle mani di uno dei suoi collaboratori più fidati, per essere completata da uno dei suoi amici più cari.
Condivi, la cui vita di Michelangelo viene spesso letta come la più vicina all’autobiografia dell’artista, si diffonde nel lodare la scultura. La descrive a lungo e con tenera eloquenza: “Saria cosa impossibile narrare la bellezza e gli affetti che ne’ dolenti e mesti volti si veggiono, sì di tutti li altri, sì dell’affannata madre; però questo basti. Vo’ ben dire ch’è cosa rara e delle faticose opere ch’egli fin qui abbia fatte…”76
Condivi, che visse per anni insieme a Michelangelo e alla scultura, era particolarmente emozionato dalla figura di Maria Maddalena. Ciò che Condivi fa è incoraggiarci a vedere con meno pregiudizi; ciò che Calcagni fece fu salvare una grande opera d’arte.
Michelangelo non distrusse né Calcagni rovinò quello che era il saggio marmoreo più ambizioso e difficile del maestro. Nonostante la sua storia travagliata, rimane un’opera d’arte commovente e convincente. Insieme Pietà e Deposizione, monumento funebre e icona narrativa, autoritratto reale e spirituale, la scultura riunisce diversi temi dell’arte e della vita di Michelangelo. Ciò che è significativamente diverso è la presenza congiunta di Nicodemo e della Maddalena, figure alla periferia della vita di Cristo e del marmo di Michelangelo. Ma è su queste figure che ricade la responsabilità di sostenere e presentare il corpo di Cristo e di parlarci, attraverso lo sguardo e il gesto e per mezzo dei loro personaggi più articolati e simili a un ritratto. In queste figure vediamo noi stessi, il peccatore e il seguace segreto di Cristo, e attraverso la loro intercessione otteniamo l’accesso a nostro Signore e un mezzo per la salvezza. Sono portatori di Cristo e della sua promessa di vita eterna. Nel scolpire il tema ancora una volta nella Pietà Rondanini [Fig. 6], Michelangelo ha eliminato questi personaggi accessori. La salvezza che sembra aver realizzato – e contemporaneamente anche nella sua poesia – doveva essere raggiunta principalmente attraverso la devozione perpetua a Cristo.
Nella Pietà fiorentina l’arroganza giovanile di Michelangelo come intagliatore di marmo giunse al termine. Non completò più sculture e già da più di venti anni non si firmava “Michelangelo schultore”. Piuttosto, l’artista si dedicò al disegno, alla preghiera e alla poesia, che in parte condivide affinità con questo lavoro toccante: profondamente meditato, molto rielaborato e spesso incompiuto. Mentre scolpiva la Pietà rifletté in un sonetto incompleto:
L’anima guadagna di più, più perde il mondo,
e l’arte e la morte non vanno bene insieme;
in quale, quindi, dovrei riporre la mia ulteriore speranza?77
Più l’alma acquista ove più ’l mondo perde;
l’arte e la morte non va bene insieme:
che convien più che di me dunche speri?
Alla fine ripose la speranza nel suo devoto assistente e negli amici intimi che si assicurarono che la Pietà sopravvivesse, se non come vero e proprio monumento funebre dell’artista, almeno come eloquente cenotafio e capolavoro artistico.
Note
Vorrei ringraziare per la loro consulenza e assistenza, Paul Barolsky, Caroline Elam, Philipp e Raina Fehl, Ralph Lieberman, Tom Martin, John Paoletti, Peter Rockwell, Pamela Starr e Jack Wasserman. Devo un ringraziamento speciale alla defunta Franca Trinchieri Camiz per avere condiviso generosamente i documenti relativi a Tiberio Calcagni e alla sua famiglia. Sono grato al National Endowment for the Humanities e alla Washington University per il sostegno finanziario e all’American Academy di Roma per aver fornito il contesto ideale per scrivere questo saggio.
1) “Non ha l’ottimo artista alcun concetto / c’un marmo solo in sé non circonscriva/ col suo superchio, e solo a quella arriva/ la man che ubbidisce all’intelletto …” Traduzione di J. M. Saslow, The Poetry of Michelangelo: An Annotated Translation, New Haven e Londra, 1991, n. 151.
2) In particolare vedi R. J. Clements, Michelangelo’s Theory of Art, New York, 1961, pp. 233-29 e passim, e C. de Tolnay, The Art and Thought of Michelangelo, trad. N. Buranelli, New York, 1964, Cap. 4. Più in generale, sulla “teoria dell’arte” di Michelangelo, vedi D. Summers, Michelangelo and the Language of Art, Princeton, 1981; E. Panofsky, Idea: A Concept in Art Theory (1924), trad. J. J. S. Peake, New York, 1968, pp. 116-18; L. Mendelsohn, Paragoni. Benedetto Varchi’s ‘Due Lezzioni’ and Cinquecento Art Theory, Ann Arbor, 1982, e L. C. Agoston, “Sonnet, Sculpture, Death: the Mediums of Michelangelo’s Self-Imaging”, Art History 20 (1997), pp. 534-55.
3) G. Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568, ed. P. Barocchi, 5 voll., Milano e Napoli, 1962, 1, p. 119, e similmente descritto nella prefazione tecnica delle Vite, per la quale vedi Vasari on Technique, trad. L. M. Maclehose, New York, 1960, p. 151. Secondo la descrizione del Vasari Michelangelo scolpiva dalla faccia frontale del blocco verso l’interno e la figura completamente realizzata emergeva da uno sfondo di pietra digradante. La descrizione meglio si applica alla figura simile a un rilievo del San Matteo che, sebbene coerente con altre sculture del periodo (ad esempio i tondi Pitti e Taddei), non è tipico dei metodi di lavoro di Michelangelo nei successivi quindici anni (vedi G.M. Helms, “Materials and Techniques of Renaissance Sculpture”, in Looking at the Renaissance Sculpture, ed. S. B. McHam, Cambridge, 1998, p. 20, e in particolare p. 35, n. 18). Più spesso, Michelangelo iniziava a scolpire il blocco sulla diagonale o da più di una faccia contemporaneamente, come si vede soprattutto nelle figure degli Schiavi all’Accademia e nelle figure della Cappella Medicea. Figure come la Vittoria e l’Apollo/David sono lavorate da diversi lati e da diversi angoli.
4) In un recente articolo, Moshe Arkin ha suggerito uno scambio di identità fra la Vergine Maria e la Maddalena (M. Arkin, “‘One of the Marie …’: An Interdisciplinary Analysis of Michelangelo’s Florentine Pietà”, Art Bulletin 79, pp. 493-517). Mentre l’articolo solleva una serie di punti interessanti, l’argomento non è del tutto convincente. Va notato, tuttavia, che l’autore sostiene implicitamente che Maria Maddalena, tradizionalmente identificata, è una figura importante e bella, e che a Michelangelo interessava moltissimo. Ai fini di questo saggio, manterrò l’identificazione tradizionale delle due figure.
5) Per i problemi di cava e trasporto, vedi W. E.Wallace, Michelangelo at San Lorenzo: the Genius as Entrepreneur, Cambridge e New York, 1994, in particolare le pagg. 38-62.
6) Vedi J. Pope-Hennessy, Italian Renaissance Sculpture, Londra e New York, 2a edizione, 1971, fig. 6.
7) “Ex uno lapide eum ac liberos draconumque mirabiles nexus de consili sententia fecere summi artifices Hagesander et Polydorus et Athenodorus Rhodi” (The Elder Pliny’s Chapters on the History of Art, trad. K. Jex-Blake, Chicago, 1976, pp. 208-10). Per una discussione su gruppi di sculture scolpite ex uno lapide, vedi V. Bush, The Colossal Sculpture of the Cinquecento from Michelangelo to Giovanni Bologna, New York, 1976; I. Lavin, ‘The Sculptor’s Last Will and Testament, “Allen Memorial Art Museum Bulletin 34 (1977 -78), pagg. 4-39, in particolare 20ff, e L. Barkan, Unearthing the Past: Archeology and Aesthetics in the Making of Renaissance Sculpture, New Haven e Londra, 1999, pp. 336-38. Più in generale, vedi C. Klapisch-Zuber, Les Maîtres du Marbre: Carrare 1300-1600, Parigi, 1969; J. C. Rich, The Materials and Methods of Sculpture, New York, 1947; S. Adam, The Technique of Greek Sculpture in the Archaic and Classical Periods, London, 1966; B. Ashmole, Architect and Sculptor in Classical Greece, New York, 1972, e P. Rockwell, The Art of Stoneworking: A Reference Guide, Cambridge e New York, 1993.
8) D. Heikamp, “Der Werkvertrag für die St. Anna Selbdritt des Francesco da Sangallo”, in Kaleidoskop: Eine Festschrift fiir Fritz Baumgart zum 75. Geburtstag, ed. F. Mielke, Berlino, 1977, pp. 79-86; R. J. Crum e D. G. Wilkins, “In the Defense of Florentine Republicanism: St. Anne and Florentine Art, 1343-1575”, in Interpreting Cultural symbols: St. Anne and Late Medieval Society, ed. K. Ashley e P. Sheingorn, Athens GA, 1990, pp. 131-68, e J. Wasserman, “La Vergine e Cristo con Sant’Anna del Pontormo”, Kunst des Cinquecento in der Toskana, Monaco, 1992, pp. 146-51.
9) Il Sangallo era presente al dissotterramento della scultura e lo descrisse vividamente in una lettera, per la quale vedi C. Fea, Miscellanea filologica critica e antiquaria, Roma, 1790, p. 329.
10) Contratto del 12 Febbraio 1522; vedi Heikamp, “Werkvertrag”, pg. 84.
11) Tuttavia, a causa delle grandi dimensioni del blocco, la spedizione era costosa, pari a sette fiorini pagati il 26 maggio 1522 al navicellaio Ridolfo di Massimino: “Ridolfo di Massimino di contro de avere addi 26 di Maggio fiorini 7… ne pagho per lui Francesco di Giuliano da Sanghallo schultore a noi di Firenze per conto nostro per chagione di marmi che ha detto ridolfo gli porta a Firenze “(Archivio di Stato, Pisa, Quaderno di Cassa 1522-25, 641, fol. 28 sinistra e destra; prima immissione in Archivio di Stato, Pisa, Entrata e Uscita 1522-25, 640, fol.102 recto). Per l’incidente, vedi Wallace, Michelangelo at San Lorenzo, p. 125.
12) Michelangelo notò che era “uno pezzo di marmo di questi del Papa”, cioè dal gruppo di blocchi di marmo estratti per le commissioni papali a San Lorenzo (I Ricordi di Michelangelo, ed. L.B. Ciulich e P. Barocchi, Firenze, 1970, p. 212).
13) È importante riconoscere i risultati raggiunti nel tardo XVI secolo dalla scultura in marmo a più figure – in parte ispirata all’esempio di Michelangelo -, come il Ratto delle Sabine di Giambologna o il gruppo di Pietà in marmo a quattro figure scolpito da Ippolito Scalza nella cattedrale di Orvieto. Quest’ultimo era ritenuto un monolito dai contemporanei e fu elogiato in quanto tale. Il recente restauro ha dimostrato che il gruppo è un blocco unico ad eccezione della scala e di una piccola porzione del braccio destro di Nicodemo (vedi M. Cambareri, “Ippolito Scalzo e la trasformazione del Duomo di Orvieto nel ‘500: le sculture marmoree,” in Il Duomo di Orvieto e le grandi cattedrali del Duecento [Atti del Convegno Internazionale di Studi, Orvieto, 1990], ed. G. Balozzetti, Roma, 1995, pp. 199-212. Vorrei ringraziare Marietta Cambareri per questo riferimento).
Un esempio particolarmente stravagante di un gruppo multi-figure è la Deposizione a cinque figure di Tommaso della Porta scolpita da un singolo blocco di marmo (“sono di un pezzo”) in SS. Carlo e Ambrogio al Corso a Roma (1600). Ispirato alla Pietà fiorentina di Michelangelo, della Porta tentò di superare il suo predecessore aggiungendo una quinta figura; tuttavia, non completò mai il lavoro. Vedi G. Panofsky, “Castelli nell’aria” di Tommaso della Porta, “Journal of the Warburg and Courtauld lnstitutes 56 (1993), pagg. 119-67, in particolare 137-42. La cosiddetta Pietà di Palestrina, talvolta attribuita a Michelangelo, è anch’essa un gruppo di tre figure (incompiuto), ricavato da un unico blocco. Vedi J. Pope Hennessy, “The Palestrina’s Pietà” in Stil und Überlieferung in der Kunst des Abendlandes: Michelangelo (Aktes des 21.Internationalen Kongresses für Kunstgeschichte), Berlin, 1967, pp. 105-114.
14) Vasari-Barocchi 1, p. 83.
15) Nella prima edizione del suo Vite degli Artisti (1550): “… la quale opera può pensarsi che, se da lui finita al mondo restasse, ogni altra opera sua da quella superata sarebbe per la difficultà del cavar di quel sasso tante cose perfette” (Vasari-Barocchi 1, p. 123).
16) In una lettera del 18 Marzo 1564 al nipote di Michelangelo, Leonardo (Il Carteggio indiretto di Michelangelo, ed. P. Barocchi, K. L. Bramanti, and R. Ristori, 2 voll., Florence, 1988, 1995, 2, p. 181) e nella sua Vita di Baccio Bandinelli (Vasari-Barocchi 1, p. 257).
17) … allo scultore è necessario non solamente la perfezione ordinaria, come al pittore, ma assoluta e sùbita, di maniera che ella conosca sin dentro a’ marmi l’intero apunto di quella figura ch’essi intendono di cavarne e possa senza altro modello prima far molte parti perfette che e’ le accompagni et unisca insieme, come ha fatto divinamente Michelagnolo; avvenga che, mancando di questa felicità di giudizio, fanno agevolmente e spesso di quelli inconvenienti che non hanno rimedio e che, fatti, son sempre testimonii degli errori dello scarpello o del poco giudizio dello scultore. La qual cosa non avviene a’ pittori…” (Vasari-Barocchi 1, p. 195). Inglese da Giorgio Vasari, Lives of the most Eminent Painters, Sculptors and Architects, trans. G. De Vere, Londra, 1912-14, 1, p. XXVI. Naturalmente, Michelangelo ha fatto uso di modelli come Vasari e gli esempi sopravvissuti (ad esempio Casa Buonarroti) lo attestano.
18) Le sculture di Michelangelo, ovviamente, sono di forma estremamente irregolare, ma nelle sue dimensioni massime la Pietà fiorentina è un blocco di 2,63 metri cubi (226 x 123 x 94 cm); la Pietà di Roma è di 2,17 metri cubi ( 174 x 195 x 64 cm); il Mosè è di 2,09 metri cubi (235 x 88 x 101 cm) e la Vittoria è di 1,62 metri cubi(261 x 74 x 84 cm). I quattro schiavi per la tomba di Giulio II nell’Accademia di Belle Arti a Firenze sono meno di due metri; gli schiavi il “Risveglio” e “Atlante” sono i due blocchi più grandi (1,92 e 1,87 metri cubi rispettivamente).
19) C’è una tradizione, riportata da Aurelio Gotti e John Addington Symonds, secondo la quale il blocco era originariamente un capitello di una delle otto colonne del Tempio della Pace in Roma; vedi J. A. Symonds, The Life of Michelangelo Buonarroti, 2 voll., Londra e New York, 1899, 2, p. 201. E’ più probabile che il blocco per la Pietà fosse stato estratto originariamente per la tomba di Papa Giulio II, come suggerito da A. Parronchi (Opere giovanili di Michelangelo, 5, Firenze, 1996, p. 54, n. 5).
20) G. Vasari, Vite degli artisti, trad. G. Bull, Londra, 1965, p. 340.
21) Alcuni dei marmi per la Cappella Medici, per esempio, dovettero essere ordinati di nuovo perché, anche se apparentemente impeccabili in superficie, si rivelarono difettosi al loro interno (vedi Wallace, Michelangelo at San Lorenzo, pp. 109-110). Inoltre, alcune sculture a volte dovettero confrontarsi con un marmo non proprio perfetto. Ad esempio, vicino al gluteo destro dello schiavo cosiddetto”Atlante” nell’Accademia di Belle Arti, a Firenze, si può vedere lo scolorimento di una vena nera e uno scavo di diversi centimetri nel blocco. Lo scavo a cesello è stato molto probabilmente fatto da Michelangelo stesso nel tentativo di scoprire l’estensione del difetto, e per rimuoverlo. La posa della figura sembra essere in parte determinata dalla presenza e dalla rimozione di questo difetto inaspettato. Qualcosa dello stesso tipo potrebbe essere accaduta con la spalla sinistra dello schiavo “Che si desta”. Il colore del marmo in questa zona e la posa estrema della figura suggeriscono che Michelangelo ha dovuto scolpire profondamente nel blocco, forse a causa di un marmo cattivo o a causa di un cambiamento di intenzione.
22) W. E. Wallace, “Miscellanea Curiositae Michelangelae: A Steep Tariff, a Half Dozen Horses, and Yards of Taffeta,”Renaissance Quarterly 47 (1994), p. 332, e A. Parronchi, “Il primo ‘Christo Risorto’ per Metello Vari,” in Opere Giovanili di Michelangelo 2, Firenze, 1975, pp. 157-90.
23) Per questo incidente, vedi W. E. Wallace ,”How did Michelangelo Become a Sculptor? “, in The Genius of the Sculptor in Michelangelo’s Work, Montreal, 1992, p. 160.
24) L. Goldscheider, The Left Arm of Michelangelo’s ‘Notte’ , Milano, 1955. Nel suo dialogo I marmi , Antonfrancesco Doni ha spiegato l’anomalia del braccio della Notte con il racconto della figura che prende vita, cambia posizione, e chiede quindi a Michelangelo di modellarle un nuovo braccio. (A. Doni, I marmi, ed. E. Chiòrboli, Bari, 1928, parte III, p. 21).
25) Per una spiegazione alternativa intorno al non finito nelle sculture di Michelangelo, vedi J. Schulz, “Michelangelo’s Unfinished Works” Art Bulletin 57 (1975), pp. 366-73.
26) Vasari, trad. Bull, p. 404. In una sezione intitolata “Diverse materie”, de Il cancellieri del Doni di Antonfrancesco Doni, l’autore cita Michelangelo per sottolineare le qualità speciali richieste a un artista, inclusa la consapevolezza delle difficoltà incontrate e la pazienza necessaria per correggere, se si sbaglia, “paziente in emendarsi quando erra; e misurarsi quanto, che, et come e puo fare le cose, conciasia che difficilmente, non facendo questo … (A. Doni, Il cancellieri del Doni, Libro dell’eloquenza, Venezia, 1562, p. 62. Recentemente, Kathleen Weil-Garris Brandt ha notato che Michelangelo talvolta incontrava difficoltà tecniche irrisolvibili; vedi K. Weil-Garris Brandt, “I primordi di Michelangelo scultore”, Giovinezza di Michelangelo, Firenze e Milano, 1999, p. 83.
27) Vasari a Leonardo Buonarroti: “… la Pietà … faceva per la sepoltura sua” (Carteggio indiretto 2, p. 181); vedi anche Vasari Barocchi 1, p. 83, ibidem. 3, p. 1438, e A. Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti, ed. G. Nencioni, Firenze, 1998, p. 51.
28) Saslow, Poetry, no. 282. E in uno dei suoi sonetti più famosi, Michelangelo scrisse: “Onde l’affettuosa fantasia/che l’arte mi fece idolo e monarca/ Conosco or ben com’era derror carca/ …” e inoltre: “Né pinger né scolpir fie più che quieti/ l’anima, volta a quell’amor divino/ c’apersem a prender noi, ‘n croce le braccia.”(ibid. n. 285). Vedi anche l’importante discussione sulla scultura, la poesia di Michelangelo e la morte in Agoston, “Sonetto, Scultura, Morte”, p. 534-55.
29) Vasari -Barocchi 1, p. 99.
30) Archivio di Stato di Firenze: Ceramelli-Papiani 409 (Baroncelli); ASF: Catasto 1002 (Santa Croce, Carro), fogli. 217r-v. La cappella di famiglia si trova nel transetto destro di Santa Croce, “nella testa del bracio della chiesa di verso mezzo giorno a canto alla porta di Sagrestia” (ASF: Manoscritti 628 [Sepoltuario], fol. 538, n. 29). Vedi anche S. Ammirato, “Della famiglia de ‘Baroncelli e Bandini”, Delizie degli eruditi toscani 14, Firenze, 1783, pp. 200-37, e V. Borghini, Storia della nobiltà fiorentina: discorsi inediti o rari, ed. J. R. Woodhouse, Pisa, 1974, pagg. 132-33. Bandini era un patrizio e un banchiere di successo, non uno scultore/architetto come erroneamente pensava Barocchi (Vasari-Barocchi 4, p. 1675). Vasari afferma che Bandini commissionò a Pierino da Vinci la progettazione della sua tomba a Santa Croce (G. Vasari, Le vite de ‘più eccellenti pittori, scultori ed architettori, ed. G. Milanesi, 9 voll., Firenze, 1878-85, 6, p. 125).
Per i rapporti tra Buonarroti e Baroncelli, vedi Wallace, “How did …”, p. 156. Michelangelo era un “cugino” di Baroncello Baroncelli, e le famiglie erano vicine di casa in Via Bentaccordi a Firenze, come apprendiamo dalle dichiarazioni al Catasto del Baroncelli (ASF: Catasto 1002 [Sta. Croce, 1480], fai. 394r-v, e ASF: Decima della Repubblica 11 [Sta. Croce, 1498], fol. 571r-v), e il Buonarroti (ASF: Catasto 1005 [Sta. Croce, 1480], fol. 265r-v); per quest’ultimo vedi H. Grimm, “Denunzia dei beni della famiglia de Buonarroti”, Jahrbuch der königlich preussischen Kunstsammlungen 6 (1885), p. 192-95.
31) ASF: Dieci di Balia, Deliberazioni 63, fol. 99v e ASF: Dieci di Balia, Carteggio, Legazioni e Commissarie: Istruzioni e Lettere ad Oratori 45, fogli. 126v-128v. Michelangelo potrebbe aver conosciuto Francesco Bandini ai tempi della commissione per la facciata di San Lorenzo (1518 ca.), quando Bandini era sposato con Ginevra di Alamanno Salviati, la famiglia che aiutò a finanziare il gigantesco progetto, del quale lo stesso Bandini teneva la contabilità (Archivio Salviati, Pisa 749, fol.116 a sinistra).
32) Vasari-Barocchi 1, p. 249. Bandini è citato tra i “maggiori amici” di Michelangelo che includevano anche il cardinale Rodolfo Pio da Carpi, Donato Giannotti, Tommaso de’ Cavalieri e Francesco Lettini (ibid. 1, p. 103).
33) Vedi Il Carteggio di Michelangelo, 5 voll, ed. P. Barocchi e R. Ristori, Firenze, 1965-83, 5, pp. 28, 65, 70-72, 104, 230, 260, nonché il Carteggio indiretto 2, pp. 56, 58, 60, 61 e passim. I rapporti d’affari di Michelangelo con la banca Bandini iniziarono almeno nel 1540 (vedi Ricordi, p. 302).
33a) Nota dei traduttori: La prof.ssa Anna Bedon, dell’Università di Venezia, ha scoperto che Tiberio Calcagni non era fiorentino, come si è sempre creduto, ma romano. Proveniva da famiglia fiorentina, ma era nato a Roma.
Vedi: Anna Bedon, Il Campidoglio. Storia di un monumento civile nella Roma papale, Mondadori Electa 2008.
34) Biagio Buonaccorsi (1472-1526) era amico di Niccolò Machiavelli ed era suo collega nella Cancelleria fiorentina sotto il governo repubblicano di Piero Soderini. Nel 1506, Biagio Buonaccorsi fu coinvolto nelle trattative tra Papa Giulio Il e Firenze riguardanti il ritorno di Michelangelo a Roma, da dove era fuggito in Aprile (Carteggio 1, p. 368-72). Inoltre Biagio era l’ex segretario di Alessandro Nasi che nel 1508 aiutò a negoziare l’incarico per il David di bronzo (perduto) di Michelangelo. Per poco tempo, nel 1515, fu segretario di Filippo Strozzi con il quale anche Michelangelo aveva stretti legami (vedi W. E. Wallace, “Manoeuvring for Patronage: Michelangelo’s Dagger” Renaissance’s Studies 11 [1997], pagg. 20-26). Un altro membro della sua famiglia, Giuliano Buonaccorsi, era tesoriere e confidente di re Francesco I.
Fu alla cura di Giuliano Buonaccorsi che l’assistente di Michelangelo, Antonio Mini, affidò il dipinto della Leda (Carteggio 3, p. 369, 4 , pagg. 9-10, 56-62) ; per un chiaro resoconto di questo complesso episodio, vedi J. Cox-Rearick, The Collection of Francis I: Royal Treasures, New York and Antwerp, 1995, pp. 237-41. Infine, Michelangelo nominò Piero Buonaccorsi direttore dei lavori durante la costruzione della Biblioteca Laurenziana a Firenze (Wallace, Michelangelo at San Lorenzo, p. 140). Per il Buonaccorsi, vedi Dizionario biografico degli italiani 15, Roma, 1972, pp. 74-96, e Il notaio nella civiltà fiorentina, secoli XIII – XVI, Firenze, 1984, pp. 135-36, 144-45.
35) Archivio di Stato, Roma: Notai Auditor Camerae 6183, fogli 2-3-: testamento di Roberto Calcagni (1 settembre 1560). Fino alla scoperta di questo testamento, l’identità del padre di Tiberio e le grandi dimensioni della sua famiglia erano sconosciute. Tiberio aveva tre fratelli – Raffaele, Nicolò e Orazio – oltre a otto sorelle, quattro delle quali suore, due sposate e due, Ippolita e Paola, vivevano ancora in casa (“et doi altre putte piccole zitelle”). Per il matrimonio di una di queste sorelle nel 1558, Roberto Calcagni fornì un ampio corredo valutato a 193 scudi (ASR: Notai AC 6175, fols. 169r-v). Un’altra sorella, Cassandra, sposò Pietro Paolo Maffei “nobile romano” (ASR: Notai AC 3933, fol. 152). Sono in debito con Franca T. Camiz, recentemente scomparsa, per avere generosamente portato alla mia attenzione questi documenti e quelli citati nelle note seguenti.
36) La professione di Roberto Calcagni è confermata dall’inventario della casa e della bottega fatto il 1 ° novembre 1561, circa un anno dopo la sua morte (ASR: Notai Auditor Camerae 6190, inserto n. 542), e dal fatto che i suoi figli Nicolò e Raffaele portarono avanti l’azienda di famiglia (ASR: Notai AC 3933, fol. 174). Inoltre, l’epitaffio di Roberto Calcagni si riferisce a lui come “conficiendis sacrarum vestium ornamentis” per Paolo Papa Paolo IV (V. Forcella, Iscrizioni delle chiese e valli degli edifici di Roma dal secolo XI fino ai nostri giorni, Roma, 1876, 7, p. 549, n. 1185). Vorrei ringraziare Caroline Elam per aver condiviso queste ultime informazioni con me.
37) ASR: Notai Auditor Camerae 6183, fogli. 2r-3r e ASR: Notai AC 6201, fogli. 314r e 568r-569v. Nel 1567, il “rede” di Roberto Calcagni acquistò una vigna vicino a Porta del Popolo da Camillo Orsini per 400 scudi (ASR: Collegio Notai Capitolini 1527, fogli. 385r-386r e 461v-462r).
38) Archivio Capitolino, Roma: Atti Camera Capitolina, Credenzone I, tomo 1, p. 89 e Credenzone I, tomo 23, pag. 47. Nel 1569, Nicolò fu nominato ufficiale (“Consigliere”) della Camera Capitolina (Archivio Capitolino, Roma: Atti Camera Capitolina, Credenzone I, tomo 4, p. 93).
39) Tra le sette pagine che elencano gli arredi per la casa vi sono dipinti di Cristo e una della Madonna (“Un quadro del Salvatore,” “Uno quadro di Nostra Madonna”), un crocifisso (“Un crocifiso picholo”), una Madonna in gesso (“Una Madonna di gesso”) e un vecchio dipinto di una donna (‘‘Uno quadro vecchio d ‘ una donna”). Inoltre c’era un mobiletto con “alcuni libri da legere” e una cassaforte con “libri e schritture” (ASR: Notai Auditor Camerae 6190, inserto n. 542).
40) Sappiamo del “beneficio ecclesiastico” di Tiberio dal testamento del padre del 1560 (ASR: Notai Auditor Camerae 6183, fogli 2r-3r). I patroni influenti di Calcagni erano molto probabilmente gli Sforza con i quali Tiberio era strettamente legato (vedi nota 47). Sui benefici ecclesiastici, vedi P. F. Starr, “Music and Music Patronage at the Papal Court, 1447-1464,” Ph.D. diss. (Yale U., 1987), in particolare Cap. 1. Vorrei ringraziare Pamela Starr per la sua assistenza.
41) Vasari-Barocchi 1, p. 99. Giannotti (nato nel 1492) prestò servizio nella Signoria fiorentina (come “primo segretario dei Dieci”) mentre Michelangelo sovrintendeva alla costruzione delle fortificazioni fiorentine durante l’ultima Repubblica (1527-30). Da quando era venuto a Roma nel 1539, Giannotti fu strettamente associato alla cerchia di “fuoriusciti” fiorentini attorno al cardinale Niccolò Ridolfi, per il quale Michelangelo e Calcagni scolpirono il busto di Bruto. Giannotti sottoscrisse il contratto di Michelangelo per la tomba di Giulio Il nel 1542, e fece dell’artista l’interlocutore principale nel suo dialogo “Quanti giorni fece Dante in inferno e purgatorio”, scritto nel 1546 (vedi R. Ridolfi, “Sommario della vita” di Donato Giannotti, “in Opuscoli di storia letteraria e di erudizione, Firenze, 1942, pp. 55-164). Michelangelo conosceva la famiglia Calcagni di Firenze; prese in considerazione l’affitto di una loro casa mentre lavorava a San Lorenzo (Carteggio 3, p. 39).
42) Vasari-Barocchi 1: 112. In generale su Calcagni, vedi A. Venturi, Storia dell’arte italiana 11 voll., Milano, 1901-48, voL.Xl, pt. 2, pagg. 191-201, e Dizionario biografico degli italiani 16, Roma, 1973, pp. 489-90. Sul progetto e sui disegni attribuiti a Calcagni, vedi A. Nava, “Sui disegni architettonici per S. Giovanni dei Fiorentini a Roma”, Critica d’arte 1 (1935-36), pp. 102-108; H. Siebenhuner, “San Giovanni dei Fiorentini in Rom”, in Kunstgeschichtliche Studien für Hans Kauffmann, Berlino, 1956, pp. 72-91; J. Vicioso, “La basilica di San Giovanni dei Fiorentini a Roma: individuazione delle vicende progettuali”, Bollettino d’arte 72 (1992), pp. 73-114, e G. C. Argan e Bruno Contardi, Michelangelo Architect, trad. M. L. Grayson, Londra, 1993, pagg. 342-47. Per altri disegni di presentazione architettonica attribuiti a Calcagni, vedi L. Ragghianti-Collobi, Il libro de’ Disegni del Vasari, Firenze, 1974, figg. 454-58.
43) Michelangelo al Duca Cosimo (5 marzo 1560): “Illustrissimo signor mio osservandissimo, questi deputati sopra la fabbrica della chiesa di ‘Fiorentini si sono resoluti mandare Tiberio Chalchagni a Vostra E (ccellenza) illustrissima: la cosa cosa mi e molto piaciuta, perché con i disegni che egli porta ella sarà capace, più che con la pianta che vide, di quello che occorrerà di fare … “(Carteggio 5: 206), e Calcagni a Firenze riferendo a Michelangelo (8 Aprile 1560):”. .. ho ragionato con Sua E (ccellenza) della faccenda ch’ella sa, e mostro li disegni della Signoria Vostra, che mi voglio serbare a bocca a farla maravigliar della haffetione che Sua E (ccellenza) porta a Vostra Signoria. non li possano più piacere “(ibid., p. 218).
44) Luca Martini a Michelangelo (2 maggio 1560): “… messer Tiberio Calcagni se ne torna a Roma, e ha negoziato con Sua Eccellenza illustrissima le cose della fabbrica della chiesa de’ Fiorentini e dirà a Vostra Signoria quant’ habbia fatto e buona mente del nostro signor Duca, ch’è dispostissimo a fare quant’ è stato richiesto, mosso sopra tutte le cose dal bellissimo disegno e dalla lettera di Vostra Signoria; lascerò a quella intendere e dalle sue lettere e dalla viva voce di messer Tiberio. “ (Carteggio 5, p. 225). Si noti che, in più, lo stesso duca Cosimo scrisse a Michelangelo (30 Aprile 1560): “… vi diciamo semplicemente che il disegno vostro per la chiesa della Natione ci ha innamorato sì, che ci dispiace di non vederlo in opera perfetta, et per ornamento e fama della città nostra, e per la memoria eterna, che ben si merita; si che aiutate a porlo in esequtione, e rendiamo certo che noi non perdiamo l’occasione in cui ci sono modi per farvi ogni onore ” (ibid ., p. 224).
45) “Finalmente conclusero che l’ordinazione fussi tutta di Michelagnolo e le fatiche dello esseguire detta opera fussi di Tiberio, che di tutto si contentorono, promettendo loro che egli li servirebbe benissimo; e così, dato la pianta a Tiberio, che la riducesse netta e disegnata giusta, gli ordinò i profili di fuori e di drento, e che ne facessi un modello di terra, insegnandogli il modo di condurlo che stessi in piedi. In dieci giorni condusse Tiberio il modello di otto palmi, del quale, assai diffusi a tutta la nazione, ne faciono poi fare un modello di legno, che è oggi nel consolato di detta nazione: cosa tanto rara … ” (Vasari-Barocchi 1, p. 113). Per le incisioni, vedi The Renaissance from Brunelleschi to Michelangelo: The Representation of Architecture, ed. H. A. Millon e V. M. Lampugnani, Milano, 1994, p. 474.
46) Vasari-Barocchi 1, p. 113; K. Schwager, “Die Porta Pia in Rom”, Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst 33 (1973), pagg. 33-96, in particolare. 42ff. Vedi anche Argan-Contardi, Michelangelo Architect, pp. 348-53. Il 20 agosto 1562, il cardinale Ascanio Sforza aggiunse un codicillo alle sue volontà stabilendo la fondazione di un “collegio” e di una cappella dedicata a Santa Caterina in Santa Maria Maggiore. Il codicillo menziona anche un modello per quest’ultimo progetto (ASR: Sforza-Cesarini I Parte [Etichetta rettangolare], Busta 622, 7 fogli). Il cardinale Sforza morì nel 1564, lo stesso anno di Michelangelo e solo un anno prima di Calcagni. I lavori sulla cappella e la sua decorazione furono completati, probabilmente da Giacomo della Porta, nel 1573 con il patrocinio del fratello di Guido Ascanio, Alessandro Sforza, che è pure sepolto nella cappella (vedi testamento del cardinale Alessandro dell’11 luglio 1580, ASR: Collegio Notai Capitolini 464, fogli 589r-598v).
47) Un contratto del 1564 prevede che i disegni di “m. Tiberio architetto” vengano utilizzati per la costruzione di una villa “detta la Sforzescha” (vedi L. Calzona, ‘La Gloria de’ Prencipi?: Gli Sforza di Santafiora da Proceno a Segni, Roma, 1996, p. 78). Vorrei ringraziare Lucia Calzona per la sua assistenza riguardo a Calcagni a Proceno e Segni. Nello stesso momento, Calcagni stava lavorando per gli stessi mecenati nella cappella Sforza a Santa. Maria Maggiore.
Giovan Francesco Lottini, che Condivi e Vasari annoverano tra gli amici intimi di Michelangelo in età avanzata, potrebbe anche essere stato un importante intermediario nelle relazioni tra Calcagni, il Cardinale Sforza e Michelangelo. Lottini, eminente scrittore umanista e membro dell’Accademia fiorentina, era l’agente del duca Cosimo de ‘Medici a Roma e un tempo segretario del cardinale Guido Ascanio Sforza. Fu nominato vescovo nel 1560, aiutò a convincere Michelangelo a costruire il modello in legno della cupola di San Pietro, ma non riuscì a convincerlo a tornare a Firenze. Su Lottini, vedi F. Diaz, Il Granducato di Toscana: I Medici, Torino, 1976, pp. 206, 213-18, e Vasari-Barocchi 1, pp. 103.118; 4, pagg. 1598, 1697, 1701,1880-1881.
48) C. Elam, “‘Ché ultima mano!’: Annotazioni di Tiberio Calcagni in margine alla Vita di Michelangelo di Condivi,” Renaissance Quarterly 51 (1998), pp. 75-97. Vorrei ringraziare Caroline Elam per avermi generosamente fornito una copia del suo articolo prima della pubblicazione. Le postille furono pubblicate per la prima volta da U. Procacci, “Postille contemporanee in un esemplare della vita di Michelangiolo del Condivi”, negli Atti del Convegno di Studi Michelangioleschi, Firenze-Roma, 1964, Firenze e Roma, 1964, pagg. 279-94 .
49) In una lettera a un altro “patrono” significativo, quello del nipote di Michelangelo Leonardo (Carteggio indiretto 2, p. 108).
50) “… era molto gentile e discreto” (Vasari-Barocchi 1, p. 112).
51) Carteggio indiretto 2, p. 154 e “Dio lodato, sta benissimo per vechio” (ibid. 2, p. 108).
52) Carteggio indiretto 2, p. 107. Su Michelangelo proprietario di cavalli, un lusso insolito per un artista rinascimentale, vedi Wallace, “Miscellanea Curiositae Michelangelae”, specialmente. pp. 336-39.
53) Carteggio indiretto 2, p. 173.
54) Carteggio indiretto 2, p. 169.
55) Carteggio indiretto 2, p. 107.
56) “TIBERIO CALCANEO FLORENTINO … STATUARIAE ARTIS ET ARCHITECTURAE ECCELLENTEM PRAESTANTIAM SUMMO STUDIO CONTENDERET …” Gli strumenti di entrambe le professioni sono rappresentati in cartigli sul bordo della sua tomba a San Giovanni Decollato. Vorrei ringraziare John Paoletti per la segnalazione. Calcagni generalmente firmava le sue lettere “Tiberio Calcagni scultore” (ad es. Carteggio indiretto 2, pp. 107, 109, 170). Sua madre, Lucrezia Bonaccorsi, e i tre fratelli, Raffaele, Nicola e Orazio, sono nominati sulla sua tomba. D’altra parte, il padre di Calcagni desiderava essere sepolto a San Giovanni dei Fiorentini (ASR: Notai AC 6183, fol. 2r).
57) Vasari-Barocchi 1, p. 112 e 4, pagg. 1792-1802. Sulla datazione di questo episodio, vedi T. Martin, “Il Bruto di Michelangelo e il busto come ritratto classicizzante nell’Italia del XVI secolo”, Artibus et Historiae 27 (1993), pp. 67-83. A. Grünwald (Florentiner Studien, Praga, 1914, pp. 11-13) tentò di distinguere sul busto di Bruto la mano di Calcagni e quella di Michelangelo.
58) Frederick Hartt è caratteristico di questa linea della critica: “La costruzione originale del viso era senza dubbio identica a quella del Cristo, ma Calcagni ha cesellato e affilato i segni della gradina di Michelangelo per produrre una superficie liscia e, di conseguenza, ha ridotto sia la forma che l’espressione fino ad annullarli” (F. Hartt, Michelangelo’s Three Pietàs, New York, 1975 , p. 93) Per una serie di commenti negativi, vedi Vasari-Barocchi 4: 1674-75. Naturalmente, non avendo opere indipendenti attribuite a Calcagni è estremamente difficile dare una valutazione del suo stile.
59) Un breve ponte di pietra, in realtà il dito di Nicodemo, collega la parte posteriore della testa della Maddalena alla parte superiore del braccio di Cristo, parti della scultura che sono generalmente accettate come opera di Michelangelo. Un ulteriore ponte esisteva una volta sul lato destro della testa della Maddalena che si collegava all’avambraccio di Cristo. Esso si è evidentemente rotto quando il braccio destro di Cristo è stato spezzato, ma né la testa né l’arto sono stati sostanzialmente modificati. In effetti, piccole cavità nel braccio e sul lato del danno alla testa risultante dalla rottura del braccio rivelano che la testa e il braccio hanno le stesse dimensioni e sono nella stessa posizione l’uno rispetto all’altro come erano prima della rottura del braccio di Cristo. Il punto sulla dimensione relativa delle figure è stato anche sottolineato da Moshe Arkin (Arkin, “One of the Marys”, p. 497).
60) Vedi G. Schiller, Iconography di Christian Art II: The Passion of Christ, trad. J. Seligman, Londra, 1972; vedi anche W. Pinder, Die Pietà, Lipsia, 1922; W. Körte, “Deutsche Vesperbild in Italien”, Kunstgeschichtliches Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana 1 (1937), pagg. 1-138; W. H. Forsyth, The Entombment of Christ: French Sculpture of the 15th and 16 th Centuries, Cambridge MA, 1970; idem, The Pietà in Late French Gothic Sculpture: Regional Variations, New York, 1995; L. Mosco, La Maddalena tra sacro e profano, Firenze, 1986; M. lngenhoff-Danhäuser, Maria Magdalena: Heilige und Sünderin in der italienischen Renaissance, Tübingen, 1984; J. E. Ziegler, Sculpture of Compassion: The Pietà and the Beguines in the Southern Low Countries c. . 1300-c.1600, Bruxelles, 1992 e S. Haskins, Mary Magdalen: Myth and Metaphor, Londra, 1993. Più in generale, vedi H. Belting, Das Bild e sein Publikum im Mittelalter, Berlino, 1981.
61) Nel Cristo portato al sepolcro della National Gallery, la Maddalena svolge un ufficio simile in quanto guarda fuori dal dipinto e presenta il gruppo della Deposizione allo spettatore. L’immagine, tuttavia, non è universalmente accettata. Per una valida discussione a favore della sua attribuzione a Michelangelo, vedi M. Hirst e J. Dunkerton, The Young Michelangelo: The Artist in Rome 1496-1501, Londra, 1994, e per l’opinione opposta, vedi J. Beck, “La deposizione di Michelangelo alla National Gallery è di Michelangelo? “Gazette des Beaux-Arts 127 (1996), pagg. 181-98. Per il Noli me Tangere, vedi W. E. Wallace, “Il Noli me Tangere di Michelangelo: tra sacro e profano”, Arte Cristiana 76 (1988), pp. 443-50. Inoltre, la Maddalena può essere identificata come una delle figure nel disegno frammentario del Museo Teyler di Haarlem, che può essere ragionevolmente collegato alla Pietà fiorentina. Vedi C. de Tolnay, Corpus dei disegni di Michelangelo, 4 voll., Novara, 1975-80, n. 434 (recentemente discusso da A. Nagel, “Osservazioni sui tardi disegni e sculture di Michelangelo sul tema della Pietà”, Zeitschrift für Kunstgeschichte 4 [1966], pp. 548-72). Altri due disegni (Tolnay, Corpus, nn. 268, 269) potrebbero anche includere la Maddalena, sebbene non siano certe né le identificazioni né le attribuzioni di questi fogli.
62) “Ora ha per le mani un’opera di marmo, come egli fa un suo diletto, come quello che, pieno di concetti, è la forza che ogni giorno ne partorisca qualcuno” (Condivi, ed. Nencioni, p. 51).
63) “… la quale ancor che molto dolente si dimostri, nondimeno non manca di far quell’uffizio che la Madre per l’estremo dolore prestar non può “(Condivi, ed. Nencioni, p. 51).
64) G. Catalani, Rituale Romanum Benedicti papae XIV perpetuis commentariis ex ornatum 2 voll., Padova, 1760; The Catholic Encyclopedia 3, New York, 1913, pp. 71-78.
In Della Pittura, Leon Battista Alberti scrive: “E piacemi sia nella storia chi ammonisca e insegni a noi quello che ivi si facci, o chiami con la mano a vedere, o con viso cruccioso e con gli occhi turbati minacci che niuno verso loro vada, o dimostri qualche pericolo o cosa ivi maravigliosa, o te inviti a piagnere con loro insieme o a ridere. E così qualunque cosa fra loro o teco facciano i dipinti, tutto apartenga a ornare o a insegnarti la storia”. (L.B Alberti, Della Pittura, ed. L. Malié , Firenze, 1950, p. 94).
Sull’ufficio dei morti come rappresentato nella pittura di El Greco, che potrebbe anche essere in debito con la scultura di Michelangelo, vedi S. Schroth, “Burial of the Count of Orgaz”, Figures of Tought: El Greco as interpreter of History, Tradition and Ideas (Studies in the History of Art 11), Washington D.C., 1982, pp. 1-17. Tolnay considera il rivolgersi diretto della Maddalena verso lo spettatore simile a quello dell’angelo della Vergine delle Rocce di Leonardo (C. de Tolnay, Michelangelo, The Final Period, Princeton, 1960,p. 88).
65) Vedi Schroth, “Sepoltura”, p. 9. Evocando il suo ruolo precedente nel contribuire a preparare il corpo di Cristo per la sepoltura, Caravaggio include la Maddalena nella sua “Morte della Vergine” (vedi R. Askew, La morte della Vergine di Caravaggio, Princeton NJ, 1980, in particolare pp. 78- 79). Vorrei ringraziare Franca T. Camiz per aver portato questo esempio alla mia attenzione.
66) Vedi Wallace, Arte Cristiana, 1988, pagg. 443-50. Sulla tradizione medievale riguardante l’associazione erotica di Cristo e Maria Maddalena, vedi L. Steinberg, “The Metaphors of love and Birth in Michelangelo’s Pietàs”, in Studi sull’arte erotica, ed. T. Bowie, New York 1970, pagg. 247-49 e appendice C, pagg. 277-80.
67) Certo, l’identità di Nicodemo non è certa, vedi in proposito W. Stechow, “Joseph of Arimathea or Nicodemus?” Studien zur toskanischen Kunst: Festschrift für Ludwig Heinrich Heydenreich, ed. W.Lotz e L.L Möller, Monaco, 1964, pp. 289-302; J. Kristof, “Michelangelo as Nicodemus: the Florentine Pietà,” The Sixteenth Century Journal 20 (1989), pp. 163-82; V. Shrimplin-Evangelidis, “Michelangelo and Nicodemism: The Florentine Pietà,” Art Bulletin 71 (1989), pagg. 58-66, e A. Parronchi in Opere giovanili di Michelangelo 4, Firenze, 992, pagg. 61-69.
68) Werner Körte ha osservato che la scala delle figure dipende dalla loro importanza (“Das Problem des Nonfinito bei Michelangelo”, Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte 7 [1955], p. 296). Altri scrittori hanno notato le piccole dimensioni della Maddalena e le hanno attribuite all’intervento di Calcagni, ad es. A. Bertini, “Il problema del non finito nell’arte di Michelangelo”, L’Arte 33 (1930), p. 137 e A. Perrig, Michelangelo Buonarrotis letzte Pietà– Idee, Berna, 1960, p. 66, n. 55.
69) Michelangelo concepì allo stesso modo una Maddalena “distaccata” nei disegni della “Lamentazione” nell’ Albertina a Vienna e nel Museo del Louvre a Parigi (Tolnay, Corpus, nn. 268, 269). Trovo che il suo distacco sia decoroso, adatto al suo ruolo e al suo rapporto con Cristo nei confronti della madre di Cristo, piuttosto che “estraniato” come è stato suggerito da Moshe Arkin (Arkin, Art Bulletin, 1997, p. 497).
70) I presunti difetti di queste figure sono talvolta attribuiti all’intervento del collaboratore di Michelangelo, Raffaello da Montelupo (vedi C. de Tolnay, Michelangelo: The Tomb of Julius II, Princeton, 1954, rpt. 1970, pp. 121-23) .
71) Questa fu la conclusione anche di Johannes Wilde (Michelangelo: Six Lectures by Johannes Wilde, a cura di J. Shearman e M. Hirst, Oxford, 1978, p. 61). Symonds osservò che Calcagni “non sembra aver elaborato la superficie in nessun particolare importante …” (Symonds, Michelangelo 2, p. 202).
Un disegno di una testa malinconica nel Museo Boymans van Beuningen di Rotterdam potrebbe essere per la Maddalena (vedi Tolnay, Corpus, n. 324). Se così fosse, si potrebbe sostenere che Calcagni stava semplicemente realizzando nella pietra – e con successo – ciò che Michelangelo aveva anticipato in questo disegno.
72) “… e rimessa insieme poi da Tiberio e rifatto non so che pezzi …” (Vasari-Barocchi 1, p. 100).
73) “.. 100).
74) La cronologia di questi eventi è impossibile da ricostruire con precisione. Per una più chiara esposizione delle fortune della statua in seguito all’abbandono di Michelangelo, vedere il volume sulla Pietà a cura di Jack Wasserman di prossima pubblicazione.
75) Bandini, tuttavia, morì nel 1562. Vasari almeno la considerava ancora una degna scultura funeraria e dopo la morte del maestro tentò di recuperarla dal figlio di Bandini, Pierantonio (vedi Carteggio indiretto 2, p. 181).
76) “Saria cosa impossibile narrare la bellezza e gli affetti che ne ‘dolenti e mesti volti si veggiono, sì di tutti li altri, si dell’affannata madre; però questo basti. Vo’ ben dire ch’è cosa rara e delle faticose opere ch’egli fin a qui abbia fatte … “(Condivi, ed. Nencioni, pp. 51-52).
77) Saslow, Poetry, n.283.