La Pietà Fiorentina alla fine del suo Restauro
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LA PIETÀ DI MICHELANGELO, I CRISTI MORTI
E UN MARMO ELLENISTICO
di Antonio Natali
Consigliere dell’Opera di Santa Maria del Fiore
L’intervento odierno sulla Pietà dell’Opera del Duomo, conosciuta come Pietà Bandini, ha prodotto acquisizioni nuove e nuova materia per riflessioni sulla tecnica di Michelangelo, sul blocco di marmo da lui scolpito, su talune questioni ardue prospettate dall’impostazione delle figure e dall’attitudine delle loro membra. Ma, come sovente càpita coi restauri, la maggiore leggibilità che sorte dalla pulitura di un’opera favorisce rinnovate considerazioni critiche e l’approfondimento di pensieri in parte già svolti in tempi anteriori all’intervento. Nel caso della Pietà del Museo del Duomo, l’immagine che il restauro restituisce non è più quella d’un marmo reso uniforme da trascorse stesure di materiali incongrui, vòlte giustappunto a rendere omogeneo il gruppo di figure, a dispetto della difformità d’una lavorazione pervenuta a gradi diversi di compiutezza. Accanto alle zone dove il marmo è palesemente appena sbozzato, le parti finite emergono ora con perspicua chiarezza, consentendo più fondate congetture.
È il caso del corpo esanime di Cristo, che, idealmente ritagliato nei suoi contorni, attesta l’appassionato persistere dell’interesse di Michelangelo per la scultura ellenistica. Lui che nel Tondo Doni, dipinto a Firenze agli esordi del Cinquecento, era ricorso a celebrati marmi dell’ellenismo (dall’Apollo del Belvedere, al Laocoonte, al Torso del Belvedere e ad altri ancora), pervenuto alla metà del secolo, séguita nel suo volgersi a modelli segnati da un patetismo prolungato. Lo fa giustappunto nel corpo di Cristo della Pietà Bandini, prendendo spunto da un mutilo busto ellenistico – il Torso Gaddi – ch’era stato molto studiato, copiato e più volte evocato dagli artisti fiorentini, già nel Quattrocento, a principiare da Ghiberti; che lo aveva citato nel nudo d’Isacco della formella presentata da Lorenzo al concorso del 1401 per l’assegnazione della Porta nord del Battistero fiorentino.
Ma una fortuna particolare del Torso Gaddi si registra nel Cinquecento, quando fu preso a modello proprio per tanti Cristi morti. Una desunzione si trova nel Cristo morto fra gli angeli di Andrea del Sarto, spedito al re di Francia, ma a oggi sconosciuto. Ne fu tratta però una stampa da Agostino Veneziano, da cui s’evince che il cadavere di Gesù (cavato appunto dal marmo ellenistico) precede d’una trentina d’anni quello di Michelangelo nella Pietà Bandini: in entrambi i corpi la testa di Gesù si reclina a destra (per chi guarda), integrando il torso antico proprio là dove (sulla spalla cioè) c’è una sensibile abrasione; la quale lascia facilmente indovinare che giusto lì si posasse appunto la testa della statua antica. E infatti sia Andrea che Michelangelo ci poggiano la testa dei loro Cristi. E poi entrambi lasciano franare diritto a terra il braccio sinistro, come pendesse dalla testa dei cadaveri, mentre il destro è tenuto sollevato: dagli angeli nella composizione di Andrea del Sarto e da Nicodemo nella scultura di Michelangelo. E finalmente le gambe si conformano a una postura disarticolata, ma in un avvitamento d’ascendenza ellenistica, con le ginocchia che puntano dalla parte del braccio abbandonato. Movenza conclusa nell’opera sartesca e invece da comprender bene nel marmo del Buonarroti per la mancanza dell’arto sinistro, la cui posa non è del tutto agevole figurarsi e che può trovare un qualche suggerimento nel confronto col Cristo d’Andrea.
Così come forse potrebbe giovare all’ideale ricostruzione della postura delle gambe del Gesù morto di Michelengelo una riflessione sulle desunzioni che dal Torso Gaddi trasse il Rosso Fiorentino sempre nella prima metà del Cinquecento: una prima volta nel 1521 nella Deposizione di Volterra e poi, tre o quattr’anni dopo, nel Cristo morto fra quattro angeli destinato all’altare della cappella Cesi in Santa Maria della Pace a Roma e oggi a Boston. Un Cristo morto, quest’ultimo, che di sicuro Michelangelo conosceva bene, anche perché gli affreschi che il Rosso aveva dipinto sul fronte della cappella Cesi erano stati aspramente criticati a Roma per via della loro non buona riuscita, imputata all’aspirazione di lui a emulare – senza però riuscirci – le figure del Buonarroti della volta sistina.