VENTURINO VENTURI:
uno sguardo sull’infinito
di Wanda Lattes
da: Corriere della Sera, 12 Gennaio 1992
in occasione della mostra di Venturino alla
Galleria Pananti, piazza Santa Croce, Firenze
Chi mai oserebbe porre a Venturi la domanda: «È vero che hai fatto una mostra tutta di arte astratta?». L’artista non volgerebbe neppure quella sua gran testa da metopa greca, non distoglierebbe per un istante i suoi occhi dalla visione del Pratomanio stagliato dietro le finestre dello studio a Loro Ciuffenna. Astratto? Figurativo? Post? Ante?
Quale significato possono avere le glosse del banale gergo critico per uno che lavora sull’infinito e nell’infinito, tra i pieni e i vuoti della luce, teso sempre a rappresentare come può la gloria della Genesi, di ciò che fu, è, e si fa? L’antropomorfismo è stato ed è per lui uno dei tanti mezzi espressivi, non il fine.
Eppure, per la cronaca, questa nuova mostra di Venturino, novanta opere, tutte grandissime, deve proprio intitolarsi all’astrazione. Tra i pezzi scelti nella produzione degli ultimi vent’anni non c’è neppure uno dei ritratti che, scolpiti o disegnati, misero in luce già più di trenta anni fa le sue capacità di mirabile sintesi figurativa, e non c’è neppure — e questo appare ancora più strano — una di quelle visioni del Volto eterno, o del Bimbo che in fondo devono essere per lui, come per molti, più significativi di ogni alta cosa.
Quegli occhi che sanno tutto, quelle severità e quei sorrisi. Qualcosa di figurato però resta nell’ampia rassegna fiorentina (presentata, in catalogo, da Mario Luzi).
II raffigurato, qua e là ben distinguibile, è l’ovuIo fecondato, inizio di vita. Il miracolo per eccellenza.
Quali caratteristiche visive restano dunque impresse nel visitatore della mostra concessa dal settantatreenne Venturino Venturi dopo uno dei lunghi periodi di silenzioso rifiuto di pubblicità?
Il fascino viene, si potrebbe dire, dalla preziosità del segno, dalla maestria della trasformazione del colore sulla carta.
Subito l’osservatore è coinvolto in un gioco che non ha nulla di intellettualistico, né, tanto meno, si presenta come banale indagine di bravura artigianale. I monotipi e i disegni ottenuti con le tinte ad olio sparse, spinte, premute sulla carta danno una varietà infinita di minuziose linee, orizzontali, verticali, oblique, serpentine, avvolgenti, per gran parte bianche e nere, ma anche tinte di purpurei, azzurri, arancioni, violacei che la stampa del pur buon catalogo non riesce neppure a sfiorare.
Tutti questi segni magistrali, se proprio volessimo tentare di definirli con termini o paragoni di banale e abusata critica, ora sembrano del genere del più classico astrattismo alla Mondrian quando per esempio ripropongono decine di variazioni dei rapporti fra quadrato e angolo retto, ora serpeggiano in una relatività conturbante di scale alla Escher, ora coinvolgono e quasi sfiniscono in un rovello di liberazione dalla pesantezza delle cose alla Fontana.
Poi, quasi sosta o tregua dalla gran voglia di dire con linea e colore, ecco ritornare di quando in quando la pesante immutabilità statica dell’embrione. Qui s’avverte che l’artista si placa. Perché, viene quasi voglia di dire, ora che si è raggiunto il senso del tutto, del principio, ci si arrovella a mettere insieme di nuovo righette e scale e piramidi e cantieri di cubi?
Quali essenze si vogliono captare? Sarebbe, però, questa come gran parte delle domande poste agli artisti, una richiesta insensata. L’artista risponderebbe con i più recenti lavori sulla dinamica spaziale, e in particolare con lo Spazio aperto, vera finestra sull’universo. Anche quando si trova, la domanda rinasce, e si riapre.
Il fenomeno Venturino Venturi resta in Toscana uno dei più originali di questa metà del secolo. Nato come scultore, e anzi come scalpellino tra la gente umile, allievo della Scuola di Porta Romana, Venturi fu scoperto dai più accorti ambienti fiorentini, da un Romano Bilenchi, da un Carlo Lodovico Ragghianti sapiente, da Alessandro Parronchi a Mario Luzi, a Giovanni Colacicchi quando era ancora giovane, ed ebbe visite, amicizie, critiche, frequentazioni e anche qualche memorabile premio come quello per la decorazione musiva dedicata negli anni ’50 a Pinocchio.
Critica e mercato tendono più volte la mano a Venturino Venturi, il quale però non ne vuol sapere di contrattare e contrattarsi.
Forma, scava, disegnta aggredisce pietra e legno, carta e metallo: trova gioia e calma nel creare, dentro il paese collinare dell’Aretino dove la sorella Bettina, e tanti amici, custodiscono il calore della sua anima religiosa, che non sa che cos’è la parola compromesso.