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Per la pittura pistoiese del Trecento – II

Il Maestro del 1336

di Pier Paolo Donati

Da PARAGONE

Rivista mensile di arte figurativa e letteratura

fondata da Roberto Longhi

Anno XXVII – Numero 321 – Novembre 1976

 

 

Ringrazio il dott. Pier Paolo Donati per avermi permesso di pubblicare il suo articolo.

(p.p.)

 

Esaminati nei precedenti interventi sulla pittura pistoiese i momenti fondamentali di Manfredino d’Alberto e del ‘Maestro del 1310’, ritrovata una traccia praticabile che permette di seguire in quel centro minore gli effetti del rinnovamento figurativo da Cimabue a Giotto, individuata una corrente pittorica di singolare suggestione i cui autonomi sviluppi consentono addirittura la revisione di alcuni dati sugli sviluppi della pittura gotica nell’Italia centrale ritenuti immutabili, appare più facile la corretta definizione dei documenti figurativi del secondo quarto del secolo tuttora superstiti in Pistoia1.

Si è anticipato che qui fino alla metà del secolo ha corso solo la moneta battuta nell’atelier del ‘Maestro del 1310’ per marcare il ruolo di caposcuola che compete indubbiamente a questo pittore, tanto singolare quanto dominante nell’ambito pistoiese. E infatti a chi se non ad un assiduo frequentatore della bottega del ‘Maestro del 1310’ potrà essere assegnato questo polittico conservato ad Empoli in cui si ritrovano tante delle caratteristiche figurative che si sono andate individuando in Pistoia nei primi due decenni del Trecento? /tavola 1/ 2.

 

 

Qui le figure del pannello centrale rinviano con tanta precisione alle opere note del ‘Maestro del 1310’ che non si nasconde che, in un primo momento, riscontri tanto puntuali, o passaggi di pari difficoltà prospettica rimasti similmente irrisolti, quali il volgere di un profilo che non riesce a comprendere l’occhio lasciato di prospetto, ci avevano consigliato cautela nel distaccare il polittico di Empoli dal corpus delle opere del maestro pistoiese; né si tace la difficoltà di datazione che quest’opera pone a tuttaprima. Ma tale imbarazzo si scioglie quando si osservi che le aureole del polittico empolese sono di taglia tanto larga da non permettere una datazione più inoltrata della seconda metà del terzo decennio; e così vanno a posto anche le indicazioni che si traggono dalla carpenteria del polittico o dalle figure dei pannelli laterali, aggrondate e arcaizzanti ma in sostanza evolute come converrebbe a un creato del ‘Maestro del 1310’ che intendesse seguirne fedelmente l’esempio allo scadere degli anni venti.

 

 

In realtà il polittico di Empoli segna per noi l’affermazione di una nuova personalità pittorica che senza cesure consente di seguire in Pistoia lo sviluppo della cultura figurativa locale fino alla metà del secolo. Non è chi non veda infatti quanto facilmente si possa collegare l’opera di Empoli al polittico a cinque scomparti di Popiglio, ora al Museo Diocesano di Pistoia /tavola 8/3; e siamo già negli anni trenta; un nuovo panorama culturale si apre oltre questo segno; l’erede del ‘Maestro del 1310’ dimostra di tener conto di nuove sollecitazioni culturali che lo accompagneranno fino al quinto decennio con implicazioni comuni ad altri pittori fiorentini che tenteremo di esaminare.

E per prender l’avvio da quanto di più caratteristico ci è avvenuto di notare nel pittore che apre il Trecento in Pistoia, dire che cosa resti della tensione espressiva propria del ‘Maestro del 1310’ nel polittico di Empoli non è difficile; estendere tale consenso all’opera di Popiglio lo è di più: segno certo che si è giunti ad un cambio di generazione. Se poi i due dipinti spettano ad uno stesso artista, e sull’identità di mano non è possibile avanzare dubbi, vorrà dire che la seconda opera documenta inedite sollecitazioni culturali. Le nuove scelte fanno impallidire le antiche convinzioni, l’aggiornamento culturale può avvantaggiarsi di una propensione naturale all’investigazione dei fatti pittorici, ma non si può escludere che questa generazione ereditasse dalla precedente il peso di una sorta di sconfitta e in retaggio una tendenza figurativa che negli anni trenta non appare destinata a trovar seguito o consensi.

E infatti in questo tempo l’avventura della prima generazione di oppositori al giottismo trionfante può dirsi conclusa.

E’ acquisizione recente il ruolo non secondario assunto nei primi due decenni del secolo da alcuni antagonisti di Giotto, Lippo di Benivieni e il ‘Maestro di Figline’ in primis; non meno nuova è la convinzione che essi facciano parte per certi aspetti di una corrente di opposizione al predominio giottesco che qualifica la propria autonomia col ricorso agli esiti appassionati di una espressività di più antica origine; si veda il caso altissimo del gruppo di opere che si raggruppa intorno alla ‘Pietà’ piena di dolce malinconia del Museo pistoiese, una personalità di primo piano da ricondurre, intanto, nel numero dei primi senatori giotteschi fiorentini4. Bisogna dir subito che quella scelta e tali propensioni non giovarono in nulla alla loro affermazione in Firenze, benché la qualità dei loro dipinti lo avrebbe ampiamente meritato. Anche se a tutti certo non accadde quello che le notizie conservate e le opere lasciano presumere per Buffalmacco trovatosi costretto a cercar committenze ben lontano dalle mura cittadine5, i pittori di questa corrente risultano estranei alla rete consolidata di assegnazioni civili e religiose su cui poterono invece contare Giotto e i suoi diretti discepoli o collaboratori. Per ciò che è noto, tutto lascia credere che a quest’ultimi fossero normalmente riservate tavole di destinazione pubblica o cappelle da affrescare; a parte Giotto stesso, dal Daddi a Taddeo in Santa Croce fino al Iacopo del Casentino del tabernacolo di Mercato Vecchio. In tali condizioni verrebbe fatto di pensare che il richiamo esercitato dai pittori dissidenti sulla generazione allora in apprendistato nelle botteghe fosse minimo e che anzi la tendenza figurativa da essi incarnata fosse destinata a spegnersi con loro. Comunque, se leggiamo bene, questo atteggiamento indipendente dal consolidato ‘razionalismo’ giottesco divenuto per tanti legge non scritta e tuttavia vincolante, questa propensione all’espressività appassionata o dolorosa che può giungere all’espressionismo (si veda il ‘Maestro del 1310’ o il ‘Maestro Espressionista di Santa Chiara’) in luoghi meno toccati dalla continua influenza che la maggiore città toscana esercitava sui pittori in formazione anche con la sola presenza di tante opere, punto di riferimento e norma insieme, ha un séguito nei primi due decenni anche più largo di quel che di solito si è disposti a ritenere. Vi si può includere il ‘Maestro di San Martino alla Palma’ che infine ritrova la sua giusta dimensione storica in grazie di una corretta datazione dell’opera da cui prende il nome, da spostare negli anni venti come giustamente suggerisce il Bellosi con validi argomenti6; precisazione importante che infine varrà a distaccare le opere di questo maestro da quelle del Daddi, che è tutto posteriore nelle opere note. E infatti anche a noi non sembrava possibile che tempere quali l’altarolo Perkins, la ‘Crocifissione con San Francesco’ di Berlino o la ‘Deposizione’ di Oxford potessero datarsi oltre il secondo decennio — dipinto quest’ultimo dove la tensione espressiva raggiunge quasi i toni appassionati dei primi oppositori di Giotto, la stesura formale non differisce troppo da quella che caratterizza il gruppo di tavole da togliere al ‘Primo miniatore di Perugia’ (si vedano a confronto le due ‘Incoronazioni di spine’ di Strasburgo e di Manchester) — o che altre, quali la tavola di Santa Brigida all’Opaco o quella stessa di San Martino alla Palma, più mature, dove il tratto si distende in una pittura teneramente larga, in una forma piena e cattivante, non costituissero una sorta di parallelo con quelle della maturità del ‘Maestro di Figline’. Citazione non casuale perché, se leggiamo bene lo sviluppo del secondo maestro pistoiese che stiamo illustrando, in Pistoia le più antiche propensioni del ‘Maestro del 1310’, maturate alle sopravvenienti novità fiorentine, sortiscono in un punto l’effetto di un ‘Maestro di San Martino alla Palma’ rivisitato alla luce di Maso di Banco /tavole 18, 19/7.

 

 

 

Si vuol suggerire cioè che negli anni trenta in Pistoia le più moderne sollecitazioni subiscono una reinterpretazione che le riconduce all’interno di suggestioni più antiche, e sempre vitali. E se ne vedano dunque gli sviluppi più da vicino.

 

 

Al polittico aggrottato e pungente di Empoli può avvicinarsi il superstite tabellone di sinistra di una croce dipinta ora nella collezione Cini di Venezia /tavola 6/; i legami vi sono strettissimi in una replica di soluzioni formali che vanno dalla marcatura della mascella alle braccia dai polsi tozzi e strozzati all’avvio di mani che similmente inarcano lunghissime dita in curvature improbabili; vi è anzi in questa tabella un ricordo anche più vivo del ‘Maestro del 1310’ e dei suoi compagni di corrente per la smorfia dolorosa con cui la figura si accorda al tema dell’opera. La qualità di questo  frammento fa molto rimpiangere lo smembramento della croce; speriamo che possa un giorno essere ricomposta8.

Dal polittico di Empoli a quello di Popiglio la variazione accertabile è solo costituita da un certo allargarsi delle forme, ma contenuto; da un qualche spianarsi di rughe come nel volto del giovanile San Lorenzo; il resto corrisponde. Ma reputando ancora fermamente una lettura ravvicinata sempre vantaggiosa al ricercatore, non ci sottrarremo al compito di marcare le concordanze che a noi sembra di scorgervi. Lasciando le più facilmente individuabili: il motivo che orna il bordo del manto delle figure centrali, le grandi stelle a otto punte, i boccoli di recente acconciatura sulle teste dei bambini (delle mani si è già detto un paragrafo sopra), le aureole ornate da un doppio giro di foglioline; diremo degli ‘amuleti’ che pendono agli stessi nastri, crocellina e rametto di corallo, delle sottili lumeggiature che segnano palpebre e labbra, delle narici marcate quasi come in un ‘Maestro del 1310’ /tavole 9, 10/.

 

 

 

Da collocare fra il polittico di Empoli e quello di Popiglio è anche il frammento di una ‘Madonna in trono col Bambino e angeli’ della collezione Acton9 /tavola 7/; sulla sua appartenenza all’anonimo maestro pistoiese non sembra possano avanzarsi dubbi, se mai è più difficile stabilire in quale successione temporale debbano essere ordinate le tre opere. Se per ora si dispone fra il polittico di Empoli e quello di Popiglio è solo per ragioni di derivazione; la tavola Acton ha infatti una certa quale asciuttezza della stesura propria del dipinto empolese, come può vedersi nelle mani dalle dite lunghe e sottili (si tenga conto anche di quelle che si appoggiano al trono, magro resto dei due angeli fiancheggiatori; e non sfugga il particolare estroso del piede destro del Bambino, in entrambe le opere curiosamente arrovesciato e come visto dal di sotto: quasi una firma nella sua singolarità); mentre al tempo stesso non mancano le caratteristiche che distinguono il polittico di Empoli. Ma come detto, ci preme ora riunire un gruppo di opere legate da una stretta affinità formale e da una stessa cultura figurativa; riunite le membra sparse di questo secondo maestro pistoiese sarà forse più facile recuperare il registro dei tempi dei suoi dipinti.

 

 

Fa gruppo con le opere sin qui illustrate un grande affresco frammentario in un locale a pianterreno del Palazzo comunale di Pistoia /tavola 15/. Più fortunato dell’altro datato 1360 e di altra mano, posto al primo piano dello stesso edificio, e uscito quasi distrutto dalle indiscriminate iniezioni di cemento praticate alla struttura muraria in un recente restauro, questo tuttavia si conserva sia pure lesionato e mancante della fascia inferiore. L’impianto vi è grandioso, la composizione si distende sulla vasta parete allargandosi ai due lati del trono edicola di ampie proporzioni fino a comprendere i quattro santi in primo piano in un unico intento prospettico e monumentale. E’ questa un’opera importante, e ne fanno fede almeno due fatti: la destinazione pubblica in una sala riservata al governo civico della città e l’alta qualità dell’affresco. Si può lecitamente ritenere che gli amministratori cittadini abbiano voluto assegnare un affresco nel Palazzo comunale al miglior pittore civico del momento e quindi legittimamente concludere che il creato del ‘Maestro del 1310’ rappresentasse negli anni quaranta una tradizione figurativa che poteva già dichiararsi locale. Conforta in tal senso la considerazione che, al contrario, gli ordini religiosi non erano alieni nello stesso decennio dal commissionare opere pittoriche a maestri non pistoiesi; si può citare la tavola di Pietro Lorenzetti del 1340, gli affreschi di Maso e di Dalmasio in San Francesco; questa è a nostro avviso una conferma indiretta dell’origine pistoiese dell’autore dell’affresco di committenza civica nel Palazzo comunale. Si è detto dell’alta qualità di quest’opera, ma implicandone l’apprezzamento un discorso più disteso sulla situazione della cultura figurativa in Pistoia negli anni quaranta proprio in ragione delle citate presenze di pittori forestieri è bene portare prima a termine la raccolta di tutti gli elementi utili ad una valutazione più completa di quest’affresco che noi riteniamo fondamentale.

Un altro affresco si lega a quello del Palazzo comunale per precisi riferimenti formali ancora visibili sotto i ripassi e le carezzature di un culto sempre voglioso di immagini rilucenti e come nuove: quello dell’oratorio della Madonna del letto, incorporato nell’attuale chiesa di Santa Maria delle Grazie, legato a un fatto miracoloso avvenuto nel 1336 /tavola 12/.

 

 

L’iconografia, abbastanza singolare, trova ragione nell’accadimento in cui pare venisse coinvolta una fanciulla da sette anni inferma in un letto del locale ospedale la quale, invocando la morte, ebbe per contro la sorpresa di vedersi visitare dalla celeste consolatrice degli infermi giunta a volo col figlio in braccio e di scoprirsi subitamente guarita. La celeste visione chiese quindi di un frate, predisse terribili sventure a sanamento dei peccati del mondo e disparve, ma non prima di aver lasciato sul muro a cui era poggiato quel letto un’impronta a sua immagine e somiglianza10. Di certificabile resta un letto nella cui testata compare dipinta la Madonna col Bambino, un monaco e una fanciulla con la data 1336 e questo affresco collocato ín una parete dell’antico oratorio trecentesco che le cronache dicono subito eretto a memoria di quel gran fatto. Certo il dipinto, con le sue corone e stelle soprammesse e la raggiatura rifatta da qualche doratore digiuno di convenienze prospettiche (tracce di quella originale sussistono tuttavia), dovette godere di un culto spiccato: non è quindi da credere che i pistoiesi tardassero molto, dal fatto, a domandar l’oratorio e l’affresco celebrativi. E questo a noi fa gioco perché avendo distinto il primo maestro pistoiese del Trecento con il numerale 1310, questo secondo potrebbe convenientemente appellarsi ‘Maestro del 1336’, che è inoltre una rispondente scansione temporale dell’attività dei due pittori.

 

 

La ricognizione delle opere, certe a nostro avviso, del ‘Maestro del 1336’ può concludersi con questa ‘Santa Caterina’ /tavola 13/, resto di un affresco nella parete sinistra di San Bartolomeo in Pantano che mostra l’aspetto che doveva avere il volto della Madonna ‘del letto’ prima dei ripassi.

Terminata la ricostituzione del corpus pittorico del secondo maestro trecentesco pistoiese, operazione che abbiamo cercato di condurre sul filo di consonanze formali facilmente riscontrabili anche dalle tavole che accompagnano il saggio, c’è da chiedersi quale sia il suo ruolo nella cultura figurativa della città nel secondo quarto del secolo e, più in generale, quali i rapporti con i pittori contemporanei operanti in Toscana. Bisognerà intanto sottolineare che dal polittico di Empoli all’affresco del Palazzo comunale sempre è possibile estrarre dai suoi dipinti un qualche stilema che direttamente rinvii alle opere del ‘Maestro del 1310’. Si è detto dell’opera empolese che proprio in ragione di un certo risentito arcaismo abbiamo proposto di collocare in apertura dell’attività del ‘Maestro del 1336’, si potrebbe insistere sulla marcatura espressionistica del frammento Cini; conviene seguirne le tracce nell’affresco del Palazzo comunale dove per la prima volta il pittore dà prova di accogliere elementi di cultura nati al di fuori delle mura cittadine.

 

   

 

Il volto della Madonna vi suona arcaico quasi come nella pala di Angers, certo in ragione della perdurante incertezza nel ‘far girare’ l’occhio sinistro, o per lo smungersi improvviso di una guancia come nel polittico del Museo civico del ‘Maestro del 1310’; il santo vescovo alla sinistra del trono nonostante le svelature rinvia con buona approssimazione al ‘San Bernardo’ del pentittico sopra citato, tramite il ‘San Pietro’ del polittico di Popiglio che ne è vicino parente /tavole 22, 23a/; ma accanto a questi riferimenti che assumono quasi il valore dí citazione si scorgono soluzioni formali che non si spiegano con il solo ricorso al magistero del ‘Maestro del 1310’. E’ il caso degli angeli che, specularmente, a gruppi di tre affiancano la figura centrale /tavole 16, 17/.

 

 

 

A cominciare dalla disposizione dei sei angeli, che per simmetrie di profili e di tre quarti o con l’assetto di volti decisamente frontali crea spazio e profondità intorno all’edicola monumentale, si è ben lontani da quanto potesse produrre un pittore a cui sovvenissero solo i precedenti del `Maestro del 1310’: qui si respira aria di Maso. La citazione di un tale nome riesce meglio quando oltre alle collusioni formali si può agganciare ad un termine temporale per quanto possibile preciso; osserveremo allora, sulla scia delle tanto producenti notazioni sul costume del Bellosi, che gli angeli della tavola di Pietro Lorenzetti ora agli Uffizi ma già nel San Francesco pistoiese hanno uno scollo di ampiezza quasi pari a quello dei loro colleghi del Palazzo comunale: e quella tavola è datata 1340; e che la ‘scollatura’ della Madonna di San Giorgio a Ruballa è prossima a quella della figura centrale nell’affresco del Comune di Pistoia: è appena il caso di ricordare che la tavola già servita al Longhi per suggerire una attiva presenza di Maso prima del ‘40 è datata 133611. Si può quindi ritenere, crediamo fondatamente, anche con il solo supporto dei riferimenti di costume, che il grande affresco nascesse verso il ‘40; una data che converrebbe benissimo anche agli affreschi di Maso nella chiesa pistoiese di San Francesco quale probabile terminus ante quem. In effetti a guardare da presso questi angeli viene subito alla mente l’ ‘Incoronazione’ della collezione Rothermere o altre opere di Maso, segnatamente il polittico di Santo Spirito dove la ‘Santa Caterina’ si presta bene per una producente comparazione /tavole 19 a, b/.

 

 

Ad evidenza, consonanze tanto marcate sono la spia di una conoscenza puntuale delle opere di Maso, se non di una diretta frequentazione dei due pittori al tempo dei lavori in San Francesco. D’altra parte la forte personalità del pittore fiorentino doveva accordarsi bene, almeno per un aspetto, con le propensioni dell’erede del ‘Maestro del 1310’, se è vero che Maso affida almeno la metà della sua forza di suggestione ad un uso felicissimo del colore, e se è altresì vero che l’aspetto cromatico è la prima preoccupazione degli oppositori giotteschi della prima generazione, impegnati a coagularvi temi di passione e di dolore, pronti a farne una bandiera da contrapporre alla speculazione equilibratissima di Giotto.

Dai fatti pistoiesi degli anni quaranta non va lasciato fuori il caso abbastanza recente di Bonaccorso di Cino e Alesso d’Andrea12. Spettino a l’uno o a l’altro dei due pittori, le ‘Virtù’ della cattedrale pistoiese si inseriscono di forza, o meglio di diritto in ragione dell’alta qualità, nel panorama pittorico della città, che ormai può disporre di testi figurativi di varia estrazione culturale e di cui i sopravvenienti pittori locali terranno variamente conto, come vedremo in altra occasione.

Nel lasciare l’analisi della pittura pistoiese del Trecento alla cesura temporale di metà secolo potremo, riassumendo, assegnare al ‘Maestro del 1336’ sia il ruolo di conservatore della cultura figurativa locale sia quello di attivo aggiornatore di quest’ultima; e indicare nella personalità di Maso l’elemento innovatore di maggior spicco e seguito, tale, in prospettiva, da porre decisamente in sottordine le presenze di Pietro Lorenzetti nel ‘40 e di Taddeo Gaddi un decennio dopo. E infatti gli altri frescanti che operando in Pistoia nel quarto decennio costituiranno materia di meditazione per i pittori locali della seconda metà del secolo, tutti, in varia misura, risentono di Maso; si può citare il quasi ignoto Giovanni di Guido fiorentino di cui si conserva un affresco datato 1341 o il ricordato binomio Alesso-Bonaccorso, nodo ancora da sciogliere e che dovrebbe riservare qualche sorpresa. Un caso a parte è costituito dall’attività pistoiese del supposto Dalmasio di cui alcuni pittori locali risentono nei decenni seguenti maturando un altro aspetto singolare e caratteristico che sbocca nel caso rilevante di ‘Antonio Vite’ a fine secolo. Il ‘Maestro del 1336’ chiude dunque un’epoca, quella che vede Pistoia sostanzialmente appartata in una ritrosa meditazione dei fatti figurativi contemporanei, di cui dà una versione di singolare espressività e di aderente compiutezza formale, e che tale rimane a nostro avviso dal tempo di Manfredino all’affresco del Palazzo comunale. Qui, per la prima volta, i dati di cultura sopravvenienti non subiscono una completa reinterpretazione, ma si pongono come vero e proprio modello di cui il pittore fornisce una versione locale senza aggiungere nulla o pervenire a risultati di spiccata originalità. Quest’ultima resta affidata ai brani dove più forte è l’eco del ‘Maestro del 1310’, come si è visto, e in quelli che saranno per Giovanni di Bartolomeo Cristiani i primi testi domestici di studio, quali il San Giovanni Evangelista (?) all’estrema destra dell’affresco del Comune /tavola 23 b/.

 

 

 

Ma anche di questo in altra occasione, con l’avvertenza che l’aver riempito il vuoto che divideva il noto Manfredino di Genova, probabilmente del 1292, dal dossale del Cristiani datato 1370 aiuterà un poco a spiegare, come era facilmente prevedibile, la formazione e il percorso di quest’ultimo, non più fiore improvviso nato dal nulla in terra incolta. Ricordando l’esperienza di un analogo recupero condotto in terra aretina u, saranno possibili aggiustamenti nel catalogo del ‘Maestro del 1336’, come appunto è avvenuto per i pittori precedenti Spinello; e anzi per quest’ultimi si è ancora lontani da una sistemazione di comune consentimento; ciò che noi riteniamo ora difficile sarà invece l’annessione al corpus del secondo maestro pistoiese del polittico della collezione Cini, forse del 1363, già servito per ipotizzare l’attività di un ‘Maestro Francesco’ di cultura pisano-fiorentina 15. Nel presentare il ‘Maestro del 1336’ si è voluto restringere il corpus di questo pittore ai numeri che più davano affidamento di ‘tenere’, e qualche cosa si è lasciato pur fuori, di incerto, con un’eccezione: l’affresco del Palazzo comunale per il quale chi scrive conserva un ultimo tenue dubbio, spintovi anche dagli amici Bellosi e Boskovits a cui l’ho mostrato. Ma se sono disposto a concedere una riserva per questa attribuzione, che però ho fiducia le nuove acquisizioni confermino nei termini non dubitativi con cui appare in calce alle illustrazioni di questo saggio, molto meno sono disposto a ritenere che il polittico Cini, dove un orcagnismo senza ritorno travolge quel poco di vaga apparenza pistoiese visibile nell’ ‘Annunciazione’ e che per me è invece da avvicinare a certo momento di Giovanni di Nicola, possa collocarsi in area pistoiese. Se per l’affresco del Palazzo comunale, dovendo guardar lontano, si può al più ipotizzare un suo contributo allo scioglimento del nodo Alesso Bonaccorso, per il polittico Cini non si vede come quest’opera possa infatti entrare con il suo fiorentinismo d’accatto e senza sorprese nell’ambito di una cultura che non conserva segni di aver seguito tale corrente pittorica nella seconda metà del Trecento; o almeno chi scrive non ne ha trovati nei dipinti pistoiesi della seconda metà del secolo a sua conoscenza.

E’ con una sorta di rimpianto che si chiude questo secondo intervento sulla pittura pistoiese del Trecento; quello di lasciare il tempo dei pittori dal forte carattere, dalla marcata espressività, della stoffa dei caposcuola, per i loro ripetitori e volgarizzatori che saranno oggetto della prossima puntata.

 

 

 

Non che quest’ultimi difettino di qualità da non meritare di esser resi noti, anzi; è solo che non si incontreranno troppo presto passi di rara suggestione come quelli che mostra la tavola di Angers, ancor meglio apprezzabili dopo la recente pulitura, o l’altro che offre la tavola centrale del polittico di Popiglio /tavola 5/ che se pubblicata qualche decennio fa, al tempo del Berenson, difficilmente avrebbe scansato per una sua apparenza inspiegabilmente ‘esotica’ in terra toscana, una qualche definizione orientaleggiante o di basso mediterraneo, a scelta.

 

NOTE

 

1) Nel primo dei saggi dedicati alla ricostituzione della pittura pistoiese del Trecento (cfr. P. P. Donati, Il punto su Manfredino d’Alberto, in ‘Bollettino d’Arte’, nn. 3-4, luglio-dicembre 1972, p. 145), anticipavo sunteggiando gli argomenti e i pittori che avrebbero costituito il seguito della ricerca. Fra quest’ultimi citavo il ‘Maestro di Popiglio’ al quale intendevo riferire il gruppo di opere qui pubblicate che vengono a costituire la seconda notevole personalità della pittura pistoiese del Trecento. Quel primo battesimo andrà ora mutato in quello di `Maestro del 1336’ che ritengo più adatto a marcare la misura dello stacco temporale fra questo pittore e il ‘Maestro del 1310’ (cfr. P. P. Donati, Per la pittura pistoiese del Trecento, I – II Maestro del 1310, in ‘Paragone’, n. 295, settembre 1974, pp. 3-26); questo aggiustamento consente inoltre l’uso di tale denominazione rimasta libera per riunire un altro gruppo di dipinti di questa scuola; fra questi, infatti, uno venne del pari eseguito per Popiglio, piccolo centro della montagna pistoiese. D’altra parte, dopo la mia comunicazione all’Istituto Tedesco di Storia dell’Arte di Firenze il 1° febbraio 1972 sul tema: La pittura pistoiese del primo Trecento e una corrente di espressionisti giotteschi nell’Italia centrale, l’amico Miklòs Boskovits (Pittura fiorentina alla vigilia del Rinascimento, Firenze, 1975, pp. 14s e 250, n. 254) ha già dato notizia di questo gruppo meno antico e di più corrente qualità riferendolo al `Maestro di Popiglio’ tanto che per chiarezza è ora anche indispensabile questo nuovo battesimo.

2) Il polittico fu ricomposto nel 1956-57 da U. Baldini (Itinerario del Museo della Collegiata, Empoli, 30 novembre – 2 gennaio 1957, Firenze 1956, p. 9) il quale ritenne che ‘il polittico, attribuito a scuola senese del XIV secolo, poi a scuola pisana, è forse invece di scuola pistoiese’. In precedenza, i quattro santi erano stati avvicinati alla scuola pistoiese da U. Procacci (vedi il catalogo della Mostra di opere d’arte restaurate, II, Firenze, 1947, schede nn. 53, 54: Pittore fiorentino dei primi decenni del XIV sec., Quattro santi, 1,12 x 0,68).

3) Il polittico di Popiglio fu riferito ad ambiente pistoiese e attribuito allo stesso pittore della tavola centrale del polittico di Empoli, allora nella cappella di Santa Lucia in Collegiata, da U. Baldini (catalogo della Mostra di opere d’arte restaurate, Firenze, 1955, scheda n. 5). Per il recente restauro, si veda: M. Chiarini, Dipinti restaurati nella diocesi di Pistoia, Pistoia, 1968, scheda n. 3.

4) Si tratta della tavola già data dal Longhi (Apertura sui trecentisti umbri, in ‘Paragone’, n. 191, gennaio 1966, pp. 3-17) al suo ‘Primo miniatore perugino’; concordo con il Bellosi (Buffalmacco e il Trionfo della Morte, Torino, 1974, p. 75) nel ritenere questa tavola di area fiorentina e anzi vorrei spingermi oltre nell’accostare questo dipinto alle opere di Lippo di Benivieni; ma di questo in altra occasione con nuovi argomenti.

5) L. Bellosi, op. cit., pp. 68 e segg.

6) Comunicazione orale di L. Bellosi.

7) Si allude all’affresco del Palazzo comunale di Pistoia più avanti illustrato.

8) Il frammento mi è stato cortesemente segnalato da Luciano Bellosi.

9) È stata pubblicata da M. Boskovits, Pittura umbra e marchigiana fra Medioevo e Rinascimento, Firenze, 1973, p. 20, fig. 53, per il suo ‘Francesco Pisano’ di cui vedi più avanti nel saggio. La ‘Madonna col Bambino’ di Angers pubblicata a tavola 52 è di scuola pistoiese ma di un pittore che si pone al séguito del ‘Maestro del 1336’ con altre opere che verranno pubblicate nel prossimo intervento.

10) G. Dondori, Della pietà di Pistoia…, Pistoia, 1966, pp. 102-106.

11) R. Longhi, Qualità e industria in Taddeo Gaddi ed altri, II, in ‘Paragone’, n. 111, marzo 1959, p. 5. Sull’aiuto che gli elementi di costume possono fornire quando si tratti di datare un’opera priva di riferimenti temporali, Luciano Bellosi promette un saggio sulle scollature degli abiti, in genere tanto più accollati quanto più antico è il dipinto nel Trecento. Per altre osservazioni sul costume, vedi: L. Bellosi, op. cit., pp. 41 e segg.

12) Vedi: M. Meiss, Notable disturbances in the classification of Tuscan Trecento paintings, in ‘The Burlington Magazine’, CXIII, 1971, pp. 178 e segg.; anche per la bibliografia precedente.

13) Già nella chiesa di San Marco, ora distrutta, si conserva nel Palazzo comunale di Pistoia.

14) Cfr. P. P. Donati, Per la pittura aretina del Trecento, in ‘Paragone’, n. 215, gennaio 1968, pp. 22-39; n. 221, luglio 1968, pp. 10-21; n. 247, settembre 1970, pp. 3-11; L. Bellosi, op. cit., p. 55, nota 7; A. M. Maetzke, Arte nell’aretino, recuperi e restauri dal 1968 al 1974, Catalogo dei dipinti, sculture e arti minori, Firenze, 1974.

15) M. Boskovits, op. cit., 1973, p. 20.

 


 

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