Uno scherzo finito male
Del come e del perché un osteria divenne una chiesa
di Paolo Pianigiani
da: Empolesi brava gente, Ibiskos Risolo editore, 2014
Correva l’anno di Nostro Signore 1523: c’era la peste a Firenze e si stava diffondendo nel contado. Jacopo da Pontormo, non ancora trentenne, per scansare il morbo sterminatore, scappò alla Certosa e, per sdebitarsi coi frati, dipinse alcuni meravigliosi affreschi. Michelangelo era già da un anno alle prese con le tombe dei Medici.
Intanto da noi, nel castello di Empoli, un gruppo di amici decide di esorcizzare la tristezza dei tempi e organizza una bella cena, comprensiva di dopocena. E sceglie una locanda, appena fuori porta, subito dietro casa: l’osteria della Cervia.
Sappiamo il giorno preciso e i loro nomi. È il 18 marzo, il giorno che precede S. Giuseppe; eccoli, sembra di vederli… Nardo di Michele Celli, Zozzo di Menico Ticciati, Domenico di Salvadorino detto ”Cona”, Matteo di Maso del Secha, Tonio di Cecho Ticciati, Meo di Raffaello di Nanni, Sano di Giovanni, Francesco di Antonio di Pippo. Sono un allegra brigata di amici, tutti di famiglia benestante e con le saccocce piene di lire, soldi, denari e fiorini; qualcuno avrà avuto qualche scudo, che era la moneta che valeva di più.
Essendo l’osteria sede abituale anche di prostitute, non è difficile immaginare che, a rallegrar la serata, abbiano invitato qualcuna di loro. E c’era da scegliere, visto che fra le regolari, quelle cioè che esercitavano l’antico mestiere pagando regolare “bolletta”, e quelle irregolari, che cercavano invece di scansarla, ce n’era un bel gruppetto. I nomi? Ecco le patentate: Berta, Milia, Marta di Giovannino, Julia, Sandra Paladini, Masa, Bonci, Sandra da Monterappoli, Bacolla, Bonca. L’Osteria si distendeva su tre fabbricati, “tre case congiunte insieme” e si trovava in linea con la strada che, provenendo da Firenze e passando da Pontorme, proseguiva poi verso il castello. Subito dopo continuava con un muro, un pozzo ed una piccola edicola dove stava dipinto con la Madonna e il Bambino, in compagnia d’un paio di Santi.
La Cervia, nelle due prime case, comprendeva un salone e una sala per i viaggiatori, la cucina, una bettola e i servizi al piano terreno. Salendo le scale c’erano sei camere. Il terzo edificio, indispensabile visti i tempi e il luogo di transito, era occupato dalla stalla e dai soprastanti fienili. Caso volle che quella sera a passar la notte all’Osteria, ci fossero anche alcuni soldati, giunti lì per servizio, in scorta di alcuni notabili. Avevano lasciato i cavalli nella stalla e, dopo una cena frettolosa, si erano ritirati a dormire al piano superiore.
La festa intanto proseguiva, con le raccomandazioni dell’oste di non far tanto schiamazzo. I soldati non erano militari qualunque, appartenevano alla compagnia di Vitello Vitelli, al soldo di Firenze. C’era poco da scherzare. E invece a qualcuno, di quelli che avevan bevuto di più, e magari per impressionare le belle di turno, venne l’idea di fare uno scherzo agli armigeri che stavano tranquillamente dormendo e della grossa.
Avrebbero finto un incendio nella stalla, per costringere i soldati a scendere da basso e loro, intanto si sarebbero impadroniti dei vestiti e delle armi lasciate in camera, per richiedere poi, ai malcapitati, per riscatto, di pagare il conto e magari unirsi a loro e finire la serata. Ma esagerarono con il fuoco e in men che non si dica le fiamme invasero i locali. I giovanotti, vista la mala parata, scapparono in tutta fretta, facendosi aprire la Porta Fiorentina, lì davanti, e rientrarono di volata nelle loro case.
Accorsero gli empolesi e spensero l’incendio. Ma fra le macerie fumanti erano rimasti tre soldati. I sopravvissuti, saltati sui cavalli che avevano recuperato, erano scappati a Firenze a riferire al loro capitano. Vitello Vitelli, che dopo poco avrebbe preso il comando della compagnia di Giovanni dalle Bande Nere, la prese molto male. Si rivolse agli Otto di Balia, chiedendo giustizia. Fu subito ordinato al Podestà di Empoli di scoprire ed esemplarmente punire chi aveva
“avuto.., troppo ardire ad rubbare le robbe dei nostri conductieri..”
Per fortuna dei giovani incendiari il particolare della morte dei tre soldati non fu subito noto. Ma se la videro brutta. Un muro di omertà si alzò subito a difendere le varie identità, che tutti naturalmente conoscevano.
Il Podestà, Antonio Guicciardini, entro la fine del mese di Marzo, venne però a capo di tutto. Fu allora avvicinato dai parenti, in particolare dai Celli (che erano cittadini fiorentini e come tali godevano di un certo riguardo) e dai Ticciati, attivi e in vista come importanti navicellai, e venne convinto a mandare a Firenze una versione addomesticata dei fatti.
Si tratta di ragazzi, in fondo, che volevano solo divertirsi. L’incendio? Solo una disgrazia! Le armi e i bagagli trafugati sarebbero stati restituiti immediatamente, a dimostrar la buona volontà. I Signori Otto convocarono i giovani a Firenze il 24 Aprile e la condanna relativa fu tutt’altro che esemplare. Due mesi di bando dalla Podesteria, il che voleva dire che potevano passare l’Arno e andare a Spicchio o a Sovigliana, e tutto finiva lì. Tarallucci e vino, insomma. Fu quell’incendio assolutamente doloso all’origine del supposto miracolo della Madonna del Pozzo, rimasta illesa nella sua edicola, nel mentre che i tre soldati finivano arrostiti.
Nel breve gli empolesi eressero un oratorio attorno alla Madonna e al Pozzo. Sette anni dopo, Francesco Ferrucci decise di non demolire quel fabbricato sacro, lasciandolo alla protezione del Cielo e in balìa degli imperiali che avrebbero assediato il castello.
Questa bella storia, così curiosa che sembra inventata, è assolutamente certa e documentata da due pubblicazioni:
Olinto Pogni, “Inventario del medievale albergo della Cervia”, Castelfiorentino, 1930.
Libertario Guerrini, “Empoli dalla peste del 1523-26 a quella del 1631”, Firenze 1990.
Il Pogni cita documenti dall’Archivio della Collegiata, arrivando anche a ritrovare notizia del seppellimento dei
“tre sachomanni soldati”
nel funereo libro dei morti, alla data del 19 marzo 1522 (anno fiorentino, corrispondente al 1523, anno corrente).
Ma è Libertario che ha scoperto i dettagli della storia, fra le scartoffie del nostro Archivio Storico Comunale. Le due fonti si completano a vicenda, distaccandosi solo nel nome dell’oste. Lo studioso di Castelfiorentino fa il nome del figlio di Iacopo del Cornacchino, soprannominato Rapa, mentre il Guerrini parla di Cecho di Rinaldo Ticciati.
In ogni caso, chiunque sia stato, fu proprio sfortunato: un “oste della malora”, poco ma sicuro!