STORIA DI UN CAPOLAVORO
L’ultima tragedia di Michelangelo
Dal Corriere della Sera
Milano, domenica 22 Dicembre 1929
Come gli uomini, anche le opere d’arte nascono sotto una stella propizia o maligna. Il destino talvolta le favorisce, tal’altra le avversa in modo che tutto sembra congiurare contro di loro; e non meno commoventi delle traversie d’una vita umana possono essere le sventure d’una bella statua. Questo genere di commozione riserba, a chi lo legge, il libro di Camilla Mallarmé: L’ultima tragedia di Michelangelo (Casa Ed. « Optima », Roma, L. 10).
Fra tante vite illustri, incomincia l’autrice, perché non si vede mai la biografia d’un capolavoro? Il capolavoro di cui ella fa la biografia è la « Deposizione » del Buonarroti, nascosta dietro l’altar maggiore del Duomo di Firenze. Camille Mallarmé parla addirittura dl « romanzo » della Deposizione, le quali parole non sono da intendere nel senso che qui si tratti d’un saggio alla moda, cioè di storia « romanzata ».
Il racconto corre sulla traccia di testimonianze diligentemente raccolte, e se drammatica, meglio che romanzesca, ne riesce infine la lettura, questa drammaticità è dovuta alle vicende stesse dell’opera di Michelangelo, al mistero che le avviluppò fino ad oggi, alla sorte che le volse tanto lontane dal termine desiderato, deludendo i disegni dell’artista.
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Il Buonarroti aveva settantacinque anni quando, nel 1550, cominciò a scolpire il gruppo custodito nella metropolitana fiorentina: ma da dieci anni vi pensava. Racconta Giacomo Preti, in una sua lettera del 1612, che spesso egli andava a vedere le colonne antiche, « le quali sono oggidì al pozzo del Convento di San Pietro in Vincoli, e quivi quel buon uomo si fermava fisso due o tre ore intere, come se fossero state qualche mostro ».
Non erano « mostri » ai suoi occhi. In quei marmi, secondo i versi famosi delle Rime, era circoscritto il suo « concetto », e già egli meditava sul modo di toglierne « il soverchio » per liberare e trarre alla vita dell’arte le creature che dentro vi dormivano.
Dopo lunghe meditazioni, scelse e ottenne il capitello d’una delle grandi colonne del « Tempio della Pace » di Vespasiano, e s’accinse a cavarne le statue di cui pensava ornare la sua tomba, come attestano il Condivi e il Vasari.
Pensieri solenni e gravi occupavano in quegli anni la mente del vegliardo: il grande spirito, distaccato ormai dalle cose terrene, era tutto raccolto in una religiosa contemplazione della morte. E con quest’animo egli condusse innanzi le quattro mirabili figure di Cristo deposto, della Madre, d’una Maria e di Nicodemo, nel cui volto pietoso raffigurava se stesso, affaticato dalla vita e dal dolore.
Ma il marmo romano era duro, pieno di smerigli che facevano fuoco sotto lo scalpello, e incrinato all’interno. Un viaggiatore francese, Blaise de Vigenère, visitando Michelangelo proprio In quell’anno 1550, lo vide, vecchio com’era, « abbattere più scaglie d’un marmo durissimo in un quarto d’ora, di quello che avrebbero potuto fare tre giovani scarpellini in un’ora. Vi si buttava giù con tanto impeto e furia, ch’io pensavo che tutta l’opera dovesse andare in pezzi ». L’opera era la Deposizione.
Sul più bello, il lavoro s’era trasformato in una fiera lotta contro il sasso ribelle. Per rendere meglio la pesantezza del corpo abbandonato di Cristo, Michelangelo aveva pensato di smagrirne la parte inferiore, in contrasto col maestoso torace, e continuando a scarpellare attorno alla gamba sinistra s’era incontrato, per somma disgrazia, in una incrinatura della vecchia pietra.
Ecco che la sua tenace volontà di perfezione s’infrangeva contro la bruta resistenza della materia. Allora l’entusiasmo creativo dell’artista si trasformò di colpo in angoscia. Come cambiare oramai la gamba del Cristo? Il marmo mancava. Ed egli fu così umiliato di quella sconfitta, che una sera, sorpreso dal Vasari mentre invano cercava di rimediare al danno, per impedire che l’amico lo vedesse, si lasciò cadere la lucerna di mano, pronunziando le malinconiche parole: « lo sono tanto vecchio che spesso la morte mi tira per la cappa perché io vada seco, e questa mia persona cascherà un dì come questa lucerna, e sarà spento il lume della vita ».
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Fallito ogni rimedio, Michelangelo si decise a salvar l’insieme dell’opera sacrificandone una parte; e portò via la gamba incrinata. Così si spiegano le differenze fra il gruppo come lo ridusse all’ultimo Michelangelo, e come lo descrissero il Condivi e il Vasari, forse di sul modello. Ma ll ginocchio della gamba sacrificata era bellissimo.
Uno del discepoli favoriti lo chiese al maestro e l’ottenne. Infatti, nell’inventario degli oggetti ritrovati in casa di Daniele da Volterra dopo la sua morte, si legge: « Un ginocchio di marmo della Pietà di Michelangelo ». E questa preziosa nota fornisce la prova materiale del dramma sofferto dal grande artista.
Compiuta la mutilazione, Michelangelo perse ogni amore per il suo marmo. Vi lavorava ancora contro voglia cedendo agli incitamenti del suo fedele servo Urbino, ma nervoso in modo che il suo carattere irritabile ne divenne più aspro. Per una strana e quasi fatale coincidenza, da quando « La Pietà », invece di progredire cominciò a rovinarsi, tutto nella vita dello scul toro si fece cupo.
Morì Papa Giulio che tanto lo aveva protetto; morì a Firenze suo fratello Gismondo; Paolo IV, assalito da una inopportuna mania di decenza, fece vestire di « brache » i nudi del « Giudizio Universale », donde a Daniele da Volterra il nomignolo di « Brachettone »: sciagura più grave d’ogni altra, si spense nel 1553 il suo caro Urbino, che lo aveva amorosamente servito per ventisei anni. Vecchio, afflitto dalla gotta, solo accanto al suo focolare deserto, egli si sentiva il cuore colmo di tristezza. « Non nasce in me pensiero, — scriveva in quell’anno 1555 al Vasari, — che non vi sia dentro scolpita la morte ».
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Tornato a Roma, dond’era partito sotto la minaccia dell’esercito spagnolo, si trovò dinanzi la sua Deposizione abbandonata, e in memoria d’Urbino che tanto ci teneva, volle portarla a compimento. Ci lavorava tutti i giorni. Ma, come racconta il Vasari, le disgrazie ricominciarono; finché « gli venne levato un pezzo di gomito della Madonna. Scappatagli la pazienza, lo ruppe », e avrebbe rotto ogni cosa, se il suo nuovo servo Antonio « non gli si fussi raccomando che cosi com’era glie ne donassi ».
Così del bellissimo marmo che tutti un giorno ammiravano, che già pittori e incisovi copiavano nelle loro tele e nelle loro stampe, che cosa ormai rimaneva? Cristo privo della gamba sinistra, la Madonna senza gomito, la Maddalena anch’essa mutilata. E il gruppo, intorno al quale Michelangelo aveva speso lunghi anni d’ansiose fatiche, abbandonato come un vile rottame nelle mani di un servitore.
Poco tempo dopo, un fuoruscito fiorentino, il banchiere Francesco Bandini, che aveva comperato a Roma una vigna sul Quirinale ricca d’anticaglie, e vagheggiava d’aggiungere a quei tesori d’arte antica qualche opera di Michelangelo, non riuscendovi in altro modo, come seppe della Deposizione venuta in possesso d’Antonio, gli offrì di comperarla per duecento scudi d’oro, e a questo prezzo l’ottenne col consenso del Buonarroti, il quale permise anche che Tiberio Calcagni ne rifacesse i pezzi rotti e n’accomodasse l’insieme come oggi la vediamo, ma senza portarla a compimento.
Morto Michelangelo nel 1564, la salma fu trasportata, come tutti sanno, a Firenze, e seppellita in Santa Croce, secondo la volontà espressa dall’Artista. Il monumento sepolcrale doveva farsi a spese del nipote di lui, Leonardo. Mentre si deliberava sul modo di farlo, al Vasari venne in mente un’idea geniale. Egli intuì che solo un marmo scolpito dal Maestro poteva essere degno della sua tomba, e ricordatosi della Pietà e dello scopo per il quale Michelangelo l’aveva incominciata, propose a Leonardo di riscattarla dai Bandini e d’ornarne il sepolcro di Santa Croce.
Ma fosse per l’avarizia del nipote, o per un rifiuto opposto dal Bandini, il bel progetto non ebbe fortuna, e si pose invece sulla tomba del grande artista « l’onesto pasticcio di monumentello », come lo definisce Camille Mailarmé, eseguito, su disegno del Vasari, da Valerio Cioli e da due mediocri discepoli del mediocre Bandinelli; di quel Bandinelli « borioso ed insulso » che tutti i suoi compagni d’arte disprezzavano, che II popolo fiorentino metteva in canzonella.
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La Deposizione rimase intanto a Roma, dove, per testimonianza del Vasari, si trovava ancora nel 1568, « nelle mani di Pierantonio Bandini, figliuolo di Francesco, alla sua vigna di Montecavallo »; né altro fino ad oggi se ne sapeva, se non che in un’epoca incerta fu portata a Firenze, e collocata, nel 1722, dietro l’altar maggiore del Duomo.
Ma fra queste due date, 1568 – 1722, mistero. Consultando vecchi testi e carte d’archivio, Camille Mallarmé ha sollevato i veli di questo mistero, ed ecco, in breve, i fatti appurati dal « biografo » della Deposizione. Nel 1652, il marmo era sempre nella vigna bandinesca, e nessuno vi badava più. Solo il sagace Bernini Io notò, e disse a Paolo Falconieri: « Il Cristo, ch’è quasi finito, è una meraviglia inestimabile ».
Dopo quell’anno, soccorre un documento fornito all’autrice dal Poggi. Il gruppo fu fatto venire a Firenze, per ordine di Cosimo III, con l’intenzione di collocarlo con gli altri capolavori di Michelangelo nella sagrestia nuova di San Lorenzo; ma poi, non parendo degno del luogo (vedi giudizio umano…) fu collocato temporaneamente, l’anno 1674, nella cripta della stessa chiesa, non senza sdegno del gentiluomo di camera Falconieri, il quale ebbe il coraggio di protestare e di lagnarsene addirittura col Duca.
La Deposizione non uscì dai sotterranei di San Lorenzo che per passare, cinquant’anni dopo, dietro al coro della metropolitana; e nessuno dei contemporanei fece caso di questo avvenimento, con cui si restituiva al mondo una così bella opera d’arte.
Ma si restituiva veramente? E’ proprio li il suo posto, nell’ombra dell’altar maggiore del Duomo, « dove rimane invisibile anche a chi la viene ad ammirare », quando nulla impedirebbe che il voto del Buonarroti, dopo tre secoli e mezzo, si compisse, e che in Santa Croce, rimosse dalla sua tomba « le statuette degli scolari del Bandinelli », splendesse, pur incompiuta, la commovente bellezza dello sventurato capolavoro?
Questo propone nel suo libro Camille Mallarmé. Ella chiede che il marmo scolpito dal grande artista tutto per sé, il marmo che « racchiude il volo iniziale, la potenza, la febbre con la quale fu intrapreso; in cui lo scultore mise l’anima raccolta nel bisogno della morte, la sua fede religiosa e’ la sua certezza d’eternità », questa « Pietà » tanto piena di lui, che vi si vide e scava nella dolente figura di Nicodemo, quest’opera e non altra adorni il sepolcro di Michelangelo Buonarroti.
v. b.